Spotify, la gallina dalle uova d’oro. Ma di chi?

Creato il 22 febbraio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

L’agenzia Nielsen ha pubblicato il suo annuale report sulla situazione dell’industria musicale: il dominio di Spotify è indiscutibile.

I dati non stupiscono: il consumo di musica fisica è in calo, nonostante la rinascita del vinile, così come lo è l’acquisto della musica online. Regna invece lo streaming, che registra una crescita del 54 %, in linea con i risultati di fine 2013. I consumatori, insomma, tendono a comprare meno, sia fisicamente che virtualmente, e preferiscono affidarsi ai servizi di streaming on-demand.
Lo streaming musicale non si può ritenere una novità assoluta. Pandora nasce nel 2000, Netflix addirittura nel 1997. Deezer e Grooveshark seguono nel 2007, poi è la volta di Rdio nel 2010. Appena un anno fa Apple lancia Beats Music.

Breve storia di Spotify

Solo nel 2008, però, precisamente il 7 ottobre, viene lanciato il servizio destinato a diventare un colosso e a rivoluzionare totalmente l’industria musicale e la fruizione dell’opera creativa: Spotify. Spotify nasce nel 2006 dall’idea di una start-up svedese capeggiata da Daniel Ek e Martin Lorentzon. A gennaio 2015 conta 60 milioni di utenti registrati. Di questi, 15 milioni usufruiscono del servizio a pagamento, mentre i restanti 45 milioni rimangono alla versione base, gratuita. L’impero di Spotify è enorme, eppure lo sono anche le potenzialità future: l’obiettivo è penetrare nei Paesi che ancora non usufruiscono del servizio per alzare sempre di più il numero dei clienti che scelgono di passare alla versione a pagamento. Nel frattempo, il brand verde acceso ha surclassato ampiamente i suoi simili, diventando sinonimo di streaming a livello universale.
Questa crescita non avviene, però, senza polemiche. Spotify ha messo in atto una rivoluzione nell’industria musicale che non è stata ben accolta da tutti. A suo sostegno parlano le case discografiche ed una parte degli artisti che lo utilizzano; si schierano contro, invece, voci dissidenti del mondo della musica, che in alcuni casi non sono proprio comparse di poca importanza. Per quanto riguarda i consumatori, invece, tutti paiono essere entusiasti di Spotify; in effetti l’interfaccia user-friendly e il vasto catalogo offerto non possono che soddisfare e ammaliare anche l’ascoltatore più scettico. Ma perché, allora, il mondo della musica si divide sull’argomento? Cosa c’è di male in un servizio che permette una diffusione della musica che mai nessuno, nemmeno MTV, era riuscito a portare avanti, e che ha riportato una fetta di amanti della pirateria verso canali legali?

Photo credit: Spotify / Perszone van Spotify / CC BY-SA

Secondo Spotify

La prima tappa del viaggio è Spotify Artists, un sito creato ad hoc dalla start-up svedese per spiegare al pubblico, e in particolar modo agli artisti, i meccanismi economici che regolano la divisione dei profitti generati dallo streaming.
Il sito, un’opera sofisticata che riprende la grafica e i colori del brand, inizia illustrando l’obiettivo di Spotify: far rinascere l’industria musicale puntando su un concetto diametralmente opposto rispetto a quello che l’ha governata fino ad ora, ovvero le vendite fisiche. L’idea è semplice: l’americano medio spende in download musicali 5$ al mese; l’ascoltatore che aderisce al servizio premium di Spotify, ne spende 9,99. L’idea, dunque, si sviluppa in due momenti: prima si attraggono nuovi clienti verso il servizio base, poi li si convince a diventare premium subscribers.
La differenza tra livello base e livello premium è data essenzialmente dalla pubblicità: presente nella versione base in forma di spot audio e inserita tra una riproduzione e l’altra, è invece assente nella versione a pagamento. Questa operazione genera, di conseguenza, due tipi di guadagno economico per Spotify: da un lato il profitto deriva dalla pubblicità, dall’altro dal pagamento degli abbonamenti stessi.
A questo punto entra in gioco il nocciolo della questione: le royalties, ovvero la cifra che il possessore della proprietà intellettuale di un bene riceve da chi utilizza tale bene per fini commerciali e/o di lucro. Il pagamento delle royalties a un determinato artista avviene tramite un calcolo che divide gli stream della sua musica per gli stream totali effettuati su Spotify. Una volta stabilito il risultato, Spotify trattiene il 30% del guadagno e paga il restante 70% ai detentori dei diritti. Non è tutto così automatico: i differenti contratti e le regolamentazioni vigenti nei vari Stati portano a variabili complesse che riguardano il singolo caso. In generale, la cifra ricevuta da coloro che possiedono i diritti si aggira attorno ai 0,006$ e 0,0084$ per ogni streaming. Spotify continua mostrando come le royalties pagate per un milione di ascolti della musica di un determinato artista siano di circa 6000$/8400$ e sottolineando come questa cifra sia più alta rispetto a quella pagata dagli altri servizi streaming, YouTube compreso. Inoltre, l’intenzione pare essere quella di aumentare il pagamento delle royalties mano a mano che cresce il numero dei clienti che scelgono di optare per la versione premium, generando quindi un guadagno stabile all’azienda.
Probabilmente i numeri finora incontrati avranno fatto inarcare qualche sopracciglio. In effetti, parlando di industria musicale, ci aspetteremmo cifre ben più alte. Il passaggio fondamentale, però, è quello successivo: fino a ora si è parlato di detentori dei diritti, “right holders“, come li chiama Spotify Artists. Con questa etichetta non ci si riferisce solo agli artisti, ma anche e soprattutto alle case discografiche che li rappresentano. Di conseguenza, il pagamento non passa in modo diretto dalle tasche di Spotify a quelle dei musicisti: dev’essere prima diviso secondo i contratti stipulati tra casa discografica e artista. La conseguenza è prevedibile: il denaro effettivamente percepito dal creatore del brano diminuisce ancora di più. Questa situazione non è circoscritta esclusivamente a Spotifty: a fine 2014 è stato rivelato come il grande successo di Pharrell Williams, “Happy“, abbia portato all’artista solo 2700$ in royalties da Pandora, nonostante il brano sia stato riprodotto ben 43 milioni di volte. Una situazione paradossale che non può che creare polemiche.

Secondo gli artisti

A questo punto è il momento di passare la parola a quegli artisti che negli ultimi anni si sono opposti alla strategia di Spotify. Primo fra tutti, Thom Yorke. L’artista inglese ha ritirato dal servizio di streaming il proprio album solista The Eraser e AMOK della sua band Atoms For Peace. Anche il disco Ultraista, della band del produttore e amico di Yorke, Nigel Godrich, è stato ritirato. La posizione dei due è quella secondo la quale Spotify non aiuti per nulla, ma anzi danneggi, i nuovi artisti (ovvero coloro che più di chiunque altro avrebbero bisogno di sostegno economico per svilupparsi), dal momento che i guadagni ottenuti tramite lo streaming online finiscono nelle tasche delle grandi majors discografiche.
Altro grande nome che ha deciso di ritirare il proprio catalogo da Spotify è Taylor Swift, che si può considerare al momento la popstar americana di maggiore successo. Appena una settimana dopo l’uscita del suo 1989, uno dei pochi album del 2014 a ottenere il disco di platino, l’etichetta della Swift, la Big Machine, ha ritirato l’intero catalogo, probabilmente con l’obiettivo di aumentare le vendite eliminando la possibilità di ascoltare l’album online gratuitamente. A questi colossi si aggiungono altri nomi, più o meno conosciuti: i Black Keys si oppongono in particolare all’enorme ricchezza del fondatore di Spotify, che “possiede 3 miliardi di dollari, è più ricco di Paul McCartney, ha 30 anni e non ha mai scritto una canzone”. In altri casi si tratta di vere leggende della musica i cui cataloghi sono comprensibilmente oggetto di trattative che possono durare anche anni (caso emblematico è quello dei Beatles).

Secondo le majors

E le majors? Cosa ne pensano? Le case discografiche sembrano essere, con alcune sporadiche eccezioni, le più entusiaste di Spotify e in generale dei servizi streaming. Le ragioni sono molte e, nella stragrande maggioranza dei casi, facilmente intuibili: Spotify ha portato alla diminuzione della pirateria, dal momento che molti utenti hanno deciso di abbandonare il download (in questo caso illegale) per usufruire dello streaming online; inoltre, sono i contratti formulati dalle stesse majors a regolare la spartizione dei profitti ricevuti da Spotify tra etichetta e artista. Impossibile negarlo: Spotify è il figliol prodigo che porta una ventata d’aria fresca dopo le grandi delusioni dei “fratelli maggiori”, i supporti fisici, in particolare i cd. Eppure c’è un’altra ragione, questa volta più nascosta, portata alla luce dallo svedese computersweden.idg.se e poi ripresa da TechCrunch e The Guardian nell’estate del 2009: pare che all’epoca il 18% delle quote di Spotify fosse posseduto proprio dalle case discografiche, sopra tutte Sony, Universal, Warner, EMI, Merlin. Supponendo che la situazione non sia cambiata, si spiegherebbe in modo ancora più completo l’amore delle majors per la start-up svedese.

A questo punto una riflessione sorge spontanea: fino ad ora gli artisti che si sono scagliati contro lo streaming l’hanno fatto principalmente opponendosi a Spotify. È palese, però, come siano i contratti stipulati con le case discografiche a regolare quale parte del 70% ottenuto dai rights holders debba andare all’etichetta e quale all’artista. Il problema, allora, è la divisione effettuata da Spotify oppure quella (si suppone piuttosto iniqua, considerando le sconfinate fortune dei patron delle majors) messa nero su bianco dalle case stesse? Una volta tirate le somme, Spotify sembra essere più che altro uno strumento legato strettamente alle majors, un mezzo mosso da queste ultime, così come in passato lo sono stati i supporti fisici. Non si intende sminuire l’autonomia della start-up svedese, alla quale bisogna comunque dare atto di aver rivoluzionato il mercato musicale, quanto ridimensionare l’immagine di “mostro” che è andata diffondendosi negli ultimi mesi: gli esigui compensi che vanno a chi effettivamente crea la musica non sono da imputare solo a Spotify, che di certo possiede una parte della colpa, ma anche a chi gestisce da decenni l’industria multimediale. Se anche Spotify attuasse il comportamento più artist-friendly possibile, il coltello rimarrebbe comunque nelle mani delle case discografiche, alle quali spetta l’ultima parola, in forma di contratto. La questione, dunque, una volta analizzata sembra mostrare due schieramenti: quello delle case discografiche e di Spotify e quello degli artisti, che troppo spesso faticano a far sentire la propria voce, dovendo sottostare per ovvie ragioni ai contratti delle etichette, che permettono loro di essere conosciuti ed avere successo.
In sintesi, sarebbe il caso, per quegli artisti ormai consolidati che se lo possono permettere, di prendere posizione andando oltre i 140 caratteri di Twitter ormai dilaganti in ogni ambito della società e cercando di risalire alla fonte reale di un trattamento giudicato iniquo, senza sfogarsi solo contro i colpevoli più facilmente identificabili. Non è il momento né la situazione più opportuna per lasciarsi andare a facili demagogie.

Tags:industria musicale,music industry,musica,Pharrell Williams,spotify,streaming online,taylor swift,thom yorke

Related Posts

MusicaPrima PaginaSocietà & Cultura

The Bends: nel 1995 regnano i Radiohead

AttualitàMusicaPrima PaginaSocietà & Cultura

Verdena, Endkadenz Vol.1: saggezza, follia e suggestione

MusicaSocietà & Cultura

Trickfinger: la svolta elettronica di John Frusciante

Senza categoriaSocietà & Cultura

Sanremo 1967: la morte di Tenco e l’insostenibile peso di un mondo di luci.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :