2 novembre 2013 • Interviste, Vetrina Cinema
Non sbaglia un colpo Steve McQueen, che dopo i successi di Hunger e Shame, strabilia pubblico e critica. Dopo le standing ovation a Toronto, dove il film è stato presentato in anteprima mondiale, e al London Film Festival, il regista inglese punta dritto all’Oscar. I critici si dicono sicuri che sia il miglior film della stagione e lo hanno accolto con un entusiasmo inconsueto. Twelve Years a Slave è interpretato a Chiwetel Ejiofor, Paul Dano, Benedict Cumberbatch, Michael Fassbender e Brad Pitt. La pellicola narra la storia di un Solomon Northup, un afroamericano nato libero che, attratto con un inganno, venne rapito e venduto come schiavo in una piantagione del Sud, in cui lavorò per dodici anni sotto diversi padroni. Il film è ispirato ad una storia vera ed è tratto dall’omonimo libro. Il New Yorker lo ha descritto come “semplicemente il più bel film che sia mai stato realizzato sulla schiavitù negli Stati Uniti d’America.”
Oggi al cinema ha incontrato Steve McQueen in occasione della conferenza stampa dell’anteprima europea di Twelve Years a Slave al London Film Festival.
Per il pubblico questo è un film molto forte, quasi devastante. Che esperienza è stata girare un film di questo tipo? Quanto è stato emozionante per lei?
Ci sono stati momenti particolarmente emozionanti durante le riprese ma credo di aver avuto a disposizione un gruppo di professionisti straordinari. La crew è stata come una famiglia che mi ha supportato in ogni momento. L’atmosfera che si è creata sul set mi ha dato lo stimolo giusto per proseguire il mio progetto e rischiare questo argomento. Io non concepisco la censura e girare questo film è stata un’esperienza meravigliosa.
Questa è una storia che coinvolge l’umanità intera ma è anche una storia prettamente americana. Com’è stato per lei da inglese trattare il tema della schiavitù?
Per me questa è una storia che riguarda il mondo intero. Naturalmente è ambientata negli Stati Uniti ma come ben sappiamo la schiavitù è stata un’industria mondiale. Mi sono documentato parecchio prima di girare questo film e quando ho letto il libro, mi sono sentito veramente stupido per non averlo letto prima. D’altronde nessun altro lo aveva fatto. E’ stato un pugno nello stomaco. Non mi interessava raccontare il contesto storico ma la tragica realtà della schiavitù.
Chiwetel Ejiofor e Michael Fassbender sul set
Non crede di essersi spinto oltre in determinate scene di violenza?
E’ vero che il film è talvolta estremo così come il libro. Il quesito che mi sono posto fin dall’inizio è: voglio fare un film sulla schiavitù o no? Ho deciso di si e a quel punto sapevo che avrei dovuto affrontare la tortura fisica e psicologica che gli schiavi hanno subito nel corso degli anni. La violenza era un elemento cruciale da inserire nel film. Io sono qui perché alcuni membri della mia famiglia hanno vissuto la schiavitù sulla loro pelle. Ecco perché avevo la responsabilità di mostrare la schiavitù per quello che realmente è stata.
Come è avvenuta la scelta dell’attore protagonista?
Conoscevo Chiwetel da diversi anni. E’ un grande attore. L’ho scelto perché era capace di tradurre sullo schermo il dramma che Solomon ha vissuto.
Sono diversi anni che collabora con l’attore Michael Fassbender, di cui è molto amico. Perché le piace lavorare con lui? Che cosa ne pensa delle sue recenti dichiarazioni di non volersi fare pubblicità per gli Oscar?
L’ho conosciuto nel 2007 ai casting per Hunger. Michael è un artista e credo che ci sia qualcosa di magico in lui. E’ il tipo di attore che smuove gli animi del pubblico. Credo che non abbia bisogno di farsi pubblicità per gli Oscar, è lo schermo a parlare per lui.
Michael Fassbender al Toronto Film Festival
Le musiche di Hans Zimmer hanno un ruolo importante nel film. Come è riuscito ad ottenere la collaborazione di uno dei migliori compositori al mondo?
Lo avevo già contattato per Shame. Così l’ho chiamato proprio mentre era impegnato in Man of Steel. Gli ho detto: “Hans, sto facendo questo film ma non ci sono soldi.” E lui mi ha risposto: “Ok, lo faccio.” E’ così che è andata. E’ una persona fantastica. Abbiamo avuto due conversazioni lunghe quasi cinque ore e non siamo venuti a capo di niente. Poi sono andato nel suo studio, lui ha suonato e io ho esclamato: “Wow!”. Credo che lui sia stato sommerso dall’emozione della storia di Solomon. Questo ha reso il suo lavoro più facile.
E’ stato facile per lei trovare i finanziamenti per questo film in America come regista di colore?
Che domanda interessante! (ride, n.d.r.) Devo dire di no. Ho avuto un grande supporto da parte dell’industria americana. Ad Hollywood erano un po’ sorpresi quando hanno visto arrivare un regista di colore. Non era esattamente quello che si aspettavano pensando ad un regista inglese. Ma fin da subito hanno creduto in me, nel mio talento come regista e più di tutto, credevano nella storia che stavamo raccontando al pubblico.
Di Rosa Maiuccaro per Oggialcinema.net
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