Morti senza motivo. Alessandro Zannoni, Imperfetto, Bologna, PerdisaPop, 2009
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di Giuseppe Panella*
Un serial killer che si aggira tra Liguria (La Spezia, Portovenere, Lerici), Toscana (Viareggio) ed Emilia (Parma) alla ricerca di una vittima che abbia determinate caratteristiche fisiche (bianco, giovane, capelli e occhi scuri, giovane) uccide un giovane di buona famiglia (Amedeo Moretti) e lo abbandona nudo e morto da tempo in un bosco dove sarà facile ritrovarlo. Dopo un anno di indagini, i Carabinieri non hanno ottenuto ancora nessun risultato anche perché non hanno intuito affatto la natura seriale del crimine avvenuto. Lo farà Merisi (che sembra essere senza nome di battesimo!), un detective privato specializzato nel cogliere donne in flagrante infedeltà coniugale, cui il caso viene affidato perché prosegue delle indagini destinate a non avere conclusione (il suo scopo deve essere quello di macinare rapporti su rapporti, accumulare “carta” perché la ricca famiglia cui apparteneva il morto si renda conto che le indagini continuano senza tregua e che il colpevole dell’omicidio viene ancora perseguito dalla Legge con intensa e ininterrotta tenacia).
Merisi compie quarant’anni proprio nelle prime pagine del romanzo e festeggia in grande stile con una escort (si direbbe in linguaggio giornalistico) – dopo ne è disgustato (post coitum omne animal triste est, come pare abbia scritto Galeno nell’autorevole testimonianza di Alfred Kinsey) ma continuerà a tradire la moglie Marta. D’altronde lo fa anche con Giulia, una donna che conosceva da anni ma con la quale una relazione agitata e intensissima (e non solo dal punto di vista sessuale) è iniziata solo da pochi mesi. La donna vuole che Merisi lasci la moglie e vada a vivere con lei ma l’uomo nicchia e tentenna finché non viene praticamente scoperto sul fatto da Marta che lo ha seguito e spiato una notte in cui i due amanti clandestini si erano incontrati nella casa al mare in cui lui si era rifugiato (ufficialmente per riflettere). La moglie vorrebbe un figlio e questo basta a mettere in crisi il loro rapporto anche se le cause della frattura evidentemente sono assai più profonde. Merisi, dunque, è un uomo in crisi ma questo lo spinge a cercare con foga e ad accanirsi nel suo perseguimento della verità sulla morte di Amedeo Moretti.
Alle sue ricerche si alterna con frequente allucinatorietà la voce delirante e ossessiva dell’assassino i cui pensieri e le cui pulsioni di morte in prima persona si intrecciano al racconto in terza persona di ciò che ha capito Merisi nel corso della sua indagine.
Il detective, a questo punto, si accorge così, nelle ricerche di archivio sue e dei suoi collaboratori Angela e Giacomo presso la “Nazione” e altri giornali locali, che ci sono stati altri delitti assai simili in anni precedenti anche se rarefatti, sgocciolati nel tempo. Parte così alla ricerca di indizi, di possibili colpevoli, di un assassino che ha avuto la possibilità di muoversi per il vasto raggio delle tre regioni interessate ai delitti e che ha soprattutto la possibilità di entrare nella casa delle sue vittime senza farsi notare: perché prevedibile, perché insospettabile, perché anonimo e quasi invisibile ad occhi non abituati a cercare le possibili anomalie della vita (viene in mente un famoso racconto di Gilbert Keith Chesterton con protagonista Padre Brown, Il postino, in cui l’”uomo invisibile” che uccide si traveste appunto da agente postale). La ricerca è condotta a ritmo sostenuto e Merisi si concentra su di essa nonostante la feroce crisi coniugale in corso e la necessità di pensare a sé e a che cosa fare della propria vita nell’immediato futuro. La caccia all’uomo lo porta a incontrare don Francesco, un prete suo amico (sei anni prima lo ha sposato) e che gli chiede di indagare su uno strano incendio doloso che ha distrutto un quadro che rappresentava la Madonna ed era attaccato a una delle pareti principali della Chiesa. Un benefattore offrirà un proprio quadro al posto di quello bruciato e questo farà scattare la molla per la soluzione del caso. La tela rappresenta San Sebastiano trafitto dalle frecce ed è firmato proditoriamente Caravaggio. Ma a differenza di Andrea Mantegna (che ne ha dipinti ben tre), Michelangelo Merisi non ha mai rappresentato nella propria opera il santo divenuto una icona gay nel secolo scorso (sicuramente grazie al film Sebastiane di Derek Jarman del 1976 ma anche del romanzo Confessioni di una maschera di Yukio Mishima del 1949 che si era largamente ispirato a Le Martyre de Saint Sébastien di D’Annunzio pubblicato nel 1911 e poi musicato da Claude Débussy nello stesso anno – lo scrittore giapponese era così affascinato dall’opera dannunziana da imparare l’italiano per poterla tradurre in giapponese). Sulla scia dell’iconografia del santo martire sotto Diocleziano, il detective Merisi trova come le ferite che hanno ucciso tutte le vittime del serial killer siano state sferrate nelle stesse parti del corpo dove appaiono sporgere le frecce nei ritratti che rappresentano Sebastiano vittima degli arcieri dell’Imperatore. La ricerca della verità, tuttavia, sboccherà in tragedia. Anche il detective soccomberà al serial killer da lui inseguito e scovato con tanta sagacia (ironia della sorte tutto questo avverrà nel momento in cui l’uomo aveva ritrovato una certa stabilità emotiva con la sofferta decisione di lasciare definitivamente la moglie per mettersi stabilmente con Giulia). Il finale è affidato al delirio della morte inferta dall’assassino-pittore (la cui identità stessa è la maggiore sorpresa del romanzo come lo era stata nel finale del più bel film horror di Pupi Avati, La casa delle finestre che ridono del 1976, cui essa è stata evidentemente attinta):
«Non potevo fare altrimenti, non mi ha lasciato scelta, mi avrebbe messo fretta di finire, e la fretta fa commettere errori. Ci sono ancora cinque chiese che attendono il mio lavoro. Cinque ragazzi da trovare. Cinque capolavori da dipingere. Io sono l’arte che giustifica l’omicidio. Mi domando quanti libri, quanti film, quante trasmissioni televisive faranno, perché non potranno che parlare di me per molto tempo. Cercheranno di capire, di comprendere il mio cammino, oh, si scervelleranno, sicuro, e chissà a quali conclusioni aberranti arriveranno, chissà quali stupidaggini. Ma io non farò nulla per aiutarli a comprendere. Rimarrò per sempre in un’aura di mistero. Un terrificante mistero senza soluzione» (p. 183).
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)