MARCO VIGNOLO GARGINI
SPUNTI DI VITA
La distesa dei suoi appunti, i libri, i cd-rom e i DVD, cose preziose per la sua mente e anche per la professione che si era scelto: tutto questo aveva davvero un’importanza che lui da sette mesi stava trascurando. E per chi? Per Alina? Era finita. Con lei aveva vivacchiato tra appuntamenti sentimentali, lezioni svogliate, il limbo divenuto la regola. Ma era finita. Chi le aveva suggerito di esagerare in quel modo? Occorreva ringraziarla per la sua impazienza, la cara Alina, per la perdita di senno, per la smania patetica.
« Divorziare e ricominciare? L’hai già commesso l’atto idiota della tua vita e vuoi commetterne un altro? Frega pure Tommy, se ti va, ma non fregare me! »
Peppe non è stato al gioco, si è ritirato in tempo…
Sulla scrivania del suo studio rivide il lavoro che aveva dovuto interrompere perché non era più padrone del suo tempo e, soprattutto, della sua concentrazione: stava scrivendo un brano d’ispirazione filosofica, una lettera immaginaria di un saggio ateniese del trecento avanti Cristo indirizzata a Epicuro. Peppe, tornato nuovamente in sé, si riaccolse per completare la sua operina incompiuta, la sera stessa dell’addio ad Alina:
“ LETTERA A EPICURO
Caro Epicuro,
come ebbi modo di dirti in precedenza, sto organizzando un simposio che ha per tema la bestialità umana. Tu per il momento non ti sei pronunciato, non hai guardato il mio progetto, e temo sia una reticenza di comodo, o meglio un elegante metodo basato sul principio dell’atarassia.
La tua ultima epistola conteneva dei precetti molto vaghi, come sedicente profeta della felicità mi aspetterei da te un po’ meno artificiosità e maggiore naturalezza argomentativa, ma evidentemente hai finito per incarnare un ruolo, quello del filosofo infallibile e, aggiungo io, inarrivabile.
Sono estremamente polemico con te, ti dedico senza difficoltà le parole del saggio Eraclito: ‘Il sapere molto non insegna ad avere intelletto, altrimenti lo avrebbe insegnato a Esiodo e a Pitagora, e così a Senofane e Ecateo’.
Ti rammenti quando avemmo quel meraviglioso dialogo sul filosofo di Efeso, detto l’oscuro? Notai un certo imbarazzo da parte tua, ti sentivi in pericolo ad avere un confronto, anzi sono proprio sicuro che molte proposizioni eraclitee suonavano allora da monito alla tua faciloneria, in primis teologica…
Se la divinità esiste, seguendo la nozione comune trasmessaci dalla natura, ne conviene che tutto ciò che vediamo, udiamo, o tocchiamo possiede una vita limitata, imperfetta e serva del divenire; ugualmente noi stessi, in quanto uomini, saremo della stirpe di tali principi: mortali, caduchi, destinati a una felicità effimera.
La nozione comune tende perciò a assegnare agli dèi caratteristiche diametralmente opposte rispetto a quelle umane, godendo gli dèi la beatitudine a noi preclusa.
Che cos’è mai la felicità degli uomini? Una bieca imitazione del piacere immobile degli dèi? Oppure una nostra dimensione che non necessita di paragoni con altre realtà?
Ma tu con il solito argomento del trascendente divino hai commesso il tuo ennesimo errore: ti sei occupato di ciò che dovrebbe essere a noi indifferente, invece di concentrarti sulla nostra natura.
La felicità per noi consiste nel fare a meno dei demoni, dei demiurghi, delle cause prime, e rinunciando a questo noi la pianteremo di provare timore, invidia e rassegnazione nei confronti degli dèi.
Io so che un’eterna gioia si addice alla divinità, ma se così è, se questa è la nozione comune trasmessaci dalla natura, non ho remore a dire che ben gli sta alla divinità!
Tu conosci i guai che ho avuto, il processo per empietà e l’accusa di immoralità, però nessuno ebbe la soddisfazione di provare la mia colpevolezza, pertanto me la spasso facendomi beffe dell’ipocrisia della nostra bella società!
Alla tua dottrina io muovo un’obiezione fondamentale: il piacere da te propugnato mi sembra astratto, per tale motivo non suscita interesse e attrattiva.
Inizia dunque a rivolgerti agli uomini; esibisci a essi la prova delle voluttà come se tu fossi per loro uno specchio; non nascondere nelle tue teorie il concetto di bellezza immediata… La speranza dei molti è nella ricerca di un piacere reale che si possa rinnovare: dì agli uomini che la vita sta tutta in questa infinita ricerca e lascia ai piagnoni lo spasmo della forma, l’angoscia dell’assoluto, e il fascino della virtù fine a se stessa.
Tu ricordi che dieci anni orsono me ne languivo solo per studiare le manifestazioni del divino, come te disprezzavo la folla schiava della superstizione e incapace di assurgere a qualcosa di grande, di immenso? Ma fui ripreso dall’ineluttabilità del mio destino, trovai nella vita la sola dèa da venerare e il mio solo bene.
Una religione provoca mille interrogativi, mentre l’unica certezza stabile è la morte, la cessazione del male ordito ai danni dello spirito.
E mi parli di dèi perfettamente felici con l’intento di consolarmi?
Di dèi immortali con l’intento di annoiarmi con l’eternità?
Di dèi che esistono fuggendo da te stesso?
Basterebbe discendere sulla nuda terra e amare la nostra natura caotica, incompiuta, ma umana. Mi spiace deluderti, ma non voglio sentirmi braccato ancora dall’idea della felicità!
Carissimo amico, ho letto la tua epistola con grande devozione, l’ho sorseggiata quasi fosse una splendida bevanda, con il risultato che non si è sedata la mia sete. Non mi attendevo la risoluzione delle inquietudini, né la brama di sapori eccelsi; ti dirò che vagavo tra le tue parole chiamandoti per nome e scorrevo le righe stupito della tua assenza… Dove sei? Dove sono le meravigliose ore in cui deliziavamo noi stessi, e i flauti che accompagnavano i convivi del pensiero? Quell’amico che giocava, che carezzava le fanciulle, che viveva senza presunzione è forse scomparso? Ripenso alla tristezza dei tuoi occhi, quando ti lamentavi della brevità dell’esistenza, agli abbracci che elargivi profusamente ai tuoi commensali, alle sfrenate libagioni; nulla del tuo antico atteggiamento suggeriva l’attuale professione di dottrinario che tanto ti tiene occupato.
Ora tu sorridi della mie debolezze, mi trovi ingenuo negli ardori che manifesto, ti senti sollevato da un passato che non riconosci più, dove l’estasi dei corpi, l’armonia poetica e il godimento dei banchetti ci univano indissolubilmente.
Torno a invitarti al mio simposio. Parleremo della bestialità umana intesa come mantenimento degli impulsi veri, insiti nei nostri atti, e disquisiremo sui danni che l’ossessione per la virtù ha creato grazie ai funesti insegnamenti di molti filosofastri.
Se tu insisti nel vedere in me uno spirito aridamente polemico, persistendo a ignorare la gioia che avrei nell’incontrarti ancora, allora puoi già decidere un’insanabile frattura dei nostri rapporti, giacché non sarei in grado di considerarti amico come prima. Mi peserebbe questa tua malafede.
Mi auguro soltanto che il nuovo abito che indossi sia la stoffa con cui ricopri il tuo corpo in determinate occasioni, per il resto non hai bisogno di vestirti così quando parli con me, io non faccio parte del pubblico, sono autonomo nei miei giudizi e non apprezzo i falsi maestri.
La filosofia non deve divenire un mercato delle idee: le idee non si insufflano, non si comprano, non sono in vendita, non si impongono, ma vivono con noi rendendoci, se possibile, migliori. Chi irreggimenta il pensiero crede di poter governare l’aria e dall’aria sarà esso stesso governato.
La filosofia è questo nostro cammino senza fine e disprezzo senza fine d’ogni credenza che si impone con l’autorità, con il timore; il sapere costa momenti anche faticosi e amari che non utilizziamo per amareggiare gli altri e noi, la virtù sta nel seguire ciò che siamo, la nostra natura, invece il vizio sta nel dover essere diversi artatamente beandoci di un idealismo contro natura.
Prendi queste mie riflessioni unicamente come regali.
Non meditare giorno e notte per vivere come un dio tra gli uomini.
Sii quel meraviglioso amico che ho tanto ammirato. ”