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Storia di un’anima che non si sentiva amata da Dio

Da Ganimede

Testimonianza di Riccardo tratta da: www.gionata.org 

Storia di un’anima che non si sentiva amata da Dio

“Una volta il nostro buon Signore disse: «Ogni specie di cosa sarà bene». […] Perché Egli vuole che sappiamo che anche la cosa più piccola non sarà dimenticata”. Sono queste le parole che Cristo disse a S. Giuliana di Norwich, mistica e reclusa inglese vissuta dal 1342 al 1430 circa. Parole che prima di essere dette a lei, vennero proclamate ad ogni popolo ben prima, ad alta voce e dall’alto di una montagna.
In passato non avrei mai creduto a questo, anzi, pensavo che l’amore di Dio fosse solo per i buoni, per coloro che sono perfetti e senza macchia alcuna. Ma ora ho compreso che Cristo, anche a me, dice: «Guarda quanto ti amo»! Una certezza a cui sono giunto solo dopo un percorso di sofferenza. Esattamente come il Profeta Giona, che dovette attendere il suo tempo all’interno del ventre del pesce. Solo dopo rivide la luce.

Lo ricordo come se fosse ieri, il giorno in cui compresi la mia natura omoaffettiva. Alla scuola materna c’era un compagnetto che fra tutti i bambini della mia classe era certamente il più bello, con i suoi riccioli dorati, gli occhi chiari e le lentiggini sul viso. E
ra il più forte e tutti andavamo da lui per farci aprire i vasetti di plastilina. Ci difendeva sempre dai soprusi dei bambini più vivaci e, se non erro, fu lui la prima persona che suscitò in me sentimenti di affetto innocente.
A tre anni non potevo riconoscermi nella condizione dell’omosessuale, ma per me era spontaneo provare quelle sensazioni. Ero un bambino molto vivace, allegro, sorridente, educato ai valori evangelici, poiché per la mia famiglia la carità doveva avere il primato su tutto.
Mia madre è sempre stata con noi tenera e amorevole, pronta a farsi prossima di chiunque; mio padre, invece, seppur poco propenso ad esprimere le sue emozioni e sempre molto impegnato con il lavoro, era per me un esempio di dedizione e sacrificio. Guardavo con ammirazione ogni persona che portava avanti il fine principale per il quale Dio ci chiama e ci riunisce: onorare Nostro Signore Gesù Cristo come la sorgente e il modello di ogni carità, servendolo corporalmente e spiritualmente nella persona dei poveri e degli oppressi. Il Vangelo è stato per me il nido dove sono cresciuto e che mi ha insegnato a stare attento alle sofferenze altrui.
I miei problemi, in quanto omosessuale, iniziarono alla scuola elementare, quando divenni il bersaglio di molti bambini a causa dei miei modi, dei miei giochi e della mia immaginazione incline alla sensibilità femminile. “Donna”, “frocetto”, “finocchio”, erano solo alcune delle offese che mi venivano rivolte di tanto in tanto.
Ricordo che nell’altra classe c’era un altro bambino, probabilmente anche lui omosessuale, il quale ritornava spesso a casa piangendo dopo essere stato apostrofato con questi soprannomi. Un giorno suo padre venne in classe in lacrime, affranto e confuso per la cattiveria che veniva rivolta al figlio, di cui anche io ero complice.
Infatti, in modo immaturo, prendevo parte ai soprusi contro di lui, così da accentrare l’attenzione anche su di lui e non solo su me. Ero stanco di cancellare dal mio zaino scritte quali: “frocio” o “ricchione”. Ricordo che intervenni dicendo: «Sì, è vero, si porta dietro i trucchi e le bambole!».
La Maestra, che aveva intuito la mia omosessualità, quel giorno mi impartì una lezione che potrebbe apparire forte, ma che invece sortì un effetto positivo in me. Da grande educatrice quale era disse davanti a tutti: “E tu? Non giochi forse sempre con le bambine? Non ti piacciono forse le stesse cose del tuo compagnetto?”.
Rimasi in silenzio, come impietrito e fu così che compresi che era giunto il momento di battermi per quelli come me, ma non solo, anche per coloro che si sentono emarginati, discriminati, a causa della loro condizione esistenziale.
Questa presa di coscienza divenne nel tempo una vocazione, che si radicò in me con l’inizio della formazione catechistica.
La nostra catechista era un donna nubile, piuttosto schietta e scortese, ma ci seppe guidare verso i sublimi valori del Vangelo.
Quando ci raccontò che Gesù proclamò “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati” (Mt 5, 4), compresi che Cristo si stava riferendo anche a me, a quel bambino che si chiudeva nella sua stanza per inventare giochi solitari al riparo da bambini insensibili. Intuii che le Beatitudini non dovevano essere interpretate come ricompense ultraterrene, ma piuttosto come opere d’amore di chi si pone alla sequela di Cristo e alle quali consegue l’amore fedele di Dio. Io ero difatti nel pianto e, sentendo quella Beatitudine, sapevo nel profondo che sarei stato consolato ben presto.
Al contempo, sapevo che se avessi consolato un altro amico o un’altra amica omosessuale, anche loro avrebbero sperimentato questo stato di beatitudine.
Le Beatitudini, a mio avviso, sono una dinamica di amore comunitario, fulcro del Vangelo della Montagna, stella polare a cui ogni cristiano dovrebbe sempre far riferimento. Innamorato della figura di Gesù di Nazareth, iniziai a leggere il Vangelo senza l’aiuto di nessuno, ma al contempo, iniziai a provare sgomento per la miriade di pagine violente narrate nella Bibbia. La mia attenzione però era fissa su Cristo, sul suo modo di interagire con gli altri, gli ultimi, i poveri e i peccatori. Sapevo che Lui mi avrebbe donato“una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 14).
Non ricordo il momento in cui presi coscienza dell’esistenza di Dio, non avevo bisogno di credere, poiché ogni qualvolta mi soffermavo ad osservare una rosa fiammante, fregio della terra e splendore ammaliante di stupendi giardini, i miei occhi vedendo la sua eccellenza, stupiti dalla sua bellezza, riconoscevano l’intervento di un dito divino. La meraviglia, infatti, è per me la madre della fede, una fede che da bambina diventa adulta, diventando consapevolezza dell’esistenza di Dio.
Penso che i bambini possano insegnarci ad aver fede, perché di fronte ad un tramonto, ad un mare in burrasca, alla nascita di una farfalla, si meravigliano e concludono ingenuamente che tutto ciò sia un mistero irreperibile.
I bambini hanno un animo limpido e Gesù è chiaro a tal proposito: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5, 8). La consapevolezza dell’esistenza di Dio è, a mio avviso, la dimensione a cui dovremmo tendere. Credere a priori è un atto privo di esperienza, dobbiamo invece sperimentare Dio, attraverso la capacità di meravigliarci ancora del Suo Creato e delle Sue Creature, allora la nostra fede si tramuterà in consapevolezza e smetteremmo di dire «Io credo in Dio», per affermare infine con fermezza che «Dio c’è». Non più fede in Lui, ma consapevolezza di Lui.
La mia esistenza e la mia fede, tuttavia, vennero messe alla prova durante la frequentazione della scuola media inferiore. Gli atti di bullismo divennero insopportabili e incessanti. Spesso, sui muri della scuola o sui banchi, si poteva leggere il mio nome affiancato alla parola “frocio”.
Avevo sempre paura di andare alla lavagna, era infatti l’occasione opportuna per additarmi, ed è così che in alcune materie (dove era richiesto l’esercizio alla lavagna) i miei voti precipitarono. Qualcosa si incrinò in me e si insidiò nella mia mente il pensiero del suicidio e della morte, come fuga estrema da un mondo che consideravo crudele e immutabile. Desideravo le peggiori cose per coloro che mi facevano del male. Ho sperato perfino che la loro vita finisse.
Il clima delle superiori, a parte qualche velata allusione, fu radicalmente più sereno perché avevo imparato ad apparire più maschile, a fingere interessi verso precisi argomenti e verso le ragazze. Quando si finge indossando una maschera che copre il nostro vero volto è tutto più facile. Mia madre mi iscrisse agli scout e anche lì fu terribile.
I giochi attorno al fuoco, smisero di essere giochi di gioia, diventando vere e proprie torture, perché le parole venivano modificate per adattarle a me, che per tutti era “lo scout frocio”. Ricordo che successivamente ad una riunione, dopo l’ennesima presa in giro, scappai a casa in lacrime chiudendomi in bagno per quasi un’ora. I capi vennero a cercarmi spaventati per la mia reazione e chiesero ai miei genitori delle spiegazioni, ma io inventai delle scuse per mandarli via e così se ne andarono senza aver conosciuto la verità. Dopo quella volta, ribellandomi a mia madre che desiderava che continuassi il percorso scoutistico, decisi di andarmene da quell’ambiente per non soffrire più.
Finalmente le cose iniziarono a cambiare positivamente verso la terza superiore, perché incontrai nuovi amici e amiche che mi accolsero positivamente pur intuendo la mia natura omoaffettiva. Un’amica si innamorò di me, ma feci finta di niente perché con lei potevo condividere la mia passione per la musica, la poesia e la scrittura.
Fu lei il primo angelo che il Signore mise sulla mia strada. La spiaggia era il luogo preferito dove poter scrivere e qui, davanti ad un bellissimo tramonto, le rivelai la mia omoaffettività. Fu la prima persona a cui dissi di me.
Soffrì profondamente, ma si comportò come un vero e proprio angelo: fu la prima persona a portarmi il lieto annuncio che anche un omosessuale è degno di amore e stima.
Iniziò così la mia rinascita. La mia fede però era ormai tiepida e stremata, non c’era per me nessun Dio pronto ad accogliermi. Il Magistero della Chiesa, le perentorie parole dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger e di Papa Giovanni Paolo II, non mi aiutarono affatto: potevo essere omosessuale, ma non potevo amare un altro uomo con il mio corpo.
L’omosessualità diventava così una sorta di prova da superare mediante uno stile di vita casto e sobrio. Non riuscivo ad accettare questa menomazione e fu in quel momento che chiusi Cristo e il Suo Vangelo in un angolo segreto del mio cuore.
Andai così alla ricerca di nuove forme di spiritualità più soddisfacenti: dal neopaganesimo, alle filosofie orientali, fino ai filosofi dell’illuminismo.
Chiamavo Dio lo “Spirito dell’Universo” e a Lui rivolsi la mia preghiera più profonda: desideravo incontrare l’amore umano migliore per me. Ero solito ripetermi: «Là fuori c'è qualcuno che mi cerca, come io cerco lui».
Tale speranza si avverò in breve tempo, poiché incontrai il ragazzo che tuttora, da circa otto anni, è il mio compagno e il mio amore prezioso. I miei sogni potevano finalmente realizzarsi: mi sarei addormentato fra le sue braccia, avrei ricevuto le sue carezze, passeggiato con lui, litigato con l’intento di far pace subito dopo, regalandogli i cioccolatini per la festa di S. Valentino. Solo una cosa la mia Chiesa mi vietava: non potevo fare l’amore. Disobbedii, perché ritenevo questa proibizione un’assurdità.
L’emorroissa (Matteo 9,20-22) ritornò a vivere disobbedendo ad una Legge che le impediva l’incontro con Dio, a causa del male che l’affliggeva e la rendeva impura agli occhi umani ma non a quelli divini.
Sono felice di aver disobbedito e di essermi dato l’opportunità di amare e di essere amato dal mio compagno. Mi fa sorridere leggere o ascoltare opinioni secondo le quali il mio non sarebbe un vero amore, in quanto sterile e non basato sul dono reciproco di sé.
Il mio compagno ed io ci doniamo ogni giorno, talvolta spogliandoci di noi stessi, mettendo da parte la nostra persona, pur di renderci felici.
Colui che amo mi ha perdonato, mi è stato accanto, è stato presente in ogni mio passo come un angelo custode e tutto ciò non è forse un dono di sé? Non siamo fecondi biologicamente, è palese, ma affettivamente sì, perché sognare una vita con lui, una casa in comune, fino a quando i nostri capelli non saranno bianchi, per me significa vivere in modo fecondo e donarsi reciprocamente. Io ho messo la mia vita nelle sue mani e lui la sua nelle mie, facendo di ciò un’offerta di ringraziamento a Dio Padre.
Tutti sappiamo che la Chiesa Cattolica non odia gli omosessuali aprioristicamente, poiché desidera la salvezza di tutti i suoi figli. Ciò a cui ci chiama da sempre deriva dalla Tradizione e   da precisi passi biblici che, decontestualizzati e interpretati in modo letteralistico, generano una prigione dogmatica che non tiene conto del nostro diritto di amare e di essere amati. Cristo, infatti, ci “ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3,6).
Per quanto mi riguarda, io non ho scelto di essere omosessuale, sono così da sempre. L’orientamento sessuale e affettivo è una realtà scientificamente comprovata e non possono chiederci di reprimere la nostra natura, perché io non penso di essere “contro natura”, ma bensì, di essere una natura all’interno di una Natura più grande.
Chiederci di vivere a metà, senza sessualità e affettività, “sarebbe come dire a una pianta: puoi crescere ma non puoi fiorire”, disse notoriamente Padre Alberto Maggi, biblista, esegeta e angelo prezioso.
La sessualità, all’interno di una coppia stabile che si ama, non è riducibile ad un mero atto fisico, essendo la trasmissione dell’amore spirituale mediante il proprio corpo. E’ un processo che va dallo spirito alla carne, ed io, ritengo che sia l’amore a santificare l’atto sessuale.
Questa idea ora è parte fondante della mia vita, ma dopo la morte di una mia cara zia dovetti affrontare un periodo di messa in discussione di ogni certezza.
Cedetti al desiderio di provare nuove emozioni al di fuori del mio amore prezioso, non avendo prima di lui vissuto alcuna esperienza sentimentale o sessuale.
Tradii così il mio amore diventando poi schiavo dei sensi di colpa. Invocavo su di me la peggiore delle punizioni per aver sfigurato il dono prezioso della mia relazione.
Dopo la morte della mia cara zia, intrapresi un cammino di farisaica religiosità, nell’incolmabile desiderio di rimediare ai miei peccati e ai miei sensi di colpa verso Dio e verso il mio compagno.
Decisi così di lasciarlo e pensai che forse la Chiesa aveva ragione: l’omosessualità è intrinsecamente disordinata e conduce a tutto ciò. «L’omosessualità – pensavo - porta con sé i semi del male e se non posso guarire - non essendo una malattia - posso almeno privarmi della mia sessualità».
Emerse il mostro che avevo dentro: la paura dell’inferno. Mi chiusi in una prigione fatta di riti esterni al cuore, rassicuranti, poiché è più facile pascolare in uno stretto recinto, piuttosto che in una valle rigogliosa e ampia.
Informai il mio ragazzo della mia decisione di lasciarlo e di vivere senza più nessuno accanto. Non meritavo nessuno, non volevo finire all’inferno e la castità sarebbe stata l’opzione migliore.
Lui accettò perdonandomi e desiderando di vivere con me castamente. Chiesi a Dio un segno e di inviarmi degli angeli che mi aiutassero a capire quale fosse la scelta migliore da intraprendere.
Non ricordo come avvenne, ma approfondendo il tema della fede e dell’omosessualità mi imbattei in un mondo teologico ben diverso da quello che avevo conosciuto, più ricco e rigoglioso; costituto da persone che rendono testimonianza di quel bellissimo passo del libro della Sapienza (Sap 11, 24) dove si dice che Dio, se avesse odiato qualcosa, non l'avrebbe neppure creata, perché niente potrebbe sussistere se Lui non lo volesse. O, addirittura, conservarsi se Lui non l'avesse chiamata all'esistenza.
Molti obietterebbero affermando che questo passo non possa considerarsi a favore dell’omosessuale, perché significherebbe dire che anche la pedofilia o l’omicidio, in quanto esistenti e sussistenti, sono dimensioni accettabili.
I sostenitori di questa tesi ritengono che l’omosessualità, come l’omicidio, la violenza, la pedofilia, siano la conseguenza del  peccato originale, dimenticando però una differenza sostanziale che vale la pena rimarcare, nonostante la sua ovvietà: io, in quanto omosessuale, amo e rispetto la libertà del mio compagno, gli esprimo il mio amore, desidero il suo bene; il pedofilo o l’omicida, invece, attuano una violenza, un sopruso, sfigurano la libertà e calpestano la vita.
Come possiamo paragonare una relazione d’amore libera e responsabile, alla dimensione patologica della pedofilia, basata sulla sopraffazione? La Chiesa e parte della società dovrebbero sempre porsi questo quesito.
Scoprii tramite dei veri angeli in terra un Signore che risparmia tutte le cose, perché tutte son sue. Un Signore amante della vita.
Entrai in contatto con una nuova esegesi, liberante, illuminante, che finalmente spazzava via la polvere che copriva il volto del Dio buono testimoniato da Suo Figlio. Il vero nome e il vero volto di Dio è appunto l’amore, come sta scritto nella I Lettera di Giovanni (4:8): “Dio è Amore”. Non a caso la parola greca tradotta qui con amore è “agape”, un tipo di amore elargito con abbondanza e incondizionatamente, indipendentemente dal merito altrui.
E’ un amore che potremmo paragonare alla luce del sole: possiamo impedire al sole di splendere? No! Al massimo possiamo ritirarci nel buio e non ricevere più la sua luce, ma il sole continuerà a spandersi comunque e ovunque, aspettando di scaldare il viso di ogni persona.
Questo è il criterio che mi aiuta a capire chi è veramente Dio, sole "che è nei cieli" e che sorge "sui cattivi e sui buoni" (Mt 5: 45). Credo che Gesù, unica stella polare, non abbia la verità, ma sia la Verità: "Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6).
Gesù è il Figlio di Dio, ossia assomiglia a Dio e compie la missione affidatagli in un atteggiamento di obbedienza, diventando quindi il primo testimone del Padre.
Perciò chi è Dio? Dio è Amore abbiamo detto (1Gv 4, 8) e, in virtù di questa somiglianza, anche Gesù è tale, dunque dichiarandosi Via, Verità e Vita, Gesù proclama che l’Amore è la Via, la Verità e la Vita. E, se la Verità è l’Amore, noi dobbiamo rimanere in esso poiché “chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.” (1Gv 4, 16).
E’ così difficile sentirsi amati da Dio. Spesso siamo noi a misurare quanto amore meritiamo. Per fortuna lo Spirito di Dio parla per bocca dei suoi umili inviati; uno di questi mi disse: «Sei partito dal giudizio severo su te stesso, cercando di essere tu il Padre Eterno, parti piuttosto dalla sua Misericordia e lascia che sia Lui il solo a giudicare».
Come possiamo dunque ascoltare “la voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 3) se non facendo della nostra anima un deserto? Io ho messo a tacere molti pensieri ereditati da altri, ascoltando non più un grido, ma un sussurro, come quello di una mamma che legge una fiaba al suo amato figlio.
Io ho smesso di odiare la mia Chiesa e l’ho fatto proprio ascoltando Gesù e il suo accorato appello di perdono. Se avessi continuato ad odiarla (anche se le perplessità sono ancora tante), sarei come quegli scribi e quei farisei che condussero a Gesù “una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro […] Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?" (Gv 8, 1,5).
Questa domanda l’ho posta anche io a Cristo ed io non desidero che Lui si chini a “scrivere col dito per terra” (Gv 8, 6) il mio nome nella polvere, affianco a quelli che“hanno abbandonato il Signore, fonte d’acqua viva” (Ger 17, 13).
"Neanch'io ti condanno” (Gv 8, 11), mia Chiesa, desidero infatti, rimanendo in te, aiutarti ad andare e a non peccare più verso di noi, figli di Dio in cammino come lo sei tu. Noi omosessuali, a causa del dolore che la Chiesa ci causa, ci dimentichiamo che nessuno di noi è “senza peccato” e gettare per primi “la pietra contro di lei” significherebbe negarle una possibilità di riscatto, di crescita, rallentando così i tempi in cui un giorno anche noi saremo accolti integralmente, come esseri che possono amare spiritualmente e corporalmente.
La Chiesa, nei confronti di noi omosessuali non si pone forse come “nemica” del nostro anelito di vita e di amore? Gesù, a noi omosessuali, non compresi ancora dalla nostra Chiesa dice: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Lc 6, 27-28).
Vorrei concludere questa mia testimonianza con un suggerimento che potrebbe apparire presuntuoso: ricordiamoci sempre che la “lettera uccide”, mentre lo “Spirito dà la vita” (2Cor 3,6). Sappiamo che nella Bibbia l’omosessualità è deplorata, ma ogni passo biblico a discapito di essa è comprensibile alla luce della storia, della scienza e dell’esegesi.
La Bibbia, a mio avviso, contiene la Parola di Dio, la quale si trova sepolta sotto una montagna di parole umane. A noi, quindi, spetta il compito di dissotterrarla e di rivelarla al mondo.
La Parola di Dio nella Bibbia è come l'oro che si trova in un fiume e che per essere separato dalla sabbia del suo letto necessita di un setaccio.
Non è forse Cristo-Amore il nostro setaccio? Egli è morto anche per noi omosessuali, perché non fossimo ritenuti degni di morte da una legge costituita da “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9).
Dio è amore, ricordate? Chi ama può forse comandare che coloro i quali hanno “rapporti con un uomo come con una donna […]”, debbano “essere messi a morte” affinché “il loro sangue ricadrà su di loro”?. Eppure sta scritto nel libro del Levitico 20,13! Dare credito a ciò significherebbe rendere vano il sacrificio di Gesù, che prima di essere Figlio di Dio, come crediamo noi figli della Chiesa Cattolica, fu il profeta di Nazareth talmente innamorato della vita da non aver paura di perderla per i propri amici (Gv 15,13).
Quando leggete la Bibbia, sia il Vecchio che il Nuovo Testamento, tenete sempre a mente – come scrisse Adriana Zarri, teologa e poetessa, che “la Parola di Dio, in senso stretto, è il Verbo del Padre”, ed essendo il Verbo inafferrabile e non pienamente percepibile, “per rendercelo comprensibile, è stato travasato, per così dire, nelle parole umane della Bibbia”.
Oggi sappiamo bene che l'autore, anche se ispirato, “presta a Dio assai più della mano, gli presta tutto se stesso, con i suoi limiti, errori, pregiudizi che si vanno a sommare alla Rivelazione in un groviglio non facilmente districabile.
La Parola di Dio, detta dall'uomo, è anche la parola dell'uomo, e dell'uomo assume tutti quei condizionamenti (Adriana Zarri, Il Dio che viene. Il Natale e i nostri natali, La Piccola Editrice, Celleno, 2007, pp. 14-17).
Mio amico omosessuale, mia sorella omosessuale, a te voglio dedicare la poesia di S. Teresa d’Avila:
“Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi;
 tutto passa,
Dio non cambia;
la pazienza ottiene tutto;
chi possiede Dio non manca di nulla.
Solo Dio basta.”
Insieme a S. Teresa anche io ti dico: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi”, poiché  Il Signore è amante della vita, quindi anche della tua e della nostra.


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