Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l’anima a forza di botte
Nel novembre del 2009, sui muri di Roma comparvero alcuni manifesti mortuari che citavano un brano di Fabrizio De André. Erano dedicati a Stefano Cucchi, il ragazzo di 31 anni deceduto pochi giorni prima, il 22 ottobre.
Come nel caso di Federico Aldrovandi, la sua vicenda è stata portata all’attenzione dell’opinione pubblica con la violenza delle immagini: le fotografie che la famiglia decise di diffondere ritraevano il volto del cadavere tumefatto, la schiena magrissima striata di lividi, la frattura evidente nell’area lombare.
La storia probabilmente è nota. Qui ne ripercorro gli snodi principali.
Cucchi è stato fermato dai carabinieri la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, nei pressi del Parco degli Acquedotti, zona Cinecittà, perché trovato in possesso di sostanze stupfacenti (venti grammi d’hashish, cocaina e alcuni farmaci. Cucchi soffriva di epilessia). Dopo essere stato fermato, viene accompagnato a casa dai carabinieri che perquisiscono l’appartamento. È comprensibilmente nervoso, ma sta bene, a sentire la ricostruzione dei genitori. Trascorre la notte in una caserma dell’Arma a Tor Sapienza. Il giorno seguente, in tribunale, si svolge l’udienza per la convalida dell’arresto. Deve essere successo qualcosa, perché Cucchi ha il volto gonfio, e il giudice dispone una visita presso il Fatebenefratelli. Il ragazzo viene trasferito in carcere, a Regina Coeli, e da lì all’ospedale sull’Isola Tiberina per un primo accertamento dove si riscontrano varie lesioni e la frattura di una vertebra. Cucchi rifiuta il ricovero (prognosi di 25 giorni), e passa la prima e unica notte nel penitenziario. Il giorno seguente le sue condizioni si aggravano. Viene visitato nuovamente al Fatebenefratelli e poi trasportato al reparto di detenzione del Sandro Pertini.
Alla famiglia viene negata più volte la possibilità di visitarlo e non c’è modo di mettersi in contatto con lui. La motivazione: il reparto di detenzione del Pertini è comunque soggetto alle regole di un carcere, serve dunque un’autorizzazione specifica. Il tempo di ottenerla ed è già tardi: il 22 ottobre il corpo di Stefano giace sul lettino dell’obitorio, cinque giorni dopo il suo arrivo in ospedale. Per la sua morte sono ancora sotto processo sei medici, tre infermieri e tre agenti di polizia penitenziaria. È stata da poco acquisita agli at del processo tila lettera scritta da Stefano Capponi, sotto dettatura di un altro detenuto, il tunisino Tarek Ayala, il quale fece scrivere le parole che gli avrebbe detto lo stesso Cucchi: ”Mi hanno ammazzato di botte i carabinieri, tutta la notte ho preso botte per un pezzo di fumo”. Ayala è ora indagato per calunnia.
Al di là di quella che sarà la verità giudiziaria, Stefano è una delle vittime di un apparato di repressione (termine qui usato per intendere il contrasto alle attività al di fuori della legge) e detenzione che è stato incapace di tutelare la sua incolumità.
C’è stato un abuso messo in atto da parte di coloro che sono demandati dallo Stato a gestire sul territorio il “monopolio della forza”?
Da Roma a Varese. La salma di Giuseppe Uva, dopo oltre 3 anni dal decesso, avvenuto il 14 giugno 2008, potrebbe essere riesumata. Uva è morto in un reparto psichiatrico dopo aver passato tre ore in una caserma dei carabinieri, fermato in strada alle 3 di notte, insieme ad un amico, entrambi ubriachi. I risultati di una perizia predisposta dal tribunale varesino potrebbero determinare una diversa interpretazione delle cause della morte. Contrariamente a quanto stabilito fino ad oggi, Uva potrebbe non essere morto per la somministrazione di farmaci incompatibili col suo stato alcolemico. La perizia inoltre ha analizzato i pantaloni macchiati di sangue nella zona del cavallo, rilevando non solo tracce ematiche ma anche la possibile presenza di urina, feci e sperma. Si chiede Luigi Manconi, dell’associazione “A buon Diritto”: “Si può escludere che Uva abbia subito violenza sessuale?”. E perché non è mai stato sentito l’altro fermato, Alberto Biggiogero, che la notte stessa aveva chiamato il 118 sentendo le urla provenienti dalla stanza dove Uva veniva interrogato? Solo nel 2011 ci sono almeno due altre storie sulle quali andrebbe fatta chiarezza. La prima è quella di Michele Ferrulli, un uomo di 51 anni, obeso e con problemi al cuore, morto per un arresto cardiaco dopo una colluttazione con la polizia la sera del 30 giugno. Un video di scarsa qualità documenta i momenti in cui Ferrulli viene immobilizzato a terra. Il dubbio di un pestaggio è legittimo. Carlo Saturno aveva 22 anni quando è stato trovato impiccato ad un lenzuolo nella cella di isolamento del carcere di Bari. È morto il 7 aprile, dopo una settimana in coma. Era rinchiuso nel penitenziario pugliese per furto ma era finito in isolamento per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale: in pratica si era scontrato con alcune guardie carcerarie. Secondo una lettera anonima recapitata in procura, il 29 marzo, il giorno prima di suicidarsi, Saturno sarebbe stato in realtà picchiato. Al momento è aperta un’indagine per istigazione al suicidio contro ignoti. C’è da aggiungere però che i segni sul collo sono stati dichiarati compatibili sia con un’impiccaggione che con uno strangolamento.Ma la vicenda tragica del ragazzo di Manduria comincia anni prima. Nel 2007, si era costituito parte civile nel processo che vede imputati nove agenti di polizia penitenziaria, chiamati a rispondere di alcuni episodi di violenza ai danni dei minori costretti nel carcere minorile di Lecce. Episodi avvenuti tra il 2003 e il 2005, periodo nel quale anche Saturno era passato da quell’istituto. Oggi, amici e familiari chiedono di fugare ogni dubbio di una possibile correlazione tra la morte del ragazzo e il processo che lo vedeva tra i testimoni chiave.
I “casi Cucchi” – morti avvenute in circostanze nebulose, storie caratterizzate da ricostruzioni contraddittorie, pezzi mancanti, versioni ufficiali che sono un insulto all’intelligenza umana – orami sono troppi e costituiscono una vera emergenza.
Nelle nostre carceri, ma a volte nelle celle di scurezza o negli ospedali psichiatrci giudiziari, si continua a morire di morte violenta, e troppo volte aleggia il sospetto di una responsabilità attiva o passiva di chi in quei luoghi rappresenta lo Stato. Responsabilità che il più delle volte non vengono accertate. E quando invece arrivano a configurare ipotesi di reato, i presunti colpevoli rischiano pene risibili e prescrizioni facili. L’Italia, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, non ha ancora introdotto nel suo ordinamento il reato di tortura. Reato chiaramente non prescrivibile.
Invece di parlare di mele marce, sarebbe forse più utile cominciare ad affrontare il tema in una prospettiva più ampia: c’è un problema di carattere culturale (formazione inadeguata, assenza di una consolidata cultura dei diritti civili, omertoso corporativismo) che interessa alcune frange delle nostre forze dell’ordine? Sono i tanti “morti di Stato” a sollevare questo interrogativo per il bene stesso di una democrazia che si crede, si immagina e si autorappresenta “civile”.