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Spunti di vita 8

Creato il 17 aprile 2014 da Marvigar4

Spunti di vita

MARCO VIGNOLO GARGINI

SPUNTI DI VITA

   La distesa dei suoi appunti, i libri, i cd-rom e i DVD, cose preziose per la sua mente e anche per la professione che si era scelto: tutto questo aveva davvero un’importanza che lui da sette mesi stava trascurando. E per chi? Per Alina? Era finita. Con lei aveva vivacchiato tra appuntamenti sentimentali, lezioni svogliate, il limbo divenuto la regola. Ma era finita. Chi le aveva suggerito di esagerare in quel modo? Occorreva ringraziarla per la sua impazienza, la cara Alina, per la perdita di senno, per la smania patetica.

« Divorziare e ricominciare? L’hai già commesso l’atto idiota della tua vita e vuoi commetterne un altro? Frega pure Tommy, se ti va, ma non fregare me! »

Peppe non è stato al gioco, si è ritirato in tempo…

Sulla scrivania del suo studio rivide il lavoro che aveva dovuto interrompere perché non era più padrone del suo tempo e, soprattutto, della sua concentrazione: stava scrivendo un brano d’ispirazione filosofica, una lettera immaginaria di un saggio ateniese del trecento avanti Cristo indirizzata a Epicuro. Peppe, tornato nuovamente in sé, si riaccolse per completare la sua operina incompiuta, la sera stessa dell’addio ad Alina:

LETTERA A EPICURO

Caro Epicuro,

come ebbi modo di dirti in precedenza, sto organizzando un simposio che ha per tema la bestialità umana. Tu per il momento non ti sei pronunciato, non hai guardato il mio progetto, e temo sia una reticenza di comodo, o meglio un elegante metodo basato sul principio dell’atarassia.

La tua ultima epistola conteneva dei precetti molto vaghi, come sedicente profeta della felicità mi aspetterei da te un po’ meno artificiosità e maggiore naturalezza argomentativa, ma evidentemente hai finito per incarnare un ruolo, quello del filosofo infallibile e, aggiungo io, inarrivabile.

Sono estremamente polemico con te, ti dedico senza difficoltà le parole del saggio Eraclito: ‘Il sapere molto non insegna ad avere intelletto, altrimenti lo avrebbe insegnato a Esiodo e a Pitagora, e così a Senofane e Ecateo’.

Ti rammenti quando avemmo quel meraviglioso dialogo sul filosofo di Efeso, detto l’oscuro? Notai un certo imbarazzo da parte tua, ti sentivi in pericolo ad avere un confronto, anzi sono proprio sicuro che molte proposizioni eraclitee suonavano allora da monito alla tua faciloneria, in primis teologica…

Se la divinità esiste, seguendo la nozione comune trasmessaci dalla natura, ne conviene che tutto ciò che vediamo, udiamo, o tocchiamo possiede una vita limitata, imperfetta e serva del divenire; ugualmente noi stessi, in quanto uomini, saremo della stirpe di tali principi: mortali, caduchi, destinati a una felicità effimera.

La nozione comune tende perciò a assegnare agli dèi caratteristiche diametralmente opposte rispetto a quelle umane, godendo gli dèi la beatitudine a noi preclusa.

Che cos’è mai la felicità degli uomini? Una bieca imitazione del piacere immobile degli dèi? Oppure una nostra dimensione che non necessita di paragoni con altre realtà?

Ma tu con il solito argomento del trascendente divino hai commesso il tuo ennesimo errore: ti sei occupato di ciò che dovrebbe essere a noi indifferente, invece di concentrarti sulla nostra natura.

La felicità per noi consiste nel fare a meno dei demoni, dei demiurghi, delle cause prime, e rinunciando a questo noi la pianteremo di provare timore, invidia e rassegnazione nei confronti degli dèi.

Io so che un’eterna gioia si addice alla divinità, ma se così è, se questa è la nozione comune trasmessaci dalla natura, non ho remore a dire che ben gli sta alla divinità!

Tu conosci i guai che ho avuto, il processo per empietà e l’accusa di immoralità, però nessuno ebbe la soddisfazione di provare la mia colpevolezza, pertanto me la spasso facendomi beffe dell’ipocrisia della nostra bella società!

Alla tua dottrina io muovo un’obiezione fondamentale: il piacere da te propugnato mi sembra astratto, per tale motivo non suscita interesse e attrattiva.

Inizia dunque a rivolgerti agli uomini; esibisci a essi la prova delle voluttà come se tu fossi per loro uno specchio; non nascondere nelle tue teorie il concetto di bellezza immediata… La speranza dei molti è nella ricerca di un piacere reale che si possa rinnovare: dì agli uomini che la vita sta tutta in questa infinita ricerca e lascia ai piagnoni lo spasmo della forma, l’angoscia dell’assoluto, e il fascino della virtù fine a se stessa.

Tu ricordi che dieci anni orsono me ne languivo solo per studiare le manifestazioni del divino, come te disprezzavo la folla schiava della superstizione e incapace di assurgere a qualcosa di grande, di immenso? Ma fui ripreso dall’ineluttabilità del mio destino, trovai nella vita la sola dèa da venerare e il mio solo bene.

Una religione provoca mille interrogativi, mentre l’unica certezza stabile è la morte, la cessazione del male ordito ai danni dello spirito.

E mi parli di dèi perfettamente felici con l’intento di consolarmi?

Di dèi immortali con l’intento di annoiarmi con l’eternità?

Di dèi che esistono fuggendo da te stesso?

Basterebbe discendere sulla nuda terra e amare la nostra natura caotica, incompiuta, ma umana. Mi spiace deluderti, ma non voglio sentirmi braccato ancora dall’idea della felicità!

Carissimo amico, ho letto la tua epistola con grande devozione, l’ho sorseggiata quasi fosse una splendida bevanda, con il risultato che non si è sedata la mia sete. Non mi attendevo la risoluzione delle inquietudini, né la brama di sapori eccelsi; ti dirò che vagavo tra le tue parole chiamandoti per nome e scorrevo le righe stupito della tua assenza… Dove sei? Dove sono le meravigliose ore in cui deliziavamo noi stessi, e i flauti che accompagnavano i convivi del pensiero? Quell’amico che giocava, che carezzava le fanciulle, che viveva senza presunzione è forse scomparso? Ripenso alla tristezza dei tuoi occhi, quando ti lamentavi della brevità dell’esistenza, agli abbracci che elargivi profusamente ai tuoi commensali, alle sfrenate libagioni; nulla del tuo antico atteggiamento suggeriva l’attuale professione di dottrinario che tanto ti tiene occupato.

Ora tu sorridi della mie debolezze, mi trovi ingenuo negli ardori che manifesto, ti senti sollevato da un passato che non riconosci più, dove l’estasi dei corpi, l’armonia poetica e il godimento dei banchetti ci univano indissolubilmente.

Torno a invitarti al mio simposio. Parleremo della bestialità umana intesa come mantenimento degli impulsi veri, insiti nei nostri atti, e disquisiremo sui danni che l’ossessione per la virtù ha creato grazie ai funesti insegnamenti di molti filosofastri.

Se tu insisti nel vedere in me uno spirito aridamente polemico, persistendo a ignorare la gioia che avrei nell’incontrarti ancora, allora puoi già decidere un’insanabile frattura dei nostri rapporti, giacché non sarei in grado di considerarti amico come prima. Mi peserebbe questa tua malafede.

Mi auguro soltanto che il nuovo abito che indossi sia la stoffa con cui ricopri il tuo corpo in determinate occasioni, per il resto non hai bisogno di vestirti così quando parli con me, io non faccio parte del pubblico, sono autonomo nei miei giudizi e non apprezzo i falsi maestri.

La filosofia non deve divenire un mercato delle idee: le idee non si insufflano, non si comprano, non sono in vendita, non si impongono, ma vivono con noi rendendoci, se possibile, migliori. Chi irreggimenta il pensiero crede di poter governare l’aria e dall’aria sarà esso stesso governato.

La filosofia è questo nostro cammino senza fine e disprezzo senza fine d’ogni credenza che si impone con l’autorità, con il timore; il sapere costa momenti anche faticosi e amari che non utilizziamo per amareggiare gli altri e noi, la virtù sta nel seguire ciò che siamo, la nostra natura, invece il vizio sta nel dover essere diversi artatamente beandoci di un idealismo contro natura.

Prendi queste mie riflessioni unicamente come regali.

Non meditare giorno e notte per vivere come un dio tra gli uomini.

Sii quel meraviglioso amico che ho tanto ammirato.


La mattina dopo Peppe andò come di consueto alla facoltà di Lettere: salutava tutti con entusiasmo, anche l’imbianchino visto per la prima volta che stava dando l’ultima mano di vernice all’aula 5 ed era sceso per prendere un caffè. Peppe aveva un viso disteso, liscio e sereno come un giovanotto. Aver deciso la rottura drastica con Alina lo rimise a nuovo, lo fece sentire vivo come una casa rimasta in piedi tra le macerie del terremoto: s’era salvato.

La lezione di Teoria e Storia dello spettacolo moderno, tenuta dal professor Cardenotti, sarebbe stata interessante. Ora era libero dagli interrogativi che la relazione con Alina gli aveva procurato torturandolo. Solo adesso capiva che non era stato un incubo a farlo svegliare di soprassalto, ma il gusto della lealtà verso se stesso.

La lezione del professor Cardenotti ebbe un senso per lui, le parole suonavano piene, comprensibili, accattivanti, non erano un rumore che cozzava contro le sue orecchie tappate dalle fatue voci di dentro. Era dunque tornato nel mondo dei vivi proprietari di un intelletto.

Nello stesso corso Peppe avrebbe dovuto tenere un seminario su uno degli autori trattati durante l’anno accademico dal professor Cardenotti: Janvier Soufrage.

« Noi abbiamo delle chiare evidenze che nella sua vena dissacratoria Soufrage intendesse spazzar via gli orpelli ottocenteschi della rappresentazione romantica, soprattutto in quella che viene definita la sua produzione minore… Dovendo sbarcare il lunario, come è capitato a tanti altri scrittori famosi, Soufrage si dette alla pubblicazione sui giornali di piccoli romanzi polizieschi a puntate, attualmente assai rivalutati. In particolare la serie dove il protagonista è l’allampanato, cinico e miscredente criminale di nome Crapulax. Lo avrete sentito, no? L’etimologia da crapule la dice lunga circa l’attività di questo fuorilegge che, alla stregua dei suoi colleghi ben noti della letteratura, abita in ambienti oscuri, sotterranei, lontani dalla vita della gente. Crapulax ha in comune con Erik de Le Fantôme de l’Opéra di Gaston Leroux la deformità di una parte molto importante del corpo, il volto, ma non sembra che questa orribile maschera sia alla base dei suoi misfatti. Anzi. Crapulax ama mostrarsi così com’è, con il suo aspetto originale, con quell’orrore insostenibile che il suo viso promana, un viso incredibilmente normale a una prima rapida occhiata che si trasforma in mostruosità sempre crescente, a seconda della vittima di turno.

Crapulax è lo specchio a cielo aperto che riflette le angosce più recondite, è la visione diretta del Male, della nostra cattiva coscienza, e con quei occhi ciani, acquosi, da rettile, paralizza chi lo guarda… È dunque l’altro a scorgere la deformità che in superficie non viene esibita, una deformità che si imprime nella retina di chi cade sotto il dominio di Crapulax.

Allora… Il principio che anima il personaggio di Soufrage ci viene descritto anni dopo dallo stesso autore, e secondo alcuni critici si tratterebbe di una agnizione fatta a bella posta per nobilitare questi romanzetti popolari. Noi siamo più benevoli. Riteniamo infatti che non vi sia un maquillage posticcio nelle parole di Soufrage, tese unicamente a dare una dimensione letteraria ulteriore in collegamento con un altro personaggio, un personaggio storico realmente vissuto, disprezzato perché tramandatoci in maniera fin troppo pregiudiziale dalla versione ufficiale giudaico-cristiana. Soufrage accosta il suo Crapulax all’imperatore romano Nerone: “Il vizio liberato dalla rete dell’interpretazione morale diventa un’arma di giudizio, è la moneta con cui si paga le confessioni dei falsi adoratori della costumatezza. Svetonio ci testimonia una frase di Nerone, da molte persone udita, secondo la quale l’imperatore era del tutto convinto che ‘nessun uomo fosse pudico e puro in nessuna parte del corpo, ma che la maggior parte dissimulava il vizio e lo copriva con astuzia . Per tale convinzione Nerone era pronto a perdonare ogni altro crimine a chi gli confessava la propria particolare impudicizia. Parallelamente a Nerone Crapulax salva dalla morte colui o colei che ammette di non essere immune dalla colpa… Crapulax aborrisce il lamento della vittima che chiede di scamparla in nome di Dio, della giustizia e della propria assoluta innocenza. Nessuno è innocente, tuona Crapulax contro le preghiere e le implorazioni, poiché nessuno nasce pulito e lindo come se fosse appena uscito da un bel bagno fatto in una vasca di ceramica finemente decorata. Nasciamo già lordi! Ciò che rende ancora più mostruosa la reazione emotiva di Crapulax di fronte alla richiesta di pietà, ciò che aumenta l’efferatezza del suo delitto, sono le complete disposizioni dei condannati a prostituire se stessi pur di sopravvivere. Questo giustifica la violenza barbarica delle esecuzioni, la spettacolarità dei metodi usati di volta in volta per l’assassinio”.

Soufrage commenta la propria creazione nel saggio Il était une fois… l’Art, del 1927, con quell’orgoglio che le madri hanno di solito nei confronti dei loro figli più bruttini, però, non mi stancherò mai di dirlo, facendo bene attenzione a non rinnegare gli sforzi passati, considerati anzi basilari per il proseguimento della sua carriera letteraria.

È stato detto molto bene da qualche parte, sempre in Il était une fois… l’Art, che Crapulax va analizzato, e qui Soufrage adotta un termine medico, come se fosse uno stato di delitescenza, ossia di contesto latente per successive realizzazioni artistiche. Diremo poi il motivo che spinse Soufrage a usare un termine medico indicante una fase primordiale del tumore…

Abbiamo adoperato in principio l’espressione “arte dissacratoria”, e, riguardo questa espressione dobbiamo essere onesti ricordando il legame che il nostro autore ebbe con l’opera di Isidore Ducasse conte di Lautréamont, il debito assoluto con la poetica del montevideano maledetto e misterioso… Maldoror in effetti è uno dei padri di Crapulax, oltre al già citato personaggio Erik di Gaston Leroux, come pure di Fantomas, l’altra grande figura romanzesca criminale nata dalle penne di Marcel Allain e Pierre Souvestre giusto un anno prima di Crapulax… Dunque, la dissacrazione che a noi interessa sottolineare è anzitutto quella che Soufrage adopera contro il romanticismo in arte. Cosa afferma dopo aver ascoltato un concerto di Brahms il marchese Favorable alla sua giovane amante nel romanzo soufragiano Arrière ? “Non dimenticare che per la magicienne de la musique occorre la meccanicità degli strumenti!”. Come dire che senza il lavoro operaistico dei proletari della musica non avremmo alcuna musica. Il legno dei violini, viole, violoncelli, clarini ecc. deve ai boscaioli la sua estrazione, soggiunge Favorable, e non v’è niente di così piacevole e poetico a osservarsi di un taglialegna che con la scure abbatte gli alberi, per cavar fuori poi lo stesso materiale bruto da cui lo strumento musicale prenderà vita.

Soufrage, va detto, lottava per ridimensionare la visione schopenhaueriana del primato della musica tra le arti, sebbene egli non avesse una idiosincrasia per le sette note, tutt’altro… »



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