Inversamente proporzionale è il rapporto che abbiamo nei confronti delle cose. Vivendo in mezzo al deserto, chiunque bussi alla nostra porta è necessariamente un amico benvenuto. Vivendo a New York, a ogni colpo di nocche sulla porta è un colpo al cuore, che ci fa sussultare. Quando le sardine erano miliardi di miliardi, venivano pescate e usate per fertilizzare i campi. Ora che sono calate di numero, è un cibo da ricchi. E lo chiamano con un nome giapponese, esotico e snob. Quando i lupi vivevano ancora nei boschi, la gente li temeva e li uccideva. O li inseriva nelle favole. Ora che sono una rarità, li considera un simbolo della natura perduta e bramata.
Idem con l’orso e la lince: nel paleartico sono stati quasi completamente sterminati. Sacche d’ignoranza albergano ancora,
nell’animo di certi bifonchi, eredi di bucoliche tradizioni, ma saranno presto soppiantati, benché oppongano armata resistenza tramite i loro paladini bracconieri, astuti beoti che, delle loro prodezze, si vantano nelle osterie.Il Veneto è rappresentativo. Come pure il Trentino. Era di quelle parti Graziano Dal Dos, pioniere nello studio degli orsi delle Alpi, ma non era di quelle parti Luigi Boitani, esperto di lupi. Studiavano le tracce. E le fatte, termine gentile per indicare gli escrementi. Qualche pelo, rimasto appeso sui fili spinati. Di più non era possibile, almeno fino a quando i progressi delle tecniche fotografiche non misero a disposizione le fotocellule. Allora perfino i guardiacaccia poterono catturare rare immagini emozionanti di grossa elusiva fauna. L’occhio di vetro vigile e notturno, al posto degli stanchi occhi di gelatina umana, spesso arrossati dal vento delle vette.
Progressi tecnologici, negli apparecchi fotografici e satellitari. Imbrigliamo la natura, si dissero gli esperti. Oltre alle acque tumultuose, mettiamo il guinzaglio anche agli animali tumultuosi. Diamoci una parvenza, però, un pretesto rispettabile. Intanto, l’orso Knut lo mettiamo da parte (poi ci penseremo). Ma occupiamoci di quelli marroni, del Brenta. Prima cosa: dargli un nome. Nessun bracconiere oserà sparare a Dino o a Cesare. Lo facciamo anche con cani e gatti! Il nome è una protezione, si spera. Knut è morto annegato, dopo lunghe vessazioni delle femmine adulte, solitari e scontrose, come si può essere solitari e scontrosi in una vasca di 30 metri quadrati. Specie se si è una specie solitaria e irritabile. E’ morto annegato in mezzo metro d’acqua. A me vengono in mente i fratelli Taviani, registi, e la loro predilezione per i suicidi mediante annegamento. In almeno un paio dei loro film c’è gente che si lascia morire annegata. Knut avrà visto qualcuna di quelle pellicole?
Con Dino le cose sono andate ancora peggio.
http://www.ilgazzettino.it/articolo.php?id=143213&sez=NORDEST#IDX
Benché non fosse prigioniero di quattro mura, a Berlino, lo era dei tormenti che lo seguivano ovunque, tra Trento e la Slovenia. Due anni visse Dino, con un radiocollare troppo stretto, che lo faceva impazzire. Per primo io, come Einstein, vorrei conoscere i pensieri di Dio, ma subito dopo vorrei conoscere cosa passava per la testa ai biologi che glielo hanno applicato, mentre tralasciavano di sistemargli anche il dispositivo di apertura automatica. Pensavano che sarebbe rimasto sempre in formato cucciolo? Gli orsi crescono, a differenza dell’intelligenza umana. Cercava di toglierselo e si feriva con le sue stesse unghie. Impazziva, lentamente.
Così lo videro gli sloveni, tecnici pure loro, biologi a tempo perso. Armati fino ai denti. Campioni di venatorie conquiste e difensori della più pura, altissima e levissima “wilderness”. Spararono, prima di pensare ai famosi progressi della tecnologia che, oltre alle trappole fotografiche e ai radiocollari applicabili, aveva messo a disposizione per gli uomini di buona volontà anche le siringhe anestetiche, sparate da fucili ad aria compressa. Ma l’anima dei guardiacaccia sloveni era compressa e tormentata da altri crucci. E spararono. Un bel colpo, di quelli che fanno sussultare i nervosi abitanti di New York, che per fortuna non lo udirono. Centinaia di commenti benevoli e malevoli aveva suscitato, Dino, molti di più di quelli che suscita il Sushi giapponese, migliaia di euro aveva movimentato e almeno una decina di asini si era pappato, nella sua breve vita, tra Veneto e Friuli, con puntatine in Slovenia. Decine di cuori aveva fatto palpitare, più di quelli che fece palpitare Vallanzasca. L’orso gangster Dino, mangiatore di asinelli bellunesi. I naturalisti avevano sperato che la cocciuta umanità si fosse evoluta e civilizzata. Che l’Ottocento fosse finito. Hanno dovuto ricredersi. Ora c’è l’orso Cesare in circolazione, ma i commenti sul Gazzettino languono. Chi ci crede più, ormai, all’evoluzione spirituale degli esseri umani?http://www.ilgazzettino.it/articolo.php?id=143465&sez=NORDEST&ssez=BELLUNO