Lo Stato, per raggiungere i suoi scopi, utilizza risorse prelevate in maniera coatta dalla collettività, cioè da cittadini e imprese. Questo accade in tutto il mondo. Lo Stato italiano, però, per decenni è riuscito a moltiplicare i suoi scopi, e così oggi arriva anche a prelevare risorse sempre maggiori dalla collettività (come dimostra l’elevatissima pressione fiscale). Per capire se sia possibile invertire il fenomeno – e quindi ridurre la spesa pubblica per ridurre le tasse e così rilanciare l’economia – è utile tentare una prima mappatura del fenomeno “spesa pubblica”: quanta ce n’è in Italia? E quali sono i principali capitoli di spesa?
In prima approssimazione, è utile osservare che la spesa pubblica in Italia – pari a 801 miliardi (nel 2012) – in percentuale è arrivata negli ultimi anni a superare la metà del prodotto interno lordo (Pil) del nostro Paese. Secondo i dati più aggiornati, quelli pubblicati da Banca d’Italia e Istati, nel 2012 la spesa pubblica era pari al 51,2% del Pil. Ciò vuol dire che per ogni euro di ricchezza prodotta, ci sono oltre 50 centesimi di spesa pubblica. I dati dell’Ocse, fermi però al 2011, consentono anche qualche paragone internazionale: se la spesa italiana nel 2011 era pari al 49,9% del Pil, quella tedesca era pari al 45% (inferiore di 5 punti rispetto a quella italiana) e quella francese invece al 55,9% (superiore di 5 punti rispetto a quella italiana). Il livello della spesa pubblica rispetto al Pil, però, non è l’unico indicatore da tenere presente: a pesare c’è anche la composizione della spesa pubblica e soprattutto la sua efficienza. Valutare quest’ultima è complesso, e si potrà fare però andando a valutare i singoli capitoli di spesa: da li emerge chiaramente che l’Italia, oltre a spendere molto, spende anche “male”.
Per ora però, a una prima mappatura, vediamo la composizione della spesa.
Il totale delle uscite dello Stato, lo abbiamo visto, ammonta a 801 miliardi e 92 milioni di euro nel 2012, l’ultimo anno nei dati della Banca d’Italia. Una prima distinzione che si può fare è quella tra spesa “corrente” e spesa “in conto capitale”. La prima, composta di tutte le voci di spesa che devono essere rinnovate di anno in anno (dagli stipendi dei dipendenti pubblici alle pensioni, passando per gli interessi sul debito), ammonta a 753 miliardi. La spesa in conto capitale, invece, è costituita da investimenti fissi lordi e contributi agli investimenti (quindi strade, ponti, scuole, eccetera), ed è pari a quasi 48 miliardi. Negli ultimi anni è stata soprattutto la spesa in conto capitale ad essere stata tagliata: la spesa per investimenti era a 62,5 miliardi l’anno nel 2007 ed è scesa a 47,8 miliardi nel 2012; la spesa corrente invece è passata da 686 miliardi a 753 miliardi negli stessi sei anni. Come ha scritto Paolo De Ioanna, già gran commis di vari ministri dell’Economia ed esperto di finanza pubblica, nel suo libro “La voragine. Inghiottiti dal debito pubblico” (Castelvecchi, 2012): “Ridurre le spese in conto capitale è più facile perché esse non producono reazioni immediate, come invece la chiusura di un ospedale o di una scuola. Ma l’effetto negativo di lungo periodo di questa contrazione è molto importante. Non si modernizzano le infrastrutture, non si investe nella ricerca, non si migliora l’assetto idrogeologico, non si favoriscono le condizioni per incentivare le attività produttive. Tutto questo riduce le potenzialità di sviluppo, deprime in altre parole la crescita”.
Nel capitolo “spesa corrente”, a sua volta, si può distinguere tra spesa “primaria” e spesa “per interessi”. Dei 753 miliardi destinati alla spesa corrente, infatti, 86,7 miliardi sono destinati al pagamento dei sottoscrittori del nostro debito pubblico. Tale spesa per interessi, superiore a un decimo della spesa pubblica totale, è “rigida”, cioè difficile da rimodulare, dipendendo essenzialmente da due fattori: il tasso d’interesse sui titoli di Stato, che misura il premio corrisposto ai sottoscrittori, e lo stock del debito accumulato (maggiore lo stock, maggiore il numero dei titoli su cui occorre pagare gli interessi, maggiore la spesa per interessi). Riducendo il debito pubblico, e quindi il suo costo, si libererebbero dunque ulteriori risorse, eliminando la necessità di esigerle (via tasse) dai cittadini.
Per sintetizzare: gli investimenti sarebbe meglio non toccarli, ma la politica non si fa problemi a ridurli; gli interessi sul debito non si comprimono con la bacchetta pubblica. Poi però c’è tutto il resto della spesa corrente che invece l’Italia fatica a contenere. La voce più grande dei 753 miliardi di spesa pubblica corrente è costituita dalle prestazioni sociali in denaro (311,4 miliardi), perlopiù spesa pensionistica (oltre i due terzi). Poi ci sono i redditi da lavoro dipendente (165,3 miliardi), cioè gli stipendi dei dipendenti pubblici. Al terzo posto ci sono i consumi intermedi (89 miliardi), cioè tutto quello che viene impiegato per far funzionare l’enorme macchina ammnistrativa delle amministrazioni centrali e locali italiane.
Per dirlo in altre parole, e in percentuali, ecco cosa ha scritto Piero Giarda nel suo rapporto sulla spesa pubblica commissionatogli dal presidente del Consiglio Mario Monti e pubblicato nel maggio 2012, riferendosi alla sola spesa corrente: “La componente più rilevante della spesa pubblica italiana risulta essere la spesa per i consumi pubblici (in sostanza la somma di costo del lavoro e degli acquisti di beni e servizi utilizzati nella produzione ed erogazione di servizi pubblici alla collettività) con il 45,3% del totale; seguono la spesa per pensioni con il 32,8%, poi i trasferimenti alle famiglie con il 9,8%, i trasferimenti a imprese e le altre spese con il 4,6% e le spese per investimenti e contributi in conto capitale alle imprese con il 7,5% del totale”.
Una prima mappa, giusto per orientarsi, e per ricordare al contribuente di quale massa di risorse stiamo parlando. Si tratta poi di scavare nei singoli capitoli di spesa, di cercare di misurare il livello di efficienza di questa spesa pubblica – operazioni che da anni nemmeno lo Stato italiano riesce a fare con completezza – e infine di capire cosa sia possibile razionalizzare per liberare l’economia e l’intrapresa privata.