Magazine Diario personale

Storia di uno stupore breve

Da Icalamari @frperinelli

L'occhio e il mirino.

Ieri le onde spruzzavano salsedine e io le guardavo in faccia. Primo bikini dell’anno per me. Il clima era così buono che in tanti si sono tuffati. Io no. Però ho giocato ad acchiappare le ragazze con le caviglie immerse nell’acqua bassa e spumosa della battigia. Sono sempre io la più veloce. Ho la tecnica giusta per correre nella sabbia. Anni e anni di pratica alle spalle.

Finché, abbastanza stanca, mi sono lasciata cadere sull’asciugamano. Il corpo ha colpito terra con un sordo pof e si è spaccato come un melograno. Ho atteso che il respiro tornasse regolare, intanto ne ascoltavo soddisfatta il rumore di piccolo mantice. Era previsto, l’avevo già vissuto tante altre volte, ma è stato bello lo stesso riscoprirmi viva. Sono rimasta lì, in quella posizione sbilenca per qualche minuto, a occhi chiusi, immaginando che i radi passanti portassero stampata in faccia tutti la mia stessa espressione di stupore: Possibile che fosse già passato tanto tempo?

A ripensarci, verso la fine dell’estate scorsa serpeggiava una stanchezza mortale. Troppo vento sui corpi, troppo sole, troppa socialità sopra le righe. Si era esaurito il piacere del dialogo spontaneo con la natura. Aveva vinto lei, che resta sempre lì, giorno per giorno. Lei, che è davvero eterna, ci consumerebbe in un lampo, se non tornassimo presto o tardi a ripararci. In quella caverna, palafitta, villetta, palazzone, o anche in quella roulotte, che pure chiamiamo casa. Da cui si dipanano le serie di eventi, i soli a definirci, ai quali affidiamo il compito di distinguere la nostra esistenza dalle altre.

E dunque ieri sotto il cielo terso, era tornato a stordirmi felicemente lo stupore. Poi all’improvviso si è rannuvolato, qualche goccia di pioggia sul libro appena aperto è stato il segno che il breve anticipo d’estate era finito. Di primo maggio, dopo tutto, ci si poteva stare. Curiosamente, sulla pagina era stampata una lirica di Fosca Massucco tanto calzante alla giornata in corso, da farmi pensare di leggerla ad alta voce (conviene alzare il volume, però. È Fosca il tecnico del suono, io sono un misero architetto, e pure intimorita nell’esibizione).

“E quando pensavo di averlo trovato” da L’occhio e il mirino* di Fosca Massucco

A me, quando ho i corvi neri in volo attorno, sembra di scoprire una pepita d’oro trovando un’ombra di malinconia tra i versi. Eppure è cosa rara nelle poesie di Fosca.  Ci siamo conosciute (virtualmente) qualche mese fa, io folgorata dal blog 52+1 poesie. Le farei un torto a tentare di recensirla, non ne sono capace. So dire ciò che mi pare che non siano, i suoi versi. Non fanno appello alle facili emozioni, né parlano banalmente del quotidiano o al contrario di temi intangibili, se non mostrandone la traccia lasciata dall’esperienza. Mi regalano sorrisi inattesi e a volte fanno scattare quel piccolo palpito che di solito attribuisco alle aritmie congenite.

L’occhio e il mirino (Ed. L’arcolaio 2013) è l’esordio su carta (QUI il BookTrailer) di Fosca Massucco. Che si diverte a confessare di non attribuire importanza alla rete (dove è però ben presente e dove, tra l’altro, “spiega” come funzione la poesia). Dice di vivere serena, “nonostante” la mancanza, nella stanza quieta, di una tigre come quella di Cristina Campo.


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