di Pigi Arisco
“Salvador non piangere”. Era la voce di suo padre. Non era lì con lui, ovviamente. Era nella sua testa, e ricordò la prima volta che sentì quella frase quando era solo un bambino. In quell’occasione aveva appena ricevuto una lezione importante.
Non basta essere nel giusto perché tutto vada come dovrebbe. In realtà il giusto lo fanno quelli più forti, ed in quel caso erano rappresentati da Victor, un bambino più grande, più forte e più prepotente. Salvador aveva rimediato un paio di brutti tagli ed un bel po’ di lividi, e suo padre invece di vendicarlo andando ad uccidere Victor, stava lì a dirgli di non piangere, e che non sempre basta avere ragione perché tutto vada come vorresti.
E adesso? Anche adesso sentiva la voce di suo padre che gli diceva “Salvador, non piangere”, ma le lacrime scendevano lo stesso, non riusciva proprio a trattenerle, così come le gambe, che non smettevano di tremare. Non voleva finisse così, avrebbe voluto arrivare al patibolo con lo sguardo fiero, magari con una risata spavalda, come quell’immagine dell’anarchico baffuto tra i militari che teneva appesa sulla scrivania di casa. Ma niente, non riusciva proprio a controllare quel corpo, come fosse abitato da qualcun altro, come non avesse più niente a che fare con il suo cervello, tremava e piangeva, e neanche la voce di suo padre riusciva a farlo smettere.
Poco prima di entrare nella stanza dell’esecuzione si era avvicinato il cappellano del carcere, che già da qualche metro diceva: «Figliuolo! Pentiti dei tuoi peccati».
Certe volte, in alcuni casi, determinate parole hanno qualcosa di magico. Così fu per Salvador l’anticlericale, terrorizzato dall’idea di dover morire: al suono di quelle parole, per un istante, riprese il controllo delle gambe, smise di piangere, raddrizzò la schiena e disse: «Padre…».
Il cappellano conosceva bene quel momento, lo aveva visto mille volte; chiunque, anche il più ottuso tra gli atei, a pochi minuti dalla morte veniva assalito dal dubbio, non fosse altro che per rimandare di qualche minuto l’esecuzione. Ed anche adesso quel ribelle, era lì ad implorare il perdono di Dio.
«Dimmi figliuolo» disse il cappellano appena gli fu accanto. Poi una testata gli fratturò il naso ed una ginocchiata gli schiacciò i testicoli.
Salvador riprese il cammino lasciandolo a terra a sanguinare e gridare qualcosa a proposito di sua madre e le fiamme dell’inferno. Fu un attimo di breve soddisfazione ma appena si aprì la porta della stanza e vide la sedia con la garrota, le gambe ripresero a tremare e la paura e le lacrime cancellarono ogni espressione diversa dal terrore.
Lo fecero sedere sulla sedia di legno, gli misero il cappuccio, infilarono il cerchio di metallo intorno al collo, inserirono la grossa vite e cominciarono a stringere. Il giudice leggeva la solita frase di rito per i condannati. Salvador sentiva le mani del boia girare la vite dietro il collo, sapeva che da un momento all’altro la gola si sarebbe chiusa, l’aria avrebbe smesso di entrare nei polmoni e sarebbe morto per soffocamento.
Aspettava Salvador. Aspettava. La vite dietro di lui girava, il giudice aveva finito la formula di rito e attendeva; come attendeva Salvador, come attendevano tutti. L’unico a non attendere era il boia che continuava a girare e sudare.
Poi il giudice disse: «E quindi?».
«Non so giudice, io giro, ma qui non stringe, forse la vite è spanata».
«Come la vite è spanata? Non l’avete controllata?».
«Ma sì, certo, appena due ore fa, funzionava tutto…».
«Oh cazzo, e adesso?».
«Eh, non so, cerchiamo di risolvere la situazione mica possiamo fare ‘sta figura».
Salvador da sotto il cappuccio non capiva se si trattava di un macabro scherzo, in ogni caso stava per morire e quell’attesa era un ulteriore supplizio che non meritava.
«Ho trovato» disse il boia, «impicchiamolo, poi lo sediamo di nuovo nella sedia e diciamo a tutti che è stato garrotato».
«Bravo boia!».
«Grazie giudice! Vado a prendere una corda».
Al suo ritorno il boia chiese al giudice: «Dove lo appendiamo?».
«E che ne so io! Sei tu il boia. Scegli il posto adatto».
«Uhmm, ci sarebbe l’anello di ferro che tiene il lampadario, ma reggerà? Lei che dice signor giudice?».
«Ti sembro forse un ingegnere? Che cazzo ne so, faccio il giudice io».
«Neanch’io sono ingegnere! Posso dirle quanto ci mette a morire un garrotato, non se quell’anello reggerà! Ma guarda questo!!».
«Pure il boia permaloso dovevo beccare! Uhmm, come si fa? Aspetta! Forse… ehi condannato! Tu che mestiere fai?».
«Andatevene affanculo tutti quanti!» disse giustamente Salvador.
«Vabbè, ho capito, me la prendo io la responsabilità. Sì. Reggerà! Contento boia?».
«Se lo dice lei…» disse il boia con aria di sfottò.
Salvador non poteva credere alle sue orecchie, aveva paura, stava per morire eppure sembrava di essere finiti in una farsa. Il boia prese una scala, passò la fune dentro l’anello, fece un cappio a regola d’arte e lo passò intorno al collo di Salvador. Fissò la fune alle sbarre della finestra, lo fece salire su una sedia ed aspettò che il giudice riprendesse a leggere la frase di rito, una volta terminata, il boia diede un calcio alla sedia. Salvador precipitò in basso, la corda si tese. L’anello, insieme ad un bel pezzo di intonaco, schizzò via dal tetto facendo precipitare Salvador a terra ed una delle due guardie in un angolo con il volto pieno di sangue e lacrime, l’anello lo aveva centrato in pieno viso.
«Cristo!» disse il giudice, un attimo prima che scoppiasse il pandemonio.
La guardia piangeva in un angolo consolata dalle amorevoli carezze del suo commilitone; il giudice ed il boia, fronte contro fronte, si insultavano a vicenda rinfacciandosi responsabilità e “l’avevo detto io”. Salvador da sotto il cappuccio gridava tra le lacrime: «Siete delle incredibili teste di cazzooo!».
Dopo cinque minuti di pura follia, l’ordine era ristabilito; la guardia, un po’ malconcia, aveva ripreso il suo posto, il giudice ed il boia avevano ricominciato a parlarsi senza gridare e Salvador era di nuovo sulla sedia della garrota.
«E adesso?» chiese Salvador. «Che intenzioni avete?».
«Già» disse il giudice «che si fa?» e guardò il boia.
Il boia, che aveva capito che quella non era giornata, disse: «Ma non potremmo rimandare? È evidente che questo qui non lo si riesce ad ammazzare».
«È forse impazzito?» proruppe il giudice. «Chi si crede di essere? Cos’è? Prima non era ingegnere però adesso vuole fare l’avvocato? Cosa ne sa lei di legge? Faccia il suo dovere: trovi un modo per ammazzare ‘sto ragazzo e nascondere così la sua incompetenza con la garrota!».
A quelle parole il boia diventò paonazzo e gli si gonfiarono tutte le vene del collo, poi vide le guardie e capì che non ce l’avrebbe mai fatta ad ammazzare quello spocchioso figlio di puttana prima che una pallottola gli finisse dritta nella schiena, quindi decise di lasciar perdere. Aspettò dieci secondi, poi disse: «Ok, SIGNOR giudice, potremmo fare così: stacchiamo i fili dall’interruttore della luce, li speliamo, li giriamo intorno al collo del ragazzo, lo fulminiamo, e poi lo sediamo di nuovo sulla garrota, le bruciature verranno nascoste dal grosso anello di metallo».
«Ohh, ha visto che quando la si riporta ai suoi ranghi riesce persino a pensare cose intelligenti? Bravo boia, certo, ci avesse pensato prima, al nostro militare ora non sanguinerebbe così tanto il naso!».
Il boia strinse i pugni talmente forte da farsi sanguinare i palmi, poi strappò il vecchio interruttore con una mano sola, tanta era la rabbia, staccò i contatti e si sedette in terra a spelare i fili con i denti. Il giudice, che aveva ormai capito di aver sottomesso il boia, non seppe resistere, si rivolse alle guardie e disse:
«E chi lo avrebbe mai detto? Ingegnere, avvocato e adesso pure elettricista! Quante qualità ha il nostro boia!», e lì giù tutti a ridere.
La rabbia del boia era tale che invece di spelare strappò un intero pezzo di filo elettrico, che gli rimase fra i denti. Con le due estremità ancora in mano, girò la testa di lato e sputò il filo senza guardare. Il filo arrivò dritto al pannello dei contatti facendo da ponte tra la parte con la corrente e quella isolata. Il boia tremò per una decina di secondi, poi si accasciò con gli occhi girati e la lingua tra le labbra livide. Morto, decisamente, definitivamente, morto.
«Cazzo!» gridarono in coro le guardie ed il giudice.
Salvador, in quel momento cominciò a crederci, tre volte avevano tentato di ucciderlo e per tre volte gli era andata male. Si tolse il cappuccio, guardò il giudice dritto negli occhi e decise di giocarsela.
«Non lo avete ancora capito?» disse. «Non potete ammazzarmi, voi sarete più forti, avrete tribunali, armi e galere, ma io ho dalla mia il signore del male, la sua potenza e la sua forza e qui, oggi, io non muoio! Provate ancora ad ammazzarmi e ve ne pentirete amaramente, in questa e nell’altra vita» e cercò di assumere il ghigno più satanico che gli riuscisse.
Non riusciva a credere alle sue orecchie, stava dicendo delle stronzate che neanche da bambino avrebbe mai avuto il coraggio di dire, ma fino a quel momento tutto era stato assurdo quindi tanto valeva giocarsela. Il giudice e le guardie rimasero a bocca aperta per qualche secondo, poi il giudice si alzò in piedi, guardò Salvador dritto negli occhi e disse: «Col Cazzo! Guardia spara in testa a questo bastardo».
Beh. Almeno ci aveva provato. La guardia estrasse la pistola e la puntò, un po’ incerto a dire il vero, verso la faccia di Salvador. Salvador chiuse gli occhi ed aspettò la fine, ma ancora una volta, non arrivò. La pistola esplose in mano alla guardia lasciandogli solo il moncherino a spruzzare sangue tra le dita dell’altra mano che tentava invano di fermare l’emorragia. Il giudice e l’altra guardia a quel punto scattarono verso la porta e fuggirono a gambe levate, lasciando la porta aperta.
Salvador prese le chiavi delle manette dalla tasca della guardia ormai esanime, si liberò, scavalcò l’opulento corpo del boia, ed uscì. Libero. Verso la meta finale.
Purtroppo questo succede solo nei racconti. Nella realtà, due giorni dopo il 28 febbraio 1974, Salvador Puig Antich, anarchico catalano di 26 anni, fu garrotato nel carcere di Barcellona, sotto il regime di Francisco Franco. Fu l’ultimo condannato a morte in Spagna. Ricordandoci ancora una volta che non basta essere dalla parte del giusto perché tutto vada come dovrebbe.