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Strasburgo (Francia) - Il massacro non si processa. L'11 giugno scorso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha infatti rigettato il ricorso presentato dall'associazione delle “Madri di Srebrenica” contro Paesi Bassi e Nazioni Unite, ree di non aver contrastato l'opera dei militari guidati dal generale Ratko Mladić, il cui processo dinanzi al più volte criticato Tribunale penale internazionale - che proprio oggi ha ristabilito l'accusa di genocidio per Radovan Karadžić - per la ex Jugoslavia è stato interrotto lo scorso anno per le «serie omissioni» dell'accusa, che non ha fornito agli avvocati del generale ben 7.000 pagine di prove.
In questo modo il contingente internazionale si è reso correo del massacro di 8.372 musulmani bosniaci (più di 10.000 secondo le associazioni dei familiari delle vittime) nell'”enclave protetta dalle Nazioni Unite di Srebrenica” avvenuto tra il 6 ed il 25 luglio 1995. Tale atteggiamento, in contrasto con il mandato della missione, ha permesso di scrivere la storia di uno dei più importanti genocidi commessi in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Il motivo del rigetto è lo stesso evidenziato dai giudici olandesi il 13 aprile 2012: l'immunità dell'Onu da cause civili «direttamente collegata alle sue funzioni di rafforzamento della pace e della sicurezza nel mondo», sancendo in questo modo come le Nazioni Unite «non sono soggette ad alcuna forma di controllo giudiziario», come ha polemicamente evidenziato lo studio legale “Van Diepen Van der Kroef Advocaten” che assiste l'associazione.
Per avere giustizia basterebbe spostarsi da Amsterdam all'Aja, dove due anni fa la Corte distrettuale d'Appello, ribaltando una sentenza del 2008, ha sostenuto che l'Olanda è colpevole di complicità perché «pur consci del rischio che i maschi musulmani correvano una volta fuori dalla basse del Dutchbat [i caschi blu olandesi, ndr]» questi nulla fecero per impedire il massacro. Durante il periodo di permanenza olandese, inoltre, fiorirono traffici di droga, carburante e prostituzione.
Il caso in questione era quello di Hasan Nuhanović che, da interprete di quel battaglione olandese dell'Unprofor di cui oggi si chiede il processo, vide – letteralmente – sbarrare la porta della base Onu di Potočari in faccia ai genitori ed a suo fratello minore, insieme ad altre 25.000 persone. I militari olandesi, infatti, negarono rifugio e protezione formando «un cordone per respingere la popolazione che preme sulla recinzione». I corpi dei tre vennero trovati anni dopo in fosse comuni diverse. Fu Hasan il “traduttore ufficiale” del massacro. A lui toccò infatti dire ai 5.000 profughi accolti di uscire «in gruppi da cinque» e andare dai serbi «che vi porteranno al sicuro» mentre diventava sempre più evidente quale sarebbe stata la conclusione di quel patto tra il generale Thomas Karremans e lo stesso Mladic.
La sentenza di condanna, ha raccontato Hasan in un'intervista a Global Project del 2012, non riguarda sua madre, perché «il tribunale ha sostenuto che il contingente Onu non può dirsi responsabile in quanto i serbo-bosniaci non avevano detto nulla riguardo alle donne. Anche se nei fatti sono state ammazzate lo stesso».
Proprio dal pronunciamento in merito ai parenti di Nuhanović le 6.000 madres di Srebrenica hanno trovato nuova forza per chiedere che sul banco degli imputati arrivino anche Olanda e Nazioni Unite. L'Onu, in quanto «”campione” dei diritti umani, non dovrebbe stare sopra la legge, ma assumersi la responsabilità del suo ruolo nel genocidio di Srebrenica», si legge in un comunicato dell'associazione che, ora, si è vista ribadire in sede europea quanto sostenuto in parte in Olanda: il massacro di Srebrenica non si processa. Almeno per quanto riguarda le Nazioni Unite.
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