Magazine Diario personale

Stay gold

Da Matteotelara

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Di tanto in tanto con la mia compagna rivediamo vecchi film. Spesso decidiamo di farlo seguendo un tema o uno stile. Funziona così: si propone un tema e poi si operano, ognuno per conto proprio, delle scelte. Di solito nessuno rivela all’altro il film che ha scelto fino al momento di farlo vedere. Ogni proiezione è una sorpresa. L’abbiamo fatto con James Bond, riattraversando tutte le pellicole della serie, dal mitico Sean Connery all’ultimo David Craig (“Skyfall” che consiglio a tutti), e in un passato ancora più remoto con la maggior parte dei capolavori di Alfred Hitchocok. Ultimamente il tema proposto è stato gang’s movie: film di bande giovanili, film sulle realtà metropolitane. Le scelte della mia compagna sono state “West side story”, “Gangs of New York” e “Rebel without a cause”. È stato un piacere rivedersi “West side story” a così tanti anni di distanza dall’ultima volta in cui mi era passato davanti agli occhi: i Jets contro gli Sharks, gli americani dalla pelle bianca contro gli immigrati portoricani, e, di mezzo, la storia d’amore tra Tony e Maria: colonna sonora del grande Leonard Bernstein: potevo forse desiderare di meglio?
Le mie proposte sono state “The Outsiders”, “Streets of fire” e “The Warriors”.
Al di là del ritmo e della perfetta ambientazione di “The Warriors” e dello schema fiabesco di “Street of fire”, il mio preferito (perlomeno tra quelli che ho scelto) resta “The Outsiders”: lo è per l’incantevole equilibrio che l’attraversa e per la poesia che lo sostiene, ma lo è anche e soprattutto per quell’impasto di violenza e vulnerabilità che avvolge ogni sequenza e che rende dolci anche le scene di rabbia più intensa.
Francis Ford Coppola girò “The Outsiders” (in italiano “I ragazzi della 56ª strada”) nel 1983, spinto dalla richiesta contenuta in una lettera inviatagli dalla bibliotecaria di una scuola media di Fresno, California. Jo Ellen Misakian, questo il nome della bibliotecaria, scrisse per conto degli studenti dell’istituto in cui lavorava chiedendo al grande regista italo-americano di realizzare un film dall’omonimo romanzo di  S.E. Hinton.
La Hinton aveva pubblicato “The Outsiders” nel 1967 (ad appena diciott’anni d’età) e con questa storia di bande giovanili in lotta, i Greaser e i Social – i primi parte del sottoproletariato povero che viveva in periferia, i secondi borghesi ricchi che risiedevano nei quartieri più abbienti – realizzò un’opera destinata a restare nella storia della letteratura Americana. Ai tempi della sua pubblicazione “The Outsiders” suscitò numerosissime polemiche, dentro e fuori dal mondo letterario, e venne bandito da molte librerie e da quasi tutte le scuole: il ritratto di violenza e abbandono che offriva, l’immagine di minorenni che fumavano e che bevevano, e il linguaggio da strada intriso di gerghi giovanili con cui l’intera storia era raccontata (il tutto unito alla rappresentazione di ambienti familiari degradati e disfunzionali) non potevano essere facilmente accettati dalla società del tempo. Malgrado la censura, ad ogni modo, il romanzo della Hinton divenne presto un classico ‘non ufficiale’ della letteratura, tanto che oggi, proprio in virtù delle reazioni controverse che suscitò e che tutt’ora suscita, è divenuto parte del curriculum nella maggior parte delle scuole americane, medie e superiori.
Dopo aver letto la lettera della bibliotecaria e degli studenti di Fresno, Francis Ford Coppola decise di realizzare il film e diede così a sua volta vita ad una delle migliori pellicole dei primi anni ottanta. “The Outsiders” di Francis Ford Coppola uscì nel 1983, e nella sua rappresentazione realistica del mondo difficile dei teenager perduti nell’america dei primi anni sessanta creò un nuovo modo di fare cinema, insieme critico e partecipato, che rese giustizia alla realtà interiore di quanti fino a quel momento venivano considerati solamente dei teppisti.
Al di là delle differenze che sempre affiorano tra un film e il romanzo da cui è stato tratto, c’è qualcosa di semplice e universale al cuore d’entrambe queste opere: qualcosa che ha a che vedere col nostro essere parte del mondo e dello scorrere del tempo, e che alle volte porta a galla il timore d’essere destinati tutti quanti, crescendo, a perdere la parte migliore di noi stessi. E come in ogni storia che sa davvero raccontare la vita, questa cosa accende una scintilla di poesia (e di speranza) nella solitudine e nel dolore che ci circondano.
Questa cosa è una lirica di Robert Frost.
Ve la lascio in inglese, aggiungendo la traduzione come compare nella versione italiana del film (e nella quale, inutile che ve lo dica, si perde gran parte della bellezza originale del verso), e vi invito a vedere l’interpretazione che ne dà Johnny (Ralph Macchio) nel finale, sperando che anche voi, come Ponyboy (C. Thomas Howell), riusciate a mantenere sempre vivo e lucente quello spicchio d’oro che vi è stato donato al momento della nascita.

Nothing gold can stay

Nature’s first green is gold,
Her hardest hue to hold.
Her early leaf’s a flower;
But only so an hour.
Then leaf subsides to leaf.
So Eden sank to grief,
So dawn goes down to day.
Nothing gold can stay

Niente che sia d’oro resta

In Natura il primo verde è dorato,
e subito svanisce.
Il primo germoglio è un fiore
che dura solo un’ora.
Poi a foglia segue foglia.
Come l’Eden affondò nel dolore
Così oggi affonda l’Aurora.
Niente che sia d’oro resta.


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