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Questo - se non fosse chiaro - non vuole essere un avvertimento a lasciar perdere, a dire che se un maestro assoluto passa in una determinata strada, su quella determinata strada poi non deve passare nessun altro, ma solamente un consiglio per evitare di scivolare in buche profondissime, in cui si rischia poi di giacere senza alcuna speranza di risalita.
Brad Anderson - volontariamente o no - con "Stonehearst Asylum" lo "Shutter Island" di Scorsese lo prende in pieno, sia nel senso di evocazione, sia in quello di palo: contro cui va a sbattere facendosi un male da trauma cranico. Da una partenza incoraggiante infatti il suo lavoro assume, tassello dopo tassello, i tratti di una fisarmonica in fase di chiusura, accorciandosi su sé stessa a furia di soluzioni narrative scontate ed altre difficilmente sopportabili di cui si rendono partecipi dei protagonisti ai limiti del ridicolo. Fermamente convinto dell'indovinello cruciale con cui convince lo spettatore a non credere a niente e alla metà di ciò che vede, Anderson già a metà della sua corsa scopre metà delle carte, insinuando però la presenza di un ennesimo colpo di scena con cui, ovviamente, ha intenzione di chiudere l'intera farsa tuonando. Farsa che tuttavia è incapace di risultare credibile o quantomeno interessante, e dove ogni cosa si trascina priva della giusta enfasi, con un cast impressionante al cui spreco si vorrebbe gridare vendetta.
Nelle circa due ore in cui Michael Caine resta chiuso in una cella e poi dato in pasto all'elettroshock, Ben Kingsley tenta di tenere sulle spalle una scena massacrata con perizia dai personaggi anonimi e mal interpretati di Jim Sturgess e Kate Beckinsale. La loro storia d'amore è probabilmente il punto più debole della pellicola, scarica del romanticismo che forse si voleva imprimere e fuori luogo considerato il filo principale con cui va intrecciarsi grandemente, che manda, tra l'altro, fuori sincrono, bruciando ogni aspettativa. Il crollo definitivo di "Stoneheart Asylum", prevedibilmente, giunge quindi nel finale, dove appunto l'amore dei due innamorati diventa motore di reazione e spinta, per andare a risolvere ingenuamente un intreccio che faticava già a stare in piedi e dove il comico involontario entra di prepotenza senza arrestare.
Ispirata da un racconto di Edgar Allan Poe l'opera di Anderson si scaglia sullo spettatore perciò in maniera prolissa, arida e malriuscita, come un tentativo sterile di thriller-psicologico, con cui è impossibile entrare in contatto e per cui si vorrebbe chiedere il come mai di un impegno così scarso sotto il profilo di scrittura.
Perché, a conti fatti, non c'è ragione di perder tempo con un film tanto rudimentale quando, guardando all'indietro, possiam godere di perle assai più intense e dal piacere prezioso.
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