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stare per

Da Paride

- Temo di stare per impazzire, sai. – mi sussurò, stringendo la sua mano nella mia.

Non so come fosse cominciato tutto ciò, o che cosa fosse di preciso. Le sue dita ossute e gelide accarezzavano le mie, stringendole sempre di più, con la stessa disperazione con cui immagino suonassero i notturni di Chopin, tutte le notti. Questo almeno lei mi raccontava. Ed io, da casa, li sentivo. Non al computer, o dal vinile; no. Li sentivo nella mia testa, accompagnavano i miei ultimi gesti vuoti e desolati della giornata, davanti allo specchio, nel letto; cercavano di addormentarmi cullandomi tra le coperte. Ma la dolcezza pungente di quelle note era impastata nell’angoscia che le teneva insieme.
Così mi suonava il suo volto, così la sua tiepida effimera compagnia. Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. E la melodia di lei, che tanto amavo, era il mio tormento. I miei sensi cercavano in lei la pace, e trovavano l’ossessione. E la mia anima beveva avida quell’orda di sentimenti che mi scuotevano fin nelle vene. Lei era il sogno che non arriva mai, il sogno che ti dà ancora una ragione per svegliarti.

Quel giardino era in fondo il sonno che lei strappava alle mie notti; ma molto più denso, un ristoro molto più avvolgente.
Quel giardino così pulito, con l’erbetta verde corta nelle quadre delimitate da alti pioppi ordinati, che scandivano il reticolo di ciottolato azzurrino, punteggiato di panchine in legno scuro. C’era davvero da uscire pazzi, povera Michelle.  Istituto, così lo chiamavano ora. Tre volte al giorno, due infermiere che odoravano di disinfettante, sorridenti e distratte, le porgevano un vassoietto con una scodella di cibo preparato alla meno peggio, un bicchierone d’acqua naturale e due pillole. Michelle ormai prendeva solo le pillole. Non la sgridavano neanche più.
Io, dal canto mio, non le avevo mai rimproverato niente. Puoi costringere un gatto ad abbaiare, puoi istigare un albero a mordere? Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle. Michelle era la mia innocenza, protetta in uno scrigno di carne pallida dalle spalle strette e dalla vita sottile. Un’innocenza dall’anima sfuggente, un’anima che a volte avevo visto balenare dietro i suoi occhi vitrei, in qualche discorso o in qualche piccolo gesto, tra le ciocche castane scomposte che le serpeggiavano sul viso; per poi risprofondare nel torbido dei suoi pensieri, i suoi pensieri soffocanti come catrame fresco, che inghiottivano ogni speranza, cementavano ogni parola.  Allora le sue labbra si serravano con una specie di muto singhiozzo incerto, e il suo sguardo tornava a fissarsi nel vuoto, o su un minuscolo particolare, o su uno scatto ripetuto della sua mano.

Quel giorno le avevo portato due grandi biscotti al cioccolato rotondi, incartati in un tovagliolo di stoffa blu. Glieli avevo preparati io. Con quell’amore calorico comprai un suo sorriso; io, avido sfruttatore di solitudini; io, egoista impersonatore di anime assenti. In un’ora di conversazione ne mangiò quasi uno intero, la vedevo affondare morsetti affamati e un pò impacciati, guardandomi di sottecchi; e anche i suoi occhi parevano sorridere, e questo mi riempì un pò il buco che avevo nel cuore.

Quello stesso inverno, le regalai un’enorme sciarpa di lana viola. La indossava ogni volta che sperava sarei andato a trovarla, mi diceva. Indovinava sempre. Io non credo che la mettesse ogni giorno. Mi spiegò che nella sua camera aveva liberato uno scaffale apposta, dove ripiegava la sciarpa ogni pomeriggio, dopo avermi incontrato. Le mattine che non la indossava, le rivolgeva sempre uno sguardo triste, e pensava a me – testuali parole – per 6,3 secondi.

Io non avevo il permesso di entrare negli alloggi, così credevo a tutto ciò che mi raccontava. In realtà, avevo cercato le immagini della struttura su internet: le camere erano scatole sgualcite che non superavano i 10 mq, bagno incluso. Ma lasciavo che lei, almeno in me, trovasse il terreno fertile per impiantare il suo assurdo, fragile universo. Le sue strane compagnie e i suoi antri segreti, il suo balconcino botanico e le sue tende altissime come quelle delle principesse.

Un giorno arrivai al cancello del giardino col freddo dentro e una bambola di pezza dal nome di Tina nello zaino.
Contravvenendo al giuramento di Ippocrate per soccombere alla compassione umana, un’infermiera di mezz’età si concesse in cinque minuti di una spiegazione in cui figuravano una sciarpa al collo, un letto, 42 pillole accumulate di nascosto nella scatola del temperamatite e una rianimazione fallita.
Uscendo buttai via la bambola nel primo cestino.

Era intrappolata in un mondo terribile, Michelle.
Ma finalmente era riuscita a fuggire…


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