Sulla commistione dei generi. Aa. Vv. Sul filo del rasoio, a cura di Gianfranco De Turris, Milano, Mondadori (Supergiallo), 2010
______________________________
diGiuseppe Panella*
Potrebbe sembrare la risposta immediata di Gianfranco De Turris all’antologia di fantascienza “di sinistra” intitolata Ambigue utopie. 19 racconti di fantascienza (a cura di Gian Filippo Pizzo e Walter Catalano, Milano, Bietti, 2010) con le finalità della quale aveva già polemizzato con vigore sulle colonne de “Il Giornale” quando era appena uscita nel maggio 2010.
Ovviamente, non si tratta di questo. Il proposito di De Turris in questa raccolta, evidentemente approntata da tempo, è quello – dichiarato – di ibridare i diversi generi (poliziesco, horror, letteratura di anticipazione) per evitare di ricadere all’interno dei soliti clichés ormai invalsi ed entrati, anche proficuamente, nell’uso comune letterario.
Per questo motivo, il curatore della raccolta se la prende con il troppo bonario criterio su cui si fonda il “giallo all’italiana” contemporaneo (diversamente da come accadeva ai tempi di Scerbanenco, ad esempio):
«Per dirla in poche parole, questo libro ha alle spalle due mie idiosincrasie: la prima è nei confronti di chi ha affermato che soltanto di recente (una ventina d’anni) qui da noi per la prima volta è stata ideata e praticata una specie di contaminazione o mescolanza di “generi” (fantascienza, fantastico, orrore, poliziesco, avventura) che ha rivitalizzato il romanzo che per comodità chiameremo “popolare”; la seconda è nata leggendo ormai da un bel pezzo gialli italiani fotocopia, quasi tutti uguali per atmosfera, ambientazione, personaggi. E’ quello che uno scrittore-critico-editore (che non nominerò, ma che è presente in queste pagine) ha sarcasticamente definito “il Commissario Cliché”…» (p. 5).
In questa antologia non ci sono commissari che aderiscono al cliché tanto vituperato da De Turris, anzi – i poliziotti che si ritrovano nelle pagine dei racconti di molti degli autori qui raccolti non hanno nulla a che vedere con l’idea che ormai i lettori di Camilleri, De Cataldo, Carofiglio, Marco Vichi ecc. si sono fatti del possibile investigatore italiano di professione. Questo potrebbe riuscire spiazzante o poco accettabile se i racconti fossero calati nella contemporaneità ma, trovandosi ad agire in un arco temporale tra il 2015 a Montalto di Castro (Giulio Leoni) e il 2118 a Pisa (Marco De Franchi), l’idea del mondo futuro che ne emerge (cupo, desolato, corrotto e spaventosamente simile al nostro presente) non può che prevedere tutori della legge in linea con la prospettiva del “Medioevo prossimo venturo” (per citare il titolo del più fortunato libro di Roberto Vacca) che ci aspetta. Il titolo della raccolta occhieggia quello del film di Ridley Scott Blade Runner le atmosfere non sono da meno. Certo, Giulio Leoni è sicuramente ironico e anche piuttosto tragicamente scanzonato nel descrivere l’arrivo degli extraterrestri a Roma (e come potrebbe fare diversamente dopo il Marziano a Roma atterrato grazie alle cure di Ennio Flaiano?) nel suo Malasanità; un accenno di lieto fine si palesa in Francesca è scomparsa dove una donna fugge dall’Italia consegnata agli islamici di Pierfrancesco Prosperi dopo essersi rifugiata in una toilette dell’autostrada e aver “scelto la libertà” (come i profughi della Germania Est ai tempi del Muro di Berlino) e il protagonista di Maschere di Antonio Tentori sceglie di dileguarsi con Valeria, la ragazza oggetto dei desideri incestuosi del ricco Ingegnere su commissione del quale era stato messo alla sua ricerca. Il Narratore in prima persona non si esime da una scarna citazione dal film con Harrison Ford e Sean Young::
«Il motoscafo scivola veloce nelle acque scure della laguna. Alle nostra spalle divampa un furioso incendio. Non so fino a quando riusciremo a sottrarci agli uomini dell’Ingegnere. Valeria appoggia la testa sulla mia spalla. Bellissima e indifesa. La guardo. Non so quando potremo durare insieme. Ma, del resto, chi è lo sa?» (p. 108).
Il poliziotto Diego Nove (Delitto nella città verticale di Marco De Franchi, ambientato in una Pisa avveniristica e folle) finirà per trascorrere la vita che gli rimane tra i resti della vecchia città della Torre Pendente insieme ai Polverosi, miti e trasognati custodi di un modello di vita che ormai la Terra ha ripudiato mentre il disegno delirante e disumano dell’Ipermondo di Mario Farneti sarà stroncato dalla tenacia e dall’abilità della polizia fascista e imperiale che, in Italia, è sopravvissuta grazie all’intelligenza di Benito Mussolini mai entrato in guerra con l’Asse. Anche il mondo sotterraneo di Catania coperta dalle acque (come nel romanzo di Ballard) si rivela momento di ierofania mitica in Il ritorno di Iside del lussureggiante Pierangelo Buttafuoco. Qui la trama d’anticipazione è, in effetti, puro pretesto per mostrare un mondo ormai abbandonato dagli Dei e tenuto in vita senza motivo in una sorta di deposito equoreo delle contraddizioni del presente. Massimo Mongai sembra avere abbandonato la vena umoristica (che gli era forse più congeniale) per un racconto, Extraci, che si fonda su uno schema di indignata fantapolitica: gli extracomunitari privati in Italia dei più elementari diritti civili e politici in cambio della speranza di un futuro migliore per i loro figli fino a quando reggeranno lo stato di colonizzazione cui sono tenuti? Forse solo fino al 2090… Giancarlo De Cataldo si protende verso una improbabile Roma del 2053 per raccontare una storia di morte e dannazione dove a farla da padrone è una sostanza denominata poco originalmente X che permette il controllo su tutti coloro i quali la sussumono attraverso il cibo e che solo i non-violenti della setta Satyagrahi hanno la capacità di rendere immuni (Progetto Cybus). Gianfranco Nerozzi si inabissa in una storia di Sogni di morte dove un (supposto) troncone umano al servizio di una holding, Daniele Mondo, viene utilizzato fino alla fine per produrre sogni che poi diventeranno prodotti di consumo e di controllo per l’umanità. Leo Sorge in Sangue di luna nera racconta di un serial killer che viene catturato grazie a un imprevedibile indizio e rivela, però, un segreto che sconvolge la donna che lo ha scoperto. Allo stesso modo, in Uccel di bosco dello psichiatra Giuseppe Magnarapa, il Satloc, il sistema di localizzazione satellitare impiantato in ognuno degli esseri umani viventi sulla Terra che avrebbe dovuto rivelarsi il più sicuro di tutti e che l’ultimo discendente del suo ideatore è pronto a difendere con le unghie e con i denti contro chi vorrebbe impedirne l’attivazione totale si rivela fallibile e il suo disinserimento beffa la rabbia vendicatrice del suo fanatico sostenitore. Muoia Sansone… di Donato Altomare, un racconto ambientato in una Molfetta prossima ad essere inglobata da una strapotente Albania si rivela alla fine ripetizione inquietante e desolata della vicenda biblica da cui trae lo spunto. Allo stesso modo Il grande sceneggiatore di Alberto Carlo Cappi, un thriller teologico e serratamene scandito da veloci sequenze di azione e che è sicuramente debitore dell’intuizione che regge Le sirene di Titano di Kurt Vonnegut, jr., mette in scena un mondo desolato in cui la Chiesa ha abdicato ad ogni suo compito spirituale per dedicarsi allo sfruttamento intensivo delle colonie spaziali e non si esime dal far inseguire e uccidere i supposti eretici da un gruppo di fuoco che reca l’emblematico nome di Cristo Rey. A Vonnegut si ispira pure di Francesco Grasso che ripete e rilegge in chiave siciliana l’interrogativo al centro di Cat’s Cradle (Ghiaccio Nove) dello scrittore americano mentre rimonta una vicenda criminale di indubbia incisività. Stefano Di Marino (lo Stephen Gunn di una celebre serie di Segretissimo intitolata a Il Professionista) propone una storia amarissima e sconvolgente basata sull’insegna (Arbeit Macht Frei, Il lavoro rende liberi) che ritorna al passato più agghiacciante dell’Europa novecentesca per saldarsi a un futuro altrettanto desolante e pessimistico. Roberto Genovesi in Virago iterum aperitur si muove tra fantastico puro e quest teologica con rilevanti accenni alla dimensione demoniaca del Male per cui l’esorcismo è necessario, anche nel mondo dei videogiochi. Errico Passaro si diletta, in Necropolis, con un caso di legal thriller ambientato nel futuro e fondato sull’uso discriminante dei legati testamentari e Anna Maria Bonavoglia rilegge in chiave desolata e senza scampo Il Pifferaio Magico di Hamelin della favola dei fratelli Grimm (e di Maria Cvetaeva). Il Metodo Bulard di Fabio Lombardi trasforma l’esercizio della giustizia in una tragica operazione chirurgica che si appropria del tempo vitale dei condannati che, in tal modo, però, sfuggono al carcere; La costante di estinzione di Francesco Verde analizza come il desiderio di morte si sia insinuato nel cuore stesso della soggettività umana e La centesima scimmia propone, per opera di Luigi De Pascalis, un nuovo profilo epistemologico per la conoscenza dell’evoluzione umana. Infine, l’ingegner Massimo Petroselli in Lasciateli dormire trova il modo di far scoprire i delitti compiuti a coloro che ne sono stati le vittime mortali affidando ad essi il compito di ricordarsene la sequenza finale…
Ventidue racconti sul futuro più o meno prossimo, ventidue commistioni di genere (come si è potuto dai pur cursori riassunti degli argomenti dei racconti), ventidue sguardi su un futuro devastato e impassibile. Come scrive Gianfranco De Turris:
«Per far ciò si sono interpellati diversi tipi di autori, e fra di essi diversi Premi Urania e Alberto Tedeschi: quelli che avendo cominciato a scrivere science fiction, fantasy o horror si sono poi dovuti “convertire” al poliziesco per poter pubblicare; quelli che pur scrivendo da sempre poliziesco hanno avuto e continuano ad avere una passione per la fantascienza; quelli che in genere scrivono opere di questo tipo, vale a dire “contaminate”; e quelli che possiamo considerare autori trasversali, cioè che scrivono di “avventura” in senso lato, ma con tracce evidenti di giallo, orrore e fantascienza […], nonché autori definiti mainstream attratti da questo mix di generi letterari.» (p. 7).
Il risultato è spesso forte e riuscito, con momenti spiazzanti, talvolta risulta un po’ ripetitivo rispetto ai modelli presi come orizzonte di riferimento, talaltra soffre un po’ dal punto di vista dell’originalità dello stile – in tutti e ventidue, tuttavia, c’è sempre il tentativo di portare nuova linfa a un genere che rischia l’estinzione proprio per eccessiva abbondanza.
_____________________________
* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)