Mitsuko è una figlia. (no, è una mamma).
Mitsuko è realtà. (no, è fantasia).
All’interno di questi estremi palpita il terzo capitolo della trilogia sononiana dedicata al suicidio (ma Noriko’s Dinner Table è simultaneo a questo quindi la mia cronologia è piuttosto superflua).
Questa definizione – del suicidio –, però, mi pare parecchio, ma parecchio restrittiva. Già lo si poteva intuire con Suicide Club (2002) dove i copiosi harakiri effettuati da giovani studenti erano lo scheletro di un corpo riempito da ben altra carne (e relativo sangue) che si allontanava sempre più da una qualsiasi denuncia sociale per sfociare in un bizzarro quadretto quanto mai prossimo ad un delirio di miikiana memoria. Ecco, se questo accadeva nel film precedente, con Strange Circus (2005) ci allontaniamo totalmente da un qualunque “attacco” alla realtà (no, il rapporto tra Mitsuko e i genitori è troppo… troppo per essere vero!) e ad un accantonamento del tema che dovrebbe essere portante, il suicidio, qui appena lambito e tra l’altro nemmeno completamente riuscito nella sua essenza.
L’interrogativo allora è il seguente: che si può ritrovare all’interno di Kimyō na sākasu? Di trovare in senso stretto assolutamente niente poiché la pellicola è un concentrato disorientante di superlativa portata. Nei primi 40 minuti viene imbastita una storia allucinante fatta di perversione, voyeurismo incesti e sadismo. Ma messe così le cose rischiavano di rimanere fini a se stesse e concettualmente aride, tuttavia Sono acciuffa il meccanismo giusto – un meccanismo praticamente ineccepibile – che permette alla vicenda narrata di crearsi da sé le risorse per andare avanti.
Il punto di forza risiede nell’ambiguità che prevale sulle certezze poiché come ho riportato all’inizio noi spettatori non siamo sicuri praticamente di niente, anzi non sappiamo nemmeno se la protagonista sia frutto dell’immaginazione di una brava scrittrice o se invece questa povera bambina abbia davvero subito tali terrificanti angherie.
In aggiunta si segnala un progressivo occultamento dei ruoli che si sprigiona in un ribaltamento (doppio, triplo, quadruplo?!) conclusivo in cui si mischiano antichi rancori e odierne follie.
Ben lungi da voler rappresentare razionalmente le varie situazioni, il regista sciorina in sequenza un’estetica sfavillante nella quale spiccano tasselli di cinema (d’oriente) estremo, nuovamente delle visioni che fanno entrare di diritto Sion Sono nel parterre de roi di Oltre il fondo.
Che possiate credere o meno alle mie parole poco importa, meglio fidarsi allora del massacrante - per la nostra sensibilità - finale che richiama a gran voce l’indimenticabile conclusione di Audition (1999) ma con il pedale ben pigiato sull’acceleratore del gore.
Ad ogni modo, come accade con chi sa maneggiare argomenti scottanti, la gratuità di certe scene è relativa, dietro ci sono pensieri in grado di far rabbrividire, tanto che la chiave di lettura che dà senso al titolo risulta pienamente soddisfacente: se la vita è un circo, allora lo sarà anche la morte.