Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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di Giuseppe Panella
Stefano Lanuzza, Maledetto Céline. Un manuale del caos, Viterbo, Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, 2010
In un ormai celebre (e forse per questo dimenticato) numero speciale de “Il Verri” uscito nel 1968 e dedicato in gran parte allo scrittore francese, Giuseppe Guglielmi, futuro traduttore e divulgatore dell’opera céliniana, si chiedeva, un po’ ironicamente ma non troppo, “Chi ha paura, oggi, di Louis- Ferdinand Céline ?” (era il numero 26 dalla direzione di Luciano Anceschi). Lo scrittore di Meudon era morto da pochi anni, nel 1961, appena dopo aver terminato l’ultimo volume della Trilogia della guerra, Rigodon (o è una leggenda anche questa? – la vita di Céline è tutta costellata di leggende più o meno provate, più o meno veritiere, più o meno costruite da lui stesso).
Oggi, anno 2010, quella paura sembra gravare sempre sulle menti dei lettori di un autore che potrebbe essere tranquillamente letto e liberato dalle strettoie di un interdetto che su di lui grava da molto, troppo tempo. E se al lettore italiano non è stato più permesse di leggere e di giudicare di persona Bagattelle per un massacro (dopo la sua fuggevole apparizione nelle librerie nell’edizione Guanda e nella traduzione di Giancarlo Pontiggia), tutta la sua opera, a partire dai testi teatrali dell’esordio dal compiuto La Chiesa, uscito a cura e con un saggio di Maurizio Gracceva, Roma, Irradiazioni, 2002 al frammento non finito di Progresso, a cura di Giuseppe Guglielmi, Torino, Einaudi, 1981 così come anche i romanzi lasciati inediti e non lavorati con la maniacale e usuale perfezione come Il Ponte di Londra che Gianni Celati, con l’aiuto di Lino Gabellone, aveva tradotto già nel 1971 per Einaudi, è ormai disponibile in lingua italiana..
Eppure, nonostante questo, la cultura italiana e in particolare proprio quella di sinistra, sembra ancora impaurita di fronte allo spettro minaccioso e beffardo del dottor Destouches.
Stefano Lanuzza, invece, non si è lasciato intimorire. Il suo manualetto céliniano affronta, con calma e risolutezza, i principali temi letterari, politici, sociali, antropologici e soprattutto estetici dell’autore del Voyage au bout de la nuit.
Dopo aver ricostruito la vita di Louis-Ferdinand dalla nascita a Courbevoie il 27 maggio del 1894 fino alla scomparsa avvenuta nel 1961 attraversando tutte le vicende più importanti del Novecento storico e letterario, Lanuzza costruisce con frammenti e aforismi ricavati dalle sue opere una sorta di Dizionario del diavolo in cui Céline esprime, con la sua consueta violenza e protervia dolcissima, le sue opinioni su quasi tutto. E’ la sezione più originale del testo e quello che maggiormente stimola le riflessioni del lettore. Si legga, ad esempio, il lemma Scrivere, a p. 86:
«Scrivo come posso, quando posso, dove posso. E’ dall’età di dodici anni (salvo i quattro della guerra) che mi guadagno ininterrottamente da vivere, e ho sempre dovuto rubare ore a quanti mi davano lavoro, rubare tempo ai mestieri che mi davano il pane, pur di realizzare i miei piccoli progetti personali. Scrivo in fretta e furia, come sono sempre vissuto in fretta e furia. Li ho fatti così gli studi, sempre strappando ore ai miei giri quotidiani; ho steso così i miei grossi libri, donde indubbiamente il loro tono trafelato ansante» (dall’intervista di L. Gerin pubblicata su Les Nouvelles littéraires, n. 774, 14 agosto del 1937).
E ancora, in un’intervista più tarda, Voyage au bout de la hain”, rilasciata a Madeleine Chapsal per L’Express del 14 giugno del 1957:
«Dal momento in cui si comincia a scrivere, si diventa molto parziali. Abbiamo i nostri sistemi, sostanzialmente siamo pessimi critici. In fondo, tutto ciò che non è scritto come lo faremmo noi è merda. […] Tutto quanto non è scritto come lo faremmo noi, ci infastidisce. Se no, non si è del mestiere […]. Io non scrivo per qualcuno. Abbassarsi a ciò è l’ultima delle cose! Si scrive per la cosa in sé» (p. 87).
Eppure l’ira di Céline per il mancato Prix Goncourt al suo Voyage… e per il silenzio assordante con cui la critica sembrava accogliere le opere del suo ultimo periodo letterario sembrerebbero smentire queste sue affermazioni relative allo scarso interesse per il pubblico.
Ancora – quello che Céline ha dichiarato sullo stile riguarda in realtà lui stesso e la sua vita (le sue affermazioni vengono da Disque Festival del 1958):
«Non sono affar mio le idee, i messaggi. Non sono un uomo da messaggi, non sono un uomo da idee. Sono un uomo da stile. Lo stile, diamine; tutti ci si fermano davanti e nessuno ci arriva. Perché è un lavoro molto duro» (p. 92).
Scrivere, avere uno stile, cercare di rendere la velocità del mondo moderno mediante la dinamica della scrittura (i famosi tre puntini, tanto per citare un tratto caratteristico della scrittura convulsa e micidiale di Céline), trasformare la realtà in una catastrofe continua e piena di echi e di rimbombi dell’Io verso il mondo e viceversa – tutti questi aspetti significativi e tranchant della modalità céliniana di affrontare la pagina bianca emergono proficuamente da questa selezione delle sue dichiarazioni più significative.
Il libro di Lanuzza non è fatto solo di questo, naturalmente. Il grosso del volume è costituito da un censimento-recensione-analisi dell’opera di Céline (ad esso sfuggono soltanto pochi testi dell’autore). Esemplari le pagine relative a Bagattelle per un massacro, il pamphlet antisemita solitamente espunto dalle discussioni critiche sullo scrittore francese (ma, ad esempio, non dal bel libro di Maurizio Gracceva, Le parole e la morte. L’enigma Céline, Roma, Antonio Pellicani Editore, 1999) così come importanti le considerazioni fatte a proposito del secondo romanzo dell’autore, Mort à credit, solitamente meno considerato rispetto al Voyage…:
«Articolato in una scacchiera di episodi dalla complessione pressoché autonoma e che idealmente finisce dove comincia il Viaggio, Morte a credito è come una grande fenomenologia di ossessioni: appunto ossessione della morte, che, doppiata da un disperato desiderio di vivere, introduce gli assilli della miseria, del dolore, della solitudine. Sostenuta dal massiccio ricorso all’oralità argotico-gergale tradotta in scrittura, la narrazione è idealmente divisibile in sezioni riguardanti rispettivamente la vita familiare, il viaggio del giovane protagonista in Inghilterra e il periodo trascorso col fantasioso Roger Martin de Pereires» (pp. 126-127).
Di interesse notevole anche la sezione dei temi maggiormente presenti in Céline e soprattutto la riflessione sulla guerra che si può ritrovare soprattutto nei testi narrativi. Ad essa come vaccherie universelle è dedicato un capitolo piuttosto denso del libro che esamina il pacifismo dello scrittore e
il suo rifiuto della guerra come trionfo dell’oscenità retorica dei politicanti e dei “migliori sentimenti” degli uomini panciuti e gonfi di morale e buon senso che non hanno conosciuto il dolore e la follia delle trincee e degli assalti alla baionetta.
«Appunto nella sua accentuazione caricaturale, la guerra, che per Céline non è quel gioco di possibilità e probabilità, di fortuna e sfortuna ovvero quella specie di “partita a carte” teorizzata dal militare prussiano Clausewitz, è riferita in un codice franto e sincopato, in una lingua che non è dell’intelligenza speculativa ma è quella granulare, irta e spugnosa del risentimento dei sensi urlanti e insultanti» (p. 187).
In conclusione, il “manuale del caos” di Lanuzza ritrova in Céline non soltanto il grande scrittore e l’inventore di un nuovo codice linguistico per il romanzo futuro quanto il critico violento e pertinace della civiltà borghese, il personaggio scomodo e rifiutato alla fine da tutti, l’uomo perseguitato per le sue idee che ancora oggi fa paura ai benpensanti di ogni credo e ideologia, la figura allampanata e rinchiusa in se stessa del paladino di nessuna delle “cause giuste”.
Un uomo, infine, capace di portare il caos dentro di sé e di descriverlo come la dimensione “naturale” dell’emergenza umana.