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Sto provando a pensare

Da Fabry2010

Sto provando a pensare

Squilla il telefono ed è mio padre. “Mauro” dice. “Ho appena ucciso mamma.”
Io sto finendo di legare i pomodori alle canne che stamani sono andato a rubare dai lungo-fossi del demanio. Rubare non sarebbe il termine giusto, ma è quello utilizzato dal vigile che mi ha multato dopo avermi visto scendere tra gli arbusti ai lati della superstrada.
Stavo dannandomi l’anima a spezzare le canne, maledicendomi per non avere con me neppure uno straccio di coltellino svizzero – o anche delle semplici forbici da cucina – quando ho sentito una voce alle mie spalle dire “che cosa sta facendo?”
Mi sono girato. Un tipo sbarbato, occhiali scuri, uniforme fresca di lavanderia.
Ero sudato fin dentro le mutande. Le maniche della camicia arrotolate sopra la giacca e i calzoni appiccicati sulle cosce. Cercavo di pensare a tutto fuorché a lei. Non mi ero preoccupato di passare da casa per cambiarmi gli abiti dopo l’udienza in tribunale.
“Prendo qualche canna” ho detto col fiatone e le gocce di sudore a scendermi sulle lenti degli occhiali da vista.
“Sa che questo è terreno demaniale?” Ha continuato lui.
Mi sono guardato attorno. Anni che quest’area è abbandonata. Quindi? Deve aver letto nella mia espressione.
“I canneti” ha cominciato a dire estraendo il bock notes dalla tasca dell’uniforme “sono fondamentali nel mantenere l’habitat e svolgono una funzione decisiva nel contenimento di eventuali esondazioni.” Proprio così, ripreso e riportato da chissà quale manuale di conservazione dell’ambiente.
Questo per dirvi come giravano le cose quando un paio d’ore dopo stavo finendo di legare i pomodori alle canne sul balcone del mio appartamento e il telefono ha squillato e mio padre ha detto “ho appena ucciso mamma.”
“Cosa?” ho chiesto.
“Mamma” ha ripetuto lui calmo.

Non so quale risposta il mio ex-analista-adolescenziale considererebbe inversamente sproporzionata allo stimolo, ma tutto quello che mi è venuto da ribattere mentre guardavo la gente attraversare la strada è stato “come?”
Stavo uscendo da un brutto divorzio. E ‘uscire’ è un altro termine inesatto perché in verità nel divorzio c’ero appena entrato.
Dopo due anni di matrimonio e cinque di fidanzamento mia moglie se n’era andata senza darmi una parola di spiegazione. A settimane di distanza ero venuto a sapere che si era messa insieme a un uomo che non conoscevo. E per quanto avessi provato a contattarla non mi era riuscito di parlarci. Finché qualcuno si era lasciato scappare che ‘tra noi due’ – intendendo con questo me e mia moglie – ‘non c’era rimasto più nulla.’ Giulia si era a quanto pare confidata con un paio di amiche, e aveva dichiarato che dal matrimonio in poi aveva smesso di provare alcun vero sentimento nei miei confronti. Niente. Neanche semplice affetto. E io che credevo rientrasse tutto nell’ordine delle cose: la vita di coppia, il calo del desiderio, la crisi del settimo anno. I giornali sono pieni di queste faccende.
Due giorni prima dell’udienza preliminare per il divorzio l’avevo intercettata al supermercato e le avevo chiesto spiegazioni.
Lei aveva detto “dobbiamo fare una scenata proprio qui, davanti a tutti?”
Non c’era praticamente nessuno. Nessuno va a fare la spesa alle 8 di mattina. Nessuno tranne una moglie che non vuole incontrare il marito da cui sta divorziando e ovviamente il marito in questione che la sta cercando.
L’avevo convinta a seguirmi in un angolo e le avevo di nuovo chiesto perché?
“Questo non è il posto adatto.”
“Voglio solo sapere perché te ne sei andata senza darmi una spiegazione.”
“Avevi anche bisogno di una spiegazione?” Aveva detto. “Un anno e mezzo di matrimonio e a malapena ci parlavamo.”
“Sì che ci parlavamo.”
“E avere due televisioni non ha aiutato.”
“Cosa c’entrano adesso le televisioni?”
“Ma almeno una domanda, una almeno avresti potuta farmela in tutto quel tempo! Possibile che non ti è mai venuto il dubbio di chiedermi cos’è che non andava?”
“Ma di cosa stai parlando?”
“Cazzo, Mauro.” Aveva fissato gli scaffali. “Con te è tutto inutile. Come fai a essere sempre così… così…” e non era riuscita a continuare.
Intendeva dire che sembro sempre altrove. Che le situazioni non paiono mai toccarmi. Che sono quello che sono. Vedi anche: ‘freddo’. Vedi anche: ‘distaccato’. Vedi anche: ‘codardo’.
“Ti amo ancora” avevo detto, odiandomi mentre mi sentivo pronunciare quelle parole.
“Tu non sai cosa vuol dire amare.”
“Ti amo” avevo ripetuto.
Lei aveva scosso la testa. “Ci vediamo in tribunale” aveva concluso spingendo il carrello verso l’uscita.
E la mattina dell’udienza si era presentata con l’avvocato. Lo stesso della lettera con cui venivo informato della sua intenzione di divorziare. Sua, l’intenzione. Non smettevo mai di ripetermelo.
Il giudice aveva detto: “prima di procedere vorrei verificare che non ci sia la seppur minima possibilità, per entrambi, di tornare sui vostri passi.”
“Bè” avevo detto, “veramente io-”
“La mia assistita non ha alcuna intenzione di riconsiderare la sua richiesta, signor giudice” mi aveva interrotto l’avvocato di mia moglie.
Erano le ore 8.30.
Sezione cause e divorzi.
Una fila d’attesa lunga e ostile nel corridoio alle nostre spalle.

Quando entro nell’appartamento dei miei genitori trovo mio padre seduto sulla poltrona con un bicchiere di whisky in mano e la bottiglia aperta sul comodino. E per quanto mi sforzi di rintracciare nella memoria un’immagine differente da questa, è così che lo ricordo dai tempi della scuola a oggi.
“Dove?” Dico. Con stanchezza più che con trasporto.
Lui non pare sentirmi.
“Dov’è?” Ripeto abbassando il tono della voce.
Allora fa un gesto con la testa. Non muove nient’altro. Piega il mento. Mi indica la camera da letto e dà un sorso al whisky.
E mentre raggiungo mia madre stesa sul pavimento lo sento alzarsi dalla poltrona e seguirmi.
“Non so neppure se è stato un incidente” dice mentre piegato sul corpo di mia madre comincio a mugugnare “mamma… mamma… mamma…”
Sono accucciato per terra, davanti al grande armadio a muro in cui, alla fine della stagione, i miei genitori ripongono da sempre i vestiti per l’inverno. “Mamma, mamma, mamma…” continuo a ripetere, ma per quanto ci provi non riesco a percepire alcuna lacrima fuoriuscirmi dagli occhi.
Mio padre si siede sul materasso. Ha con sé la bottiglia di whisky e due bicchieri.
“Stavamo mettendo i cappotti in cima al mobile” gli sento dire. La sua solita voce scientifica, con un impasto d’alcol a rendere le frasi pericolanti sui bordi. “Lei era sulla scala e mi ha detto di tenergliela. Ho visto che stava per cadere ma non ho fatto nulla per evitarlo. L’ho semplicemente guardata mentre andava giù.”
Lo dice d’un fiato. Finisce il whisky. Riempie i bicchieri.
“Mamma, mamma, mamma…” sto continuando a dire. E intanto insisto a cercare lacrime che non ne vogliono sapere di farsi trovare.
Sono in uno dei momenti più importanti della mia vita. Mia madre è con gli occhi rigirati tra le mie braccia. Mio padre è mezzo ubriaco sul letto. E tutto quello a cui riesco a pensare è la schiena di mia moglie che lascia il tribunale. Il suono dei suoi tacchi che si allontanano sul lastricato del parcheggio. La brezza che le solleva per un istante i capelli.
“Prendilo” mi ripete mio padre. Mi sta battendo con la mano sulla spalla. Ha un bicchiere di whisky tra le dita.
“Cosa vuol dire che non sai se è stato un incidente?”
Appoggio il bicchiere sul pavimento e guardo i riflessi del liquido nel vetro. Non ho mai sopportato né l’odore, né la vista, né tantomeno il sapore del whisky.
Lui non risponde. Ha notato le mie mani sporche di terra, i tagli ancora freschi dentro i palmi. “Cosa hai fatto?” domanda.
Allora me le osservo. La testa di mia madre ancora penzolante sulle ginocchia. E per quanto assurdo tutto ciò possa sembrare dico “stamani sono andato in tribunale per il divorzio.”
Non è di questo che dovremmo essere a parlare al momento.
“Non avevo detto niente a nessuno. Speravo di risolvere la cosa.”
“Quale divorzio?”
“Giulia mi ha lasciato.”
Lo sento rigirare il whisky nel bicchiere e buttarlo giù, e con la bocca sempre più inarticolata mormorare “non ci era mai piaciuta quella. Né a me né a tua… madre.”
“Finiscila” dico. “Non adesso.”
“È la verità” dice lui.
“Lo so che è la verità” dico. “Non avete mai perso occasione per ricordarmelo.”
Ed è anche per questa ragione che avevo smesso da tempo di andarli a trovare.
“Perlomeno l’hai strozzata per bene prima di seppellirla” continua, indicando i palmi delle mie mani e versandosi dell’altro whisky. “A quanto pare una volta tanto abbiamo avuto una giornata simile noi due.”
E allora vorrei saltargli addosso e dirgli “io non sono come te capito?” “Noi non abbiamo nulla in comune, chiaro?” Vorrei lanciare accuse. Mollare pugni. Graffiare. Sentire qualcosa. Fare qualcosa. Qualunque cosa. Tutto, pur di non pensare a Giulia che si volta e lascia il tribunale – il battito dei suoi tacchi che si allontanano con lentezza nel parcheggio.
Vorrei gridare, disperarmi.
“Non l’ho strozzata” dico invece. “I tagli me li sono fatti mentre prendevo le canne.”
E questa è la mia vita. Ho sempre cercato di costruire fuori da me una normalità che non c’è mai stata dentro di me.
“Giulia aveva seminato dei pomodori prima di andarsene” dico. “In terrazzo. Mi sono fermato sui lungo-fossi mentre tornavo dal tribunale. Ho pensato che prendermene cura mi avrebbe aiutato a riaverla indietro…”
Lui dà un altro sorso al whisky.
“Mi hanno anche multato per appropriazione di bene demaniale” aggiungo.
“Perlomeno le hai portate a casa, le canne.” E finalmente è ubriaco. Perso in un altro di quei suoi non-luoghi. In un altro di quei vuoti dentro cui l’ho visto scomparire sempre più spesso negli ultimi vent’anni.
“Cosa vuol dire che non sai se è stato un incidente?” ripeto.
“Vuol dire che non andavamo d’accordo.”
Interminabili sedute dall’analista quando ero adolescente. Il tutto per scoprire che non era colpa mia se i miei genitori non si sopportavano. “E allora?”
“Tua madre era una stronza, Mauro. L’amavo, ma era una stronza.” Ha appoggiato il bicchiere sul comodino. Lo vedo provare a raggiungere la bottiglia senza riuscirci. “Fin da quando eri alle elementari so che mi tradiva. Ma lei non ha mai avuto il coraggio di lasciarmi né io di cacciarla. Immagino che con le donne non siamo mai stati troppo fortunati noi due” mi dice. “Dev’esserci qualcosa nei cromosomi.”
Continuo a tenere il collo spezzato di mia madre sulle gambe e mi accorgo che le sto accarezzando i capelli, e intanto non riesco a smettere di pensare a Giulia che si volta e sparisce. Il profumo della sua pelle che si disperde lontano dalle mie narici. No! Io non sono come te, capito? Ma sto annuendo.
“Cosa vogliamo fare?” mi sento chiedere, stupendomi ancora una volta di come ogni cosa stia andando nella maniera in cui sta andando.
Mio padre barcolla, recupera l’equilibrio, “in che senso?” domanda.
“Nel senso di mamma. Nel senso di questa” dico, “immane tragedia.”
“Chiamo un medico legale, o un’ambulanza, non lo so.” Raggiunge la bottiglia. Si versa il whisky. “Spiegherò cosa è successo.”
“Sei troppo ubriaco per parlare con un dottore.”
“Sono stato ubriaco ogni giorno negli ultimi vent’anni, non c’è problema. E comunque” aggiunge guardando il liquido nel bicchiere, “non accetto consigli da uno che si è fatto multare per dei canneti.” Dà un sorso. “È la vita la vera tragedia. Noi stiamo solo cercando di porvi rimedio.”
Mi indica il bicchiere sul pavimento.
“Fammi compagnia.” Mi fissa. “Solamente un giro e te ne torni dai tuoi pomodori.”
Sto provando a pensare a mia madre. Al suo corpo intatto. A tutto quello che non è mai riuscita a essere. A quello che non è mai riuscita a significare. Ai non-luoghi di mio padre. Alle volte che l’ho visto bere. Al giorno del mio matrimonio. A mia moglie che attraversa il parcheggio del tribunale e se ne va.
“L’ho sempre odiato il whisky” mormoro.
“Odiamo quello che abbiamo paura d’amare, figliolo” risponde lui.



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