“Piccola città., bastardo posto”… Remo Bassini, Bastardo posto, Bologna, PerdisaPop, 2010
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di Giuseppe Panella*
«Piccola città, bastardo posto / appena nato ti compresi / o fu il fato che in tre mesi / mi spinse via; / piccola città io ti conosco, / nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo che cambia / in meglio, / ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano / visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano…» – è l’incipit della bellissima Piccola città di Francesco Guccini (dall’album Radici del 1972) che in anni lontanissimi – era l’anno 1973, nell’abbazia sconsacrata di San Zeno a Pisa – ho sentito cantare dal vivo in un concerto del cantante di Modena che con questa canzone ricordava amaramente le sue origini e la sua giovinezza.
Il “bastardo posto” in cui è ambientato il quinto romanzo di Remo Bassini non ha nome. E’ un posto come tanti nell’Italia del Nord o forse del Centro Nord, una “piccola città” senza qualità ma ricca di tante cattiverie, di tanto dolore, di tanta sofferenza inutile e non redenta. In essa si aggirano personaggi spesso incomprensibili, contorti, agitati da demoni dostoevskijani che non riescono a ricomporre in un possibile adattamento alla vita. La vicenda si svolge in cinque notti (solo una in più rispetto a quelle vissute dal sognatore delle Notti bianche pietroburghesi del grande scrittore russo) e termina tragicamente (non è bene dire troppo altro sul piano del contenuto della storia).
Va detto che quel che conta nel romanzo sono le relazioni e la dialettica dei personaggi (sia principali che secondari). Primo fra tutti, il giornalista Paolo Limara:
«Dopo il matrimonio, Paolo Limara, giornalista in una città né troppo grande né troppo piccola, non aveva mai baciato o abbracciato una donna diversa da sua moglie, fino a quella notte d’ottobre. Ed era, Paolo Limara, un giornalista dalla carriera assicurata prima che, sciagurato, incontrasse Marina. Era il vicedirettore de “La Civetta”, quotidiano cittadino fondato nel dopoguerra da un gruppo di borghesi illuminati, alcuni liberali, alcuni socialisti, altri, come il padre di Paolo Limara, vicini al Partito d’azione. Il nome del giornale era stato scelto per ricordare una giovanissima staffetta partigiana: Maria Paola, nome di battaglia La Civetta, era stata violentata e poi impiccata dai fascisti a una trave della sala d’aspetto della stazione di notte. Ma non solo. Prima di Marina, Paolo Limara era quello che, lo dicevano tutti, sta per diventare direttore de “La Civetta”. E tutti – ma durò poco, iniziò col sole di luglio e si dileguò con la nebbia a novembre – tutti, monsignori, politici e gente che conta, avevano fatto a gara nel sorridergli e nell’invitarlo a cena. Ora è cambiato tutto. Ora lo scansano» (p. 11).
Nel frattempo c’è stata Marina Castori – anch’esso un personaggio strano, complesso, agitato da demoni nella carne e nell’anima. A Marina era morto un figlio, Giorgio, investito da una moto e il cui guidatore se l’è cavata con poco perché coperto da influenti protettori. Da allora aveva smesso la sua professione di medico e si era messa a curare malati a domicilio come badante. Una notte, Limara l’aveva incontrata mentre dormiva in auto, in centro, di fronte al negozio sempre chiuso della Rodesi abbigliamento e il Piccolobar. Erano andati a letto a casa di lui (la moglie di Paolo era scesa in Calabria con il loro figlio Matteo verso il funerale di una vegliarda sua ex-madrina) e la loro relazione era iniziata. Ma poi si era interrotta bruscamente per via di un video che un poliziotto, l’ispettore Roberto Marcelli poi rivelatosi uno sbirro corrotto, gli aveva fatto vedere “per amicizia” – gli aveva detto. Per Limara era stato uno choc che gli aveva fatto interrompere la relazione con la donna:
«Quel che sembrava la grazia di un dio sconosciuto poco a poco divenne un tarlo – “ Una donna seria si concede così?” – che veniva rimosso, spedito nella discarica dei pensieri assurdi. Poi era arrivata la rivelazione del ventiquattro gennaio che, forse, Limara aspettava. Il tarlo non era un tarlo, quella donna era una donnaccia. Una delle peggiori. Gli occhi da santa, il corpo indemoniato. Dopo il ventiquattro gennaio, Paolo Limara ha alzato le mani in segno di resa, è stato stupido lui, quella notte di ottobre, a pensare che Marina Castori fosse una donna sola e disperata quando, con le braccia protese, nuda, gli sussurrava Vieni. Sei una puttana in calore, ha pensato e pensa ora Limara, e cerca di convincersi della validità dell’assunto, soprattutto se nella mente, senza preavviso alcuno, compare e riappare, come un incubo ricorrente, il ricordo del filmato. La prova che ha schiacciato Marina. La fine di un sogno» (p. 29).
Poi anche Marina era morta in uno strano incidente stradale che poteva sembrare un omicidio (come in una storia di Agatha Christie). Limara ne era uscito distrutto. Poi nella “piccola città” avevano cominciato ad accadere strane cose: un ispettore ministeriale (che poi non lo era) aveva cominciato a fare domande in Prefettura su Filippo Tuddia, un uomo potentissimo del posto che non sembrava un mafioso nelle vesti tradizionali del personaggio ma che, proprio per questo, lo era certamente. Così lo legge Limara che è pur sempre un giornalista di razza:
«Se lui a ottobre ha conosciuto Marina è tutta colpa di un altro funerale, pensa Limara fermandosi improvvisamente, preoccupato: là, sul lato della strada senza portici e tempestato dalla pioggia, dal condominio verde alla sinistra del Piccolobar, ha visto, al secondo dei tre piani, una luce accendersi e poi spegnersi e soprattutto, per poco, da dietro la tenda di una finestra, ha avuto la sensazione di scorgere un’ombra in quel condominio color verde acquamarina vive, nel senso che vegeta, Leonardo Tuddia, padre di Filippo. Ha quindi ipotizzato, Limara, che quell’ombra, fugace, potesse essere di Filippo Tuddia. Filippo Tuddia, il mafioso che tutti temono, che veste elegante, con gusto: né catene d’oro né gessati vistosi. Il mafioso che nessuno osa definire mafioso. Nemmeno lui, se non avesse incontrato Marina » (pp. 21-22).
Nello stesso tempo, una delle sue vittime, Viola Rodesi, aveva ripreso a frequentare nottetempo il negozio che i suoi genitori avevano perduto per colpa sua, accanita giocatrice di videopoker nel bar di proprietà di Tuddia. Attraverso un passaggio interno, la donna entrava nel negozio abbandonato e si rifugiava dietro un manichino nudo e senza sesso (lo stesso che Paolo Limara continuava a fissare nelle sue “notti bianche”). Sono personaggi straziati e strazianti quelli disegnati da Bassini in questa sua galleria di vittime senza vincitori. Si tratta di figure di perdenti senza remissione – anche quelli apparentemente vittoriosi, anche quelli che ostentano potere reale e gloria esibita e potenza esercitata senza remore sulle sorti del “bastardo posto”. Tutti, senza esclusione: da Piero, il marito di Rodesi, divenuto un galoppino esecutivo di Tuddia, a Jenny, la ragazza americana costretta dallo stesso mafioso a fare da infermiera al padre e da hacker per i suoi traffici illeciti e convulsi, dai giornalisti de “La Civetta” costretti al servizio dei proprietari del giornale e delle loro mene oscure politiche e affaristiche allo stesso direttore del giornale, Annibale Delponte, apparentemente potente ma poi a casa bacchettato dalla moglie molto più abile di lui. Anche i personaggi religiosi che vengono considerati modelli di santità o almeno di sano equilibrio sentimentale mostrano il segno della corruzione della carne (come lo starosta padre Zosima dei Fratelli Karamazov che mostra la propria natura di uomo corrotto e limitato dalla natura della sua umanità insuperabile, puzzando senza mezzi termini fin dal giorno dopo la sua fine di essere mortale). Padre Alberto Maria Ostendiosi che si impicca schiacciato dal rimorso o atterrito dalla necessità di rispondere dei suoi atti di fronte alla Legge o don Guido Bianchi, innamorato senza scampo del bel corpo di Marina Castori che è una sua penitente, ne sono figure esemplari.
Allo stesso modo ha vissuto la sua giovane esistenza Elena, commessa nel negozio Tanto di cappello, che si è gettata dalla finestra perché non reggeva il peso di una colpa che per lei, cattolica convinta e finora ragazza irreprensibile, non era accettabile: essere rimasta incinta senza essere sposata. Il microcosmo del “posto bastardo” segnala a tutti le colpe di tutti, devasta le vite private, ottunde le coscienze, lascia spazio agli istinti più meschini e più bassi di chi vorrebbe mostrare al mondo un volto sereno e libero da contrarietà o da segreti scheletri nell’armadio di casa.
Sono tutti vittime del “bastardo posto” in cui vivono, i personaggi contorti e maledetti, complessi e agitati dai demoni della carne e dello spirito, deboli e incerti presenti nel romanzo di Bassini – lo sono proprio perché sono tutti degli esseri umani e soffrono di esserlo. Un po’ di pietà non si potrà negargliela…
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)