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Sport, speranza e autodistruzioni, questo raccontano le pagine che ospitano le storie di Riccardo Riccò, il giovane ciclista modenese di 27 anni che ha rischiato la vita per una infezione dopo un'autoemotrasfusione, una pratica considerata doping che lui - ha spiegato i medici - ha praticato in solitudine conservando il sangue in frigo per venticinque giorni, tra il latte e gli omogenizzati del figlio piccolo, e quella di Emiliano Mondonico 63 anni, allenatore dell'Albinoleffe, squadra bergamasca di serie B, operato all'addome per rimuovere una massa tumorale e pronto a tornare in panchina a poche settimane dall'intervento. Uno che sta attaccato allo sport che è la sua vita anche quando tutto sembra remargli contro; l'altro che sembra buttare via la sua vita insieme allo sport che tante soddisfazioni gli aveva dato in passato. Uno, Mondonico che abbraccia la speranza come se si scendesse in campo per la partita della vita; l'altro, Riccò, che imbocca l'ultimo giro, quello dell'autodstruzione del corpo e della carriera come fosse la tappa decisiva del Tour.
E a pensarci bene entrambi sono recidivi: Riccò non scorderà mai l'arresto del 2008 al Giro di Francia proprio per le sue relazioni pericolose con le sostanze proibite; Mondonico ha rivissuto gli incubi di un male contro il quale aveva già combattuto anni fa. Ma uno, Mondonico, ha affrontato la ricaduta con la caparbietà di chi può perdere una partita ma lotta e spera fino ai play-out; l'altro, Riccò, ci si è rituffato dentro con l'incapacità di chi non ha saputo fare tesoro dei propri sbagli, testimone negativo di quella parte di ciclismo che non sa affrancarsi da pratiche illecite e dannose, che nutre con la chimica la voglia di successo."Quello di Riccardo Riccò - osserva Repubblica - è il dramma di un ciclismo che non sa o non può uscire dalla spirale della farmacia proibita".
Quella di Mondonico è la speranza di uno sport che aiuta a vivere e a superare le difficoltà, che mantiene vivi. "Tutto è stato positivo, come il grande affetto che il popolo del calcio mi ha riservato. Il calcio che è la mia vita - sottolinea Mondonico, più magro di dieci chili, ma rassicurante come un supereroe -. Devo solo ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicini e dato affetto. Grazie, grazie per tutto questo affetto e lealtà. Quando di notte giri da solo e pensi cosa hai nella pancia non è facile andare avanti. Ma a volte basta una pacca sulla spalla per capire che non sei da solo". La storia di Mondonico mi ricorda quella di un caparbio allenatore bresciano che qualche anno fa, dopo un intervento chirurgico per un tumore (il male che lo portò via qualche mese), si presentò a bordo campo in ambulanza per stare vicino alla sua squadra di dilettanti: dal portellone aperto di quell'ambulanza a bordo campo passava la speranza e la voglia di vivere; in campo quello sguardo anche se sofferente era il miglior doping per la voglia di vincere. Un doping omeopatico che mai nessuno potrà mettere fuori legge, un sublimatore di energie che fa bene al cuore e alla mente anche se, forse, non potrà mai cambiare il destino di un uomo. Chissà quante cose avrebbe da insegnare Mondonico a Riccò. L'allenatore lottatore all'atleta che si è bruciato le ali.
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