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Storia dei croceristi infami

Creato il 24 settembre 2013 da Albertocapece

5440-009Anna Lombroso per il Simplicissimus

Nell’inanellarsi di scenette allegoriche dell’imperio del cattivo gusto, della volgarità perentoria e violenta che caratterizza la nostra contemporaneità dalla Milano da bere in poi, si è stampata nella mia mente l’immagine mille volte ripresa e ripetuta del bagno in piscina dei despoti cialtroni e svergognati, forse drogati, forse ubriachi, forse strafatti di viagra, accuditi da proterve ragazzone, più badanti che etere. Veniva da pensare che oltre che per i molti crimini commessi ai danno della democrazia, della legalità, dell’interesse generale, si sarebbero dovuti perseguire anche per i reati contro l’estetica e il buon gusto, per via di quei mobili finto barocco piemontese collocati a bordo piscina, quelle colonne doriche usate come porta-pareo, quelle statue che tante volte abbiamo visto, magari più dolenti, nei cimiteri di campagna. Mancavano solo  i nanetti, ma forse attendevano gli ospiti sulla ghiaiia del solenne ingresso, accanto alla guardiola dell’operose viglianza, esercitata da qualche mafioso a fine carriera.

Aveva ragione Dorfles, il kitsch altro non è che l’uso improprio, consolle laccate per appoggiare la crema solare, mutande infilate a Venere,  lusso privato per nascondere miserie pubbliche, quando vengono in visita i potenti, esercitato  da chi ga pan ma non ga i denti,  che tanto la cultura non si mangia, e adottato largamente da interi ceti che scelgono i viaggi irreggimentati da deportati dalle vacanze, incurante di dove passano e indifferenti alla meta, perché quello che conta è immergersi per un po’ in un lusso fittizio, in un’opulenza provvisoria e illusoria.

Nella polemica sull’affronto commesso dalle grandi navi ai danni di una città unica, della sua storia, della sua arte, del suo ambiente e dei suoi abitanti, sono state indicate molte correità, tutte opache e infami, quelle proprie di chi  svende bellezza e bene comune ispirato dalla miopia corruttrice del profitto , anche quello micragnoso e miserabile.  Ma per quella forma di ipocrisia che con un antico eufemismo si indica come carità di patria, si è ritratto il dito accusatore puntato contro una larga fascia di connazionali, colpevoli e complici, ben identificabili e nei cui confronti bisognerebbe dismettere indulgenza e comprensione. Le vittime riconoscibili dei modelli televisive, i fan degli eroi delle isole dei famosi e delle icone di Chi,  quelli che al bar dicevano”meglio puttaniere che frocio”, quelli che prima mettevano l’orologio sopra al polsino e poi il doppiopetto d’ordinanza per sentirsi parte di una cricca, quelli che vorrebbero immedesimarsi in un cine panettone, quelli che votano Fiorito perché è uno che fa favori, quelli che per abitudine più che per bisogno scelgono sempre le scorciatoie clientelari, le mancette, gli scambi di favori, gli omertosi nei confronti degli evasori, dei criminali, dei ladri, che si auguravano  che arrivasse a loro un po’ di quella polverina d’oro,  beh, quelli hanno avuto tutto il tempo per accorgersi dell’egoistica illusorietà della società cui aspiravano, rivelatasi brutta, sporca, cattiva e sleale, che li ha traditi, lasciandoli sempre più disillusi, poveri, spaesati, incerti.

È vero sono stati teleguidati,  espropriati del loro  libero arbitrio attraverso  una metodica persuasione, condizionati alla soggezione grazie alla proposizione di una felicità da ottenere grazie ai consumi effimeri e da conquistare tramite l’ubbidienza.  È vero si trattava di una ortodossia convincente, che prometteva conformistica tranquillità in cambio della fidelizzazione, omologato benessere in cambio della delega, appagante agiatezza in cambio della rinuncia a diritti e prerogative. E perfino all’abdicazione alla dignità, alla bellezza, alla memoria di che cosa si è stati e all’auspicio di chi si potrebbe essere.

Mi dicono che gli “imbarcati” nelle grandi navi che in numero di 12 cercavano di forzare il mansueto blocco dei veneziani, in attesa che il prossimo fine settimana ne passino oltre trenta,  schiumavano di rabbia inferociti contro i pacifici contestatori che osavano guastar loro la festa, una festa fatta della visione superba dall’alto di una città resa schiava del protervo gigantismo. I giocondi confinati delle crociere nemmeno scendono ormai, soddisfatti di esercitare la loro superiorità sputando liquami, emettendo fumi mefitici, fotografando con lo smartphone   un mito miniaturizzato, la storia ridotta a spot, l’arte costretta nella finzione contraffatta di Las Vegas o Disneyland, gli abitanti condannati al ruolo di comparse servili. Si, gli piace guardarla dall’alto, umiliandola, attraversandola veloci e incuranti , distratti e smemorati come davanti all’Eretteo, già espropriato, a Petra già corrosa, ai luoghi che dovrebbero rammentarci il cammino compiuto perché non torniamo indietro.

Pensando a loro, che preferiscono le sale giochi a bordo alle calli, gli oli dei saloni ai Tintoretto dell’Accademia, le moquette e l’erba finta dei ponti al bel “terasso” della Basilica, sento ancora più forte il bisogno di non dire più “noi” quando si parla di italiani, di elettori, di cittadini, di non condividere oneri e responsabilità con loro, di non sentirmi accomunata come si farebbe con chi sta sulla stessa barca, che sia il Titanic, una nave Costa  o la zattera della Medusa.


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