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Staffette emotive

Creato il 30 gennaio 2012 da Phoebe1976 @phoebe1976

Staffette emotive

June-13-2011-Digital-Postcards-To-say-Good-Morning-is-not-a.jpgMia nonna era una persona eccezionale, entrambi i miei nonni materni lo erano.

Spesso ne ho parlato e ho scritto di loro, fanno parte integrante di me e se sono la persona che sono molto in parte lo devo a loro.

Per la parte buona, ovviamente. Per quella cattiva, credo ci siano altri responsabili.

Spesso mi capita di pensare a loro, anche perché mentre mio nonno mi ha lasciata troppo piccola e con pochi preziosi ricordi, mia nonna è stata parte integrante della mia vita finché non ci ha lasciato.

Stava male, mia nonna, stava male da tanto. Di uno di quei mali da donna, striscianti, di cui non si parla mai abbastanza: l’osteoporosi. Una malattia subdola, deformante, invalidante che succhia via la forza, l’autonomia, la capacità di muoversi. Ma non la voglia di vivere.

Mia nonna non si è arresa mai, fino alla fine. Ha lottato, sempre. Per noi.

Era una donna forte, mia nonna, volitiva.

Una donna che da giovane teneva i cordoni della borsa con austerità e fierezza, che valutava tutto con l’occhio della contadina che sa quanto l’occhio del padrone ingrassi le sue bestie. E con la fierezza della sua terza elementare completata (“Che mica tutti ai miei tempi, eh!”) e ancor più orgogliosa della licenza media di mio nonno, presa con le scuole serali quando era già un adulto.

Ha vissuto grandi dolori, mia nonna. Il più grande quello di vedersi portar via dal Parkinson l’uomo della sua vita.

Se lo sognava spesso, mio nonno. E in sogno lui le diceva di star tranquilla, che l’aspettava e la guardava da lassù, ma che per quanto potesse soffrire non era ancora il momento. “Stai tranquilla Spina, che andrà tutto bene. Il tuo posto è ancora vicino ai tuoi cari!”.

Una donna forte, sì.

Autonoma e femminista quando questa parola non andava ancora di moda.

E allegra.

Innamorata delle sue due nipoti.

E quando non ce l’ha fatta più a star da sola, l’ingresso di una badante nella sua vita non lo visse come un trauma, no: come possibilità di socializzare e di non intralciare la sua unica figlia. E così Ludmilla, maestra di scuola ucraina, imparò il perugino lacustre e trovò un amore quasi materno e mia nonna alcune parole di russo e una figlia adottiva.

Può una persona così malata reggere l’animo delle persone che ha intorno?

A guardare la processione di parenti e vicini che la venivano a trovare, direi di sì, ed eran sempre pronti a chiedere consiglio. Era una donna gioviale e risoluta, e non c’era pomeriggio che non trovassi qualcuno a tavolino con lei a chiacchierare davanti a un vassoio di Ore Liete.

Se avevo un problema, correvo da lei. A raccontarle cose che magari nemmeno poteva capire, specie se riguardavano lo studio prima e il lavoro poi, o su cui si crogiolava da grande esperta di telenovelas argentine, se riguardavano l’amore.

Il giorno in cui morì, mia madre mi disse tra le lacrime: “Ora dobbiamo imparare a cavarcela da soli”.

E io capii che era vero.

Non avevamo più appoggi.

La nostra fonte di forza e di equilibrio non c’era più.

Ma l’unica cosa che riuscivo a pensare io era che lei era morta senza vedere mai il mare. Aveva fatto di tutto per me, più di una madre, e non aveva mai visto il mare.

Ho pianto tanto, poi ho capito.

Col dolore dentro, che non passa mai, ho capito.

Ho capito che quella forza ce l’ho anch’io, che vive in me.

In me che mi sogno nonna Spina seduta ai piedi del mio letto che mi guarda, che ne sento il peso del corpo che smuove il materasso.

In me che cerco di fare del mio meglio sempre, per tutta la mia famiglia.

Vive in me, che piango ancora quando sono triste e che solo davanti alla sua lapide al cimitero trovo pace.

Ieri sera quando sono uscita dal lavoro era troppo buio, troppo per andare al cimitero. E allora ho comprato un lumino e l’ho acceso in salotto. L’ho acceso e ho pensato a lei, a lei che mi guarda da lassù e guarda anche mia madre, mia sorella, mio padre e pure l’Amoremio (anche se non si sono mai conosciuti).

E mentre accendevo il lumino mi è sembrato proprio di sentire la sua mano sulla spalle, e anche se ero sola in casa mi è venuto spontaneo dirle ad alta voce un mio semplice e spontaneo pensiero, una cosa di cui non mi ero resa conto fino a quel momento.

“Stai tranquilla, nonna. Ci penso io adesso...”

 

 

 

 

 

Ps. Grazie a Polly, che mi ha fatto venir voglia, semmai ce ne fosse stato bisogno, di scrivere di mia nonna.


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