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Era il lontano 1990 e il gangster-movie era vivo e vegeto nella sua variante classica. E i Coen, non perdendo le tracce violente degli esordi, realizzano un film classico e asciutto, potente senza essere eccessivo, cinico (il cinismo si affaccia con garbo, si pensi alla breve sequenza extradiegetica del bimbo che toglie il parrucchino ad un uomo crivellato), costruito come dinamico intreccio narrativo, ma con la lentezza e la forza dialogica di un vecchio film dell'età dell'oro, senza dimenticare l'artisticità della fotografia firmata Barry Sonnenfeld e quel genietto di Carter Burwell a delineare dei piccoli intermezzi musicali rielaborati dal repertorio standard. Un gangster-movie è un genere piuttosto limitante. Se Coppola aveva fatto sorgere il mito della "Familias" mafiosa, creando un'epopea, e Scorsese sembrava più impegnato ad un ritratto compiuto e corale, i Coen non hanno mancato di affidare ai loro caratteri quelle psicologie incerte e contraddittorie, sfidando la normalità e arrivando al grottesco marcato, come nell'ultima parte, in cui le morti si fanno truculenti e tarantiniane. Un prodotto che vanta un cast eccellente, da Gabriel Byrne a John Turturro, da Marcia Gay Harden a Albert Finney, ai fidati Steve Buscemi e Jon Polito e che è un capolavoro di genere. Rispettando i canoni, ma ribaltandoli dall'interno. Il "Nemico pubblico" di Mann sarà la più grande mutazione del gangster-movie, in quanto cercherà di modificare il genere non solo dall'interno, ma soprattutto dall'esterno.
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