Magazine Talenti
Arrivammo a Texanne mezzora dopo la fine della partita. Io e altri tifosi avevamo prenotato in una piccola locanda e quando arrivammo, più o meno a mezzanotte, ci sorprendemmo nel trovare tutta quella quieta calca.
In fondo al bancone, su un piano leggermente rialzato rispetto al resto della stanza, alcuni ragazzi erano immersi in intense chiacchierate attorno a un tavolo di legno unto, standosene sdraiati su delle panche coperte da grossi cuscini sbiaditi: ci stavano comodamente distesi, come fossero troppo stanchi della vita per stare composti.
Dalla parte opposta c’erano dei vecchi, che di quel paese di cinquecento anime costituivano la maggioranza, con addosso dei maglioni identici a quelli che Bill Cosby indossava nelle puntate de I Robinson. Giocavano a carte in quella che era la parte meno illuminata della stanza e che di certo non avrebbe favorito i loro giochi; se ne stavano in un silenzio concentrato e parlavano ad alta voce solo all’uscita di qualche fante, talmente sordi da ritrovarsi ad urlare benché convinti di bisbigliare.
Qualche tizio al bancone buttava giù whisky irlandese come fosse tè freddo e fossimo in riva al mare. A mezzogiorno. Ad agosto.
Noi, bardati nelle nostre sciarpe bianche e rosse e con ancora l’adrenalina in corpo per la vittoria, ordinammo qualche caraffa di birra e ci impossessammo di buona parte del bar inondandolo di chiasso.
Le vecchie finestre dai vetri opachi erano spalancate, il tramonto iniziava a trascinare con sé aria fredda e oscurità. Al di là della vecchia pensione, oltre qualche vecchio albero, scorreva largo un torrente.
La serata continuò tranquilla fino a che, dopo troppa birra, ci fu la corsa per l’entrata al gabinetto. Mi sfottevano perché nessuno voleva stare in fila dopo di me. Stanco della fila indiana e con quel continuo frusciare d’acqua in sottofondo, pensai che avrei potuto anche farla in riva al fiume: da piccolo mi insegnarono a non bere mai l’acqua di montagna, perché qualche cervo ci avrebbe già pensato a renderla imbevibile a monte prima di me, così pensai che avrei potuto farlo anch'io.
Andai lì, strinsi la sciarpa al collo e tenni stretta la sigaretta tra le labbra, mi abbassai i pantaloni e iniziai.
Passarono due secondi, non di più, e una mano si poggiò sulla mia spalla. Una voce roca mi chiese di girarmi e, non so come, riuscii a non urlare. Mi bagnai le scarpe e cercando di stare in piedi dopo lo spavento rischiai anche di cadere in acqua.
― Hai da accendere? ― disse il tizio, sistemandosi gli occhiali tondi.
Aveva una folta barba scura e la testa quasi completamente rasata. Assomigliava a Freud messo all’ingrasso.
― La locanda è piena di gente, non puoi andare a chiedere lì?!
― Non ci posso entrare. Ho ucciso il figlio del proprietario e lui non vuole che ci entri più.
Mi bloccai. Tutto si fermò. Per qualche istante ci osservammo, poi mi resi conto di avere ancora i pantaloni calati e con una mano cercai di tirarli su, finendo per bloccarli tra le cosce.
Lui continuava a fissarmi senza muoversi, dondolandosi leggermente sui piedi e mantenendo le braccia dritte lungo i fianchi, come se stessero per staccarsi dalle spalle perché troppo pesanti.
― Hai da accendere? ― ripeté.
Tirai fuori l’accendino dalla tasca posteriore senza smettere di guardarlo negli occhi. Con il gesto automatico di parare la fiamma dal vento, la accesi vicino alla sigaretta che pendeva da un lato della sua bocca. Lui tirò una lunga boccata ad occhi socchiusi. Restò così per secondi interminabili.
Poi spostò lo sguardo e sollevando leggermente il braccio indicò le mie gambe ― Ah, guarda, ti son caduti i pantaloni.
In quell’esatto istante mi ricordai tutte le volte che mia madre mi aveva consigliato di non guardare negli occhi le persone strane. Staccai gli occhi da lui e mi sistemai i pantaloni cercando di essere pronto alla fuga in caso di pericolo.
― Avrei ucciso per una sigaretta. Delle volte non c’è niente di meglio, no? ―
Guardando a terra gli risposi ― O quelle o il sesso.
― Per quello ho ucciso il figlio del locandiere. Vedo che ci capiamo!
Panico. Lo guardai di nuovo e non ebbi il coraggio di far altro che deglutire.
Non sapevo davvero cos’altro dire: in riva ad un fiume, con le scarpe sudice e i pantaloni nello stesso stato, con una sciarpa stretta al collo che d’improvviso mi sembrava un’arma utile a quel tizio.
― Credo che i tuoi compagni ti stiano aspettando. Buonanotte. ― disse voltandosi e iniziando a camminare nel buio, arrotolandosi le dita nella barba e bofonchiando cose per me prive di senso.
Tornai alla locanda e i miei compagni non c’erano più.
― Dove sono finiti i miei compari?
― Di chi parli ragazzo?
Qui sono tutti folli.
― I ragazzi con cui sono arrivato e ho buttato giù litri di birra!
― Non so di cosa tu stia parlando, ma se hai bisogno di una stanza la numero sedici è libera. Vai a dormire figliolo.
Il portafogli ce l’avevo e solo quello mi sembrava importante. Ero troppo brillo e adrenalinico per pensare a cosa fare. Presi le chiavi, firmai un modulo distrattamente e salii le scale con le mie scarpe che emettevano squittii ad ogni gradino, fradice di tutto quello di cui potevano esserlo.
Arrivai alla stanza, aprii la porta e li trovai tutti lì. Vecchio omicida pazzo compreso.
Ridevano di me.
Bastardi.
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