A volte può capitare di ascoltare persone che si definiscono credenti (“qualcosa ci deve essere”), ma “la Chiesa, la messa, i preti, i comandamenti… non credo servano a niente!”. Questo modo di pensare molto diffuso, in particolare tra gli adolescenti, rimanda alla distinzione tra spiritualità e religione in senso proprio.
La prima sarebbe un insieme di idee o concetti, tendenzialmente astratti e fumosi e con generiche coloriture emotive, mentre la religione sarebbe un apparato esteriore fatto di ruoli, relazioni, azioni, istituzioni che sono – tendenzialmente – giudicati superflui e inutili. Una vera vita religiosa ha ovviamente un nucleo spirituale-personale. Ma un tale modo di pensare, se dicotomizzato, è ovviamente dannoso per un duplice motivo: innanzitutto rischia di creare una religiosità fai-da-te, comoda, non particolarmente impegnativa, che risulta in definitiva sterile nel rendere migliore il mondo e la vita delle persone; in secondo luogo, perde di vista la vera natura della persona umana, che non è una monade intellettuale o sentimentale, ma l’unione inscindibile – secondo la dottrina cristiana – di spirito (la relazione con Dio), anima (la relazione con i propri stati mentali) e corpo (la relazione con gli altri nel mondo).
Tramite seri e rigorosi studi scientifici si può indagare quali sono gli effetti concreti di una religiosità fine a se stessa. E’ di aiuto la recente (novembre 2012) ricerca dello psichiatra britannico Michael King (qui il riassunto dello studio), che come evidenza la recensione della Duke University, è il più ampio studio fino ad ora compiuto circa la salute mentale di coloro che si definiscono spirituali ma non religiosi. L’intervista ha coinvolto un campione di 7.403 inglesi, suddivisi poi tra non credenti, religiosi, spirituali ma non religiosi. Rispetto agli altri, i religiosi mostrano in particolare meno problemi di droga (-27%) e alcol (-19%), e questo risultato non dice nulla di nuovo, ben conoscendo gli effetti positivi della religione sulla salute (vedi Handbook of Religion and Health).
Il risultato interessante riguarda gli spirituali non religiosi, che stanno peggio non solo dei religiosi, ma anche dei non credenti: rispetto a questi, gli “spiritualisti” sono più propensi a usare droghe (+24%) e a esserne dipendenti (+77%), ad avere disturbi alimentari (+46%), disturbi d’ansia (+50%), fobie specifiche (+72%), nevrosi (+37%) e a ricorrere a psicofarmaci (+40%).
Va precisato che lo studio non fornisce indicazioni causali: gli spiritualisti stanno peggio, o chi sta peggio tende a diventare spiritualista? In ogni caso, considerazioni simili permettono di far capire che “c’è qualcosa che non va” a coloro che vogliono credere a modo loro. E solo il passo compiuto verso una comunità, con tutto ciò che comporta, permette di compiere un vero avanzamento esistenziale.