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Studiare nell’era digitale – Dossier (Le Scienze) – pt.1

Creato il 14 dicembre 2013 da Senryu @DenisGobbi

Studiare nell’era digitale – Dossier (Le Scienze) – pt.1

dalla rivista “Le Scienze“, edizione italiana di “Scientific American

IN BREVE

Analisi dati, streaming video e molte altre tecnologie stanno passando dal grande mercato di consumo alle università e alle scuole. I MOOC (Massive Open Online Course), corsi on line aperti a tutti, stanno tentando di portare gratuitamente l’istruzione di livello universitario fino agli angoli più remoti del pianeta. Piattaforme informatiche per l’apprendimento adattativo seguono da vicino i progressi di ogni studente, configurano i contenuti a seconda delle capacità individuali e prevedono l’andamento del profitto. Alcuni obiettano, però, che bisognerebbe investire nella formazione di buoni docenti almeno quanto si investe in tecnologia.
 
Introduzione
 

I BIG DATA VANNO A SCUOLA

La tecnologia sta trasformando ogni aspetto dell’istruzione, portando i migliori corsi  universitari ai cittadini più poveri del mondo e modificando il modo di imparare e di insegnare.

La scuola non è cambiata molto negli ultimi secoli. Gli studenti vanno a lezione, prendono appunti e fanno i compiti; gli insegnanti spiegano e, di tanto in tanto, assegnano un compito in classe. Poi danno i voti e passano all’argomento successivo. Di solito gli studenti, soprattutto i meno avvantaggiati, frequentano la scuola o l’ateneo più vicini a casa, a prescindere dalla qualità dell’insegnamento.
Ma tutto questo sta cominciando a cambiare. In una percentuale piccola ma crescente di scuole, gli studenti seguono le lezioni on line e, quando arrivano in classe, sono pronti per esercitarsi e lavorare con insegnanti e compagni. Interagiscono con software che permettono loro di studiare seguendo i propri tempi, indipendentemente da ciò che sta facendo il resto della classe. Programmi analoghi servono agli insegnanti per valutare compiti ed esercitazioni, aiutandoli a seguire da vicino più studenti alla volta. E le scuole locali non sono più l’unica scelta possibile; nuove aziende e organizzazioni no profit stanno portando corsi on line di alto livello a chiunque abbia una connessione Internet.
Quale impulso muove la rivoluzione digitale? Un fattore è che scuole e università, in ogni parte del mondo, stanno subendo una pressione senza precedenti. Mentre il numero di studenti che aspirano a una formazione superiore aumenta, i finanziamenti sono in calo, e presidi e rettori non hanno i mezzi per assumere gli insegnanti che servirebbero. Contemporaneamente governi e istituzioni (spronati dal mondo del lavoro) alzano i livelli di preparazione che gli studenti devono raggiungere a ogni stadio del percorso scolastico. Molti vedono una soluzione nella tecnologia, mentre altri ritengono che migliori di poco ciò che possono fare i docenti e rappresenti invece una minaccia per la privacy degli studenti. Le pagine di questo dossier esplorano le frontiere di questa nuova era digitale dell’istruzione e quali sono le sue possibili conseguenze per gli studenti, le famiglie, gli insegnanti e l’intera società.

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I MOOC

SPERANZE E ILLUSIONI

di Jeffrey Bartholet

Uno sguardo dall’interno a un coraggioso esperimento globale: usare corsi gratuiti on line per portare un’istruzione di livello  universitario nelle aree più svantaggiate del pianeta.

Tujiza uwituze ha lavorato duramente, e alla fine è arrivata fra i primi della classe. Ma nella scuola superiore che ha frequenta­to, in Rwanda il livello di istruzione era ancora troppo basso per gli standard internazionali. I professori le facevano imparare tut­to a memoria e ripetere a pappagallo, e a scuola non c’era nean­che un computer. Di conseguenza il suo inglese è zoppicante e la sua abilità al computer piuttosto scarsa. Vive a Kigali con un pro­zio, e ha 75 dollari di risparmi. Nonostante si sia impegnata a fon­do e abbia un forte desiderio di arrivare, i sogni che coltiva sono fuori della sua portata. O lo sarebbero, se non fosse per un nuovo progetto che potrebbe cambiarle la vita per sempre.

Obiettivo dell’esperimento, detto Kepler e condotto da una pic­cola organizzazione no profit chiamata Generation Rwanda, è di usare corsi di massa on line accessibili a tutti, i cosiddetti MOOC (Massive Open Online Course), per fornire un’istruzione superiore ai giovani ruandesi nati intorno all’epoca del genocidio del 1994.

Il primo corso sperimentale, un ciclo di lezioni dell’Università di Edimburgo intitolato «Pensiero Critico e Sfide Globali», è iniziato a marzo. Una quindicina di studenti ha seguito le lezioni in video scaricate da un’apposita piattaforma MOOC e, sotto la guida di un’insegnante del luogo, ha frequentato brevi seminari e sessioni di formazione individuale in un’aula di Kigali, in una modalità di­dattica definita di apprendimento misto.

Per una studentessa come Uwituze – ancora bambina quando, nel 1994, gli Hutu massacrarono 800.000 persone tra Tutsi e i loro simpatizzanti Hutu – era un’opportunità straordinaria. Durante il genocidio la sua famiglia fuggì: prima in Burundi, poi in Tanzania e infine in Kenya. «Abbiamo perso i soldi, la casa, tutto», racconta Uwituze. Dopo tanti anni di fuga, la scuola era l’unica cosa che le fosse rimasta. A 14 anni è tornata in Rwanda, e lo scorso novem­bre ha conseguito il diploma delle superiori. In Rwanda il costo an­nuale per frequentare l’università pubblica, e ottenere una forma­zione al di sotto degli standard internazionali, è di 1500 dollari, più di quanto la famiglia di Uwituze possa permettersi. Sua madre è disoccupata, e lei ha tre sorelline cui badare. Quando le è stata ri­fiutata la borsa di studio richiesta a un’organizzazione che aiuta i giovani ruandesi a studiare nelle università degli Stati Uniti, un funzionario le ha suggerito di partecipare al progetto Kepler. Così è diventata uno dei 15 studenti invitati a partecipare al corso speri­mentale che serviva a verificare il formato dei MOOC. Uwituze ha poi fatto domanda per essere accettata in una classe più ampia, che questo autunno seguirà un piano di studi MOOC completo.

Kepler ha ricevuto 2696 richieste di iscrizione per appena 50 po­sti appena disponibili nel programma autunnale. Ad aprile 600 stu­denti hanno affrontato un esame, e 200 sono stati accettati alla selezione finale: fra loro c’era anche Uwituze. Gli ammessi han­no sostenuto un colloquio individuale e partecipato ad attività di gruppo sotto lo sguardo dei funzionari del progetto Kepler, che do­vevano valutarne tratti del carattere come l’attitudine al comando, la collaboratività e la capacità di risolvere problemi. Lo scopo era formare una classe che comprendesse differenti personalità: timidi ed estroversi, giocherelloni e pedanti, creativi e coscienziosi. La po­sta in gioco era alta. Jean Aime Mutabazi non ha superato la prima selezione, e c’è rimasto male. Quasi tutti i suoi parenti maschi, in­cluso il padre, sono stati uccisi nel genocidio. Ora abita con la ma­dre che, con una gamba mutilata, per vivere vende carbone in una baracca di cemento. «Riesci a immaginare cosa si­gnifica avere un problema e nessuno cui rivolger­ti?», chiede. «Essere istruiti è come avere un pote­re magico, ti si aprono tutte le porte. Se sai le cose puoi controllare la situazione in cui vivi». Uwituze ha superato la selezione finale. All’i­nizio avrebbe voluto fare il pilota d’aereo, ma ora ha ripiegato su un possibile impiego in banca. Con Kepler potrà studiare economia. «L’istruzione è la mia sola possibilità di sopravvivenza – dice – il so­lo modo per prendermi cura delle mie sorelle, che hanno bisogno di me». Gli ammessi alla sessione autunnale seguiranno gratuitamente le lezioni of­ferte on line dalle più importanti università degli Stati Uniti, con il supporto e la guida di docenti sta­tunitensi a Kigali, e avrà vitto e alloggio pagati.

Secondo le stime del direttore esecutivo di Ge­neration Rwanda, Jeamie Hodari, dopo un investi­mento iniziale di 100.000 dollari per la progetta­zione e la verifica del funzionamento del corso, i costi didattici a carico dell’organizzazione per ogni studente, inclusi i computer portatili e gli stipen­di dei professori, ammonteranno a circa 2000 dol­lari all’anno. Hodari spera, nel tempo, di abbassar­li a 1000. Inizialmente, gli studenti seguiranno un unico indirizzo di studio che li porterà a una laurea biennale non specialistica, con particolare concen­trazione nell’amministrazione aziendale. Il corso è erogato dalla Southern New Hamp­shire University, che ha un programma di studi molto innovativo e valuta gli studenti in base alle reali competenze anziché per il numero di ore tra­ scorse in classe. Uwituze nutre qualche perplessità sull’approccio on line, teme che l’esperimento pos­sa esaurirsi o che le sue credenziali non vengano accettate dappertutto, ma sa che ha da guadagnare più con Kepler che con qualsiasi tradizionale uni­versità ruandese. «Qui gli studenti sono quasi tutti poverissimi», dice. «Se ti concedono un’opportuni­tà del genere non puoi rinunciare».  (continua più sotto)

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Come migliaia di studenti possono godere i vantaggi di un insegnamento individuale . di Peter Norvig

Da almeno trent’anni gli insegnanti sanno che, per farli rendere meglio, gli studenti vanno seguiti uno per uno, controllando, più che il risultato finale, la loro padronanza della materia. È necessaria anche una forte motivazione, che può venir loro da dentro o da genitori, insegnanti e compagni. La nascita dei corsi on line aperti a tutti (MOOC, Massive Open Online Course) annullerà questi fattori di successo? Niente affatto. Gli strumenti digitali offrono grandi possibilità, consentendo di ottenere un apprendimento efficace e personalizzato.

Lo so perché ho sperimentato entrambe le modalità d’insegnamento. Per anni, insieme a Sebastian Thrun, ho tenuto corsi d’intelligenza artificiale alla Stanford University e altrove; facevamo lezione, assegnavamo dei compiti e alla fine gli studenti dovevano affrontare tutti insieme lo stesso esame. Ogni semestre, gli allievi abituati a discutere gli argomenti in classe non erano che il 5-10 per cento; gli altri erano decisamente più passivi. Io e Sebastian abbiamo cominciato a pensare che si poteva fare qualcosa di meglio.

Così nell’autunno 2011 abbiamo sperimentato un metodo nuovo. Al nostro corso tradizionale ne abbiamo aggiunto uno on line, gratuito e accessibile a chiunque. Gli iscritti sono stati subito tantissimi: 100.000, di cui 23.000 hanno concluso l’intero programma.

Ispirati dalle parole del premio Nobel Herbert Simon, secondo il quale «l’apprendimento viene da ciò che lo studente fa e pensa, solo e unicamente da ciò che lo studente fa e pensa», abbiamo creato un corso incentrato sul fare e su frequenti riscontri da parte nostra. Le nostre «lezioni» consistevano in brevi video (fra i due e i sette minuti di durata) che preparavano gli studenti alle esercitazioni successive. Per risolvere alcuni problemi bisognava applicare i procedimenti matematici descritti nelle videolezioni, mentre i questionari a domande aperte permettevano agli studenti di riflettere e discutere le proprie idee nei forum on line.

Il nostro programma, orientato a un apprendimento attivo anziché passivo, forniva vantaggi analoghi a quelli del tutoraggio individuale, e gli studenti risultavano più motivati. Anzitutto, come conferma lo studio del 2013 pubblicato da Karl Szpunar, Novall Khan e Daniel Schacter nei «Proceedings of the National Academy of Sciences», le interazioni frequenti evitano tendenzialmente i cali d’attenzione. In secondo luogo, come descrivono William Wood e Kimberly Tanner in un articolo del 2012 su «Life Science Education», quando gli studenti si sforzano di trovare da soli le spiegazioni anziché ascoltare passivamente quelle dell’insegnante, l’apprendimento migliora. È per questo che un sistema di tutoraggo automatizzato, se progettato con cura, può favorire l’apprendimento esattamente come gli insegnanti in carne e ossa: lo con- ferma anche Kurt van Lehn in una meta-analisi pubblicata nel 2011 su «Educational Psychologist».

Un vantaggio cruciale, infine, è stato il rapido miglioramento del corso. Abbiamo cercato di capire dove i nostri allievi riuscivano meglio o peggio, individuando i punti che andavano perfezionati. Non solo, abbiamo raccolto queste informazioni ora per ora. Ad analizzare questi dati sono stati nel nostro caso alcuni docenti in carne e ossa, ma la stessa funzione può essere svolta da un sistema di intelligenza artificiale, in grado poi di offrire allo studente suggerimenti per migliorare: proprio come fanno gli odierni siti di shopping on line quando ti suggeriscono in modo automatizzato i libri o i film che potrebbero piacerti.

La didattica on line è solo uno strumento, proprio come i libri di testo. Ciò che conta è il modo di usarla.

Peter Norvig è direttore del settore ricerca di Google. Insegna all’Association for the Advancement of Artificial Intelligence, di cui è consulente, e con Stuart Russell ha scritto Intelligenza Artificiale. Un approccio moderno, Pearson, 2005.

Dove contano di più

Portare alle popolazioni più povere del piane­ta i corsi delle migliori università del mondo è di sicuro la speranza (e secondo alcuni l’illusione) del movimento alla base dei MOOC. I gestori del­le grandi piattaforme che forniscono questi corsi – come Udacity e Coursera, società commerciali na­te a opera di docenti dalla Stanford University, ed edX, piattaforma no profit guidata congiuntamen­te dal Massachusetts Institute of Technology e dal­la Harvard University – affermano esplicitamente di voler abbattere le barriere sociali e geografiche

che impediscono l’accesso all’istruzione avanzata. Daphne Koller, tra i fondatori di Coursera, ha presentato nel giugno dello scorso anno i suoi rivoluzionari obiettivi in una conferenza TED che ha avuto oltre un milione di visualizzazioni. I MOOC, ha annunciato Koller a un pubblico entu­siasta, dovrebbero «fare dell’istruzione un diritto umano inalienabile, uno strumento con cui qualsiasi cittadino del mondo abbastanza abile e motivato possa apprendere le compe­tenze necessarie per migliorare la sua vita, quella dei suoi familia­ri e dell’intera comunità che lo circonda. Magari il prossimo Al­bert Einstein o lo Steve Jobs del futuro si nascondono in qualche villaggio sperduto dell’Africa e, se noi riuscissimo a offrire loro un’istruzione, potrebbero avere la nuova grande idea per rende­re il mondo migliore». Impossibile opporsi a un’ideale del genere. Eppure i docenti che lavorano nell’apprendimento on line e a distanza sostengono che gli evangelizzatori dei MOOC tendono a sopravvalutare se stessi e i loro prodotti. L’insegnamento on line, osservano, è comincia­to molto prima che arrivassero i MOOC, i quali non sempre usano i metodi migliori e più aggiornati, senza contare che i paesi in via di sviluppo sono quasi del tutto sprovvisti di connessione Internet. Inoltre, per frequentare i MOOC occorrono motivazioni e capacità che hanno solo studenti di primissimo ordine. «Occorrerebbe una soluzione davvero idonea alla realtà del terzo mondo», afferma il canadese Tony Bates, specializzato nell’insegnamento on line. «Sì, in futuro i contenuti saranno gratuiti, ma il tipo di servizio più utile agli studenti è quello fornito dagli istruttori. Come studiare, dove trovare le informazioni necessarie e le analisi critiche, in che modo elaborare idee originali, come costruire un ragionamento di alto livello: tutte queste cose si sviluppano e si rafforzano nel rap­porto con gli insegnanti».

Ed è qui che un esperimento come Kepler può rivelarsi cru­ciale: nella combinazione gratuita di contenuti forniti dai docen­ti migliori del mondo e da più economici insegnanti sul luogo, che possono offrire un aiuto e uno stimolo personale agli studen­ti. Il modello è particolarmente adatto a un paese come il Rwan­da, dove solo una frazione minima della popolazione è laureata e i giovani diplomati alle superiori sono in aumento. «Da que­ste parti potresti costruire cinquanta università senza soddisfare la crescente domanda di iscrizioni», puntualizza Hodari. «Qui ci sono persone che non frequentano il college e che, se fossero in America, andrebbero a Princeton». Negli Stati Uniti le discussioni intorno ai MOOC vertono soprat­tutto sulla loro capacità di contenere o ridurre i vertiginosi costi di una laurea. Nella sua conferenza TED, Koller ha osservato che ne­gli Stati Uniti, dal 1985 a oggi, le tasse universitarie sono aumen­tate quasi del doppio rispetto ai costi dell’assistenza sanitaria. A suo parere i MOOC potrebbero offrire la soluzione. Nei paesi in via di sviluppo invece conta soprattutto la qualità. In molte regioni le strutture educative e i livelli d’istruzione sono davvero miseri, e le lauree hanno poco valore sul mercato globale del lavoro. I ruan­desi che hanno frequentato i corsi per programmatore informati­co, per esempio, hanno scarsa esperienza nell’uso del computer. «È come se chi ha un diploma da maestro di nuoto avesse imparato a nuotare su un libro senza essersi mai tuffato in piscina», commenta Michel Bézy, vicedirettore di un programma di laurea tradizionale presso la Carnegie Mellon University a Kigali. Questo stato di cose non riguarda solo un piccolo paese come il Rwanda, ma anche grandi potenze emergenti come l’India. Dalle migliori università indiane escono laureati eccellenti, ma negli altri atenei la qualità è bassa. Sono stati offerti, per esempio, molti aiuti ai numerosissimi laureati delle facoltà indiane di ingegneria, ma su 600-800.000 studenti che si laureano ogni anno in questa discipli­na, «solo il 10 per cento circa ha una formazione realmente avan­zata», denuncia Ashok Jhunjhunwala, docente universitario, fra i massimi esperti indiani in ingegneria elettronica.  Alcune indagini hanno permesso di individuare le carenze.  «Solo il 7 per cento dei laureati in ingegneria informatica soddi­sfa il livello richiesto dall’industria per la programmazione di ba­se», osserva Varun Aggarwal, cofondatore e direttore operativo di Aspiring Minds, società che conduce accertamenti in proprio sui laureati per conto delle industrie. Da un test standardizzato d’ido­neità al lavoro condotto nel 2011 su 55.000 neolaureati indiani in ingegneria, è risultato che un allarmante 42 per cento non sape­va moltiplicare e dividere i numeri con decimali, e oltre un quar­to non sapeva l’inglese a sufficienza per seguire un programma universitario d’ingegneria. «È triste, ma è così», sospira Aggarwal.  «Tantissimi laureati, ma qualità bassissima».

Il problema è, in parte, la carenza d’insegnanti. «Il corpo docen­te è mal pagato, non è una carriera allettante», spiega Aggarwal. «Gli ingegneri che non trovano lavoro nell’industria si mettono a insegnare». Un’altra difficoltà è la preparazione pre­universitaria degli studenti: molti arrivano all’università o al college senza sa­pere bene l’inglese, lingua in cui vengono tenute le lezioni. Se non cambia qualcosa, la situazione è destinata a peggiora­re. Al momento quello indiano è uno dei più grandi sistemi di al­ta formazione del pianeta, con oltre 600 università e più di 33.000 college che preparano oltre 20 milioni di studenti. Eppure, rispet­to agli altri paesi, la percentuale di indiani che proseguono gli stu­di dopo le scuole secondarie è bassa. A iscriversi all’università so­no circa il 17,9 per cento dei diplomati, contro il 26,8 della Cina e il 94,8 degli Stati Uniti. «Per raggiungere il 50 per cento dovreb­bero accedere all’alta formazione altri 30­40 milioni di studen­ti», spiega Anand Sudarshan, ex amministratore delegato di Ma­nipal Global Education, società che gestisce sei università e più di 40 istituti scolastici. «E, allo stato attuale, è piuttosto improbabi­le. Solo un’istruzione a forte contenuto tecnologico potrebbe of­frire all’India la speranza di recuperare terreno, in senso qualitati­vo e quantitativo». (continua sotto)

salman_kahnBasta con l’insegnamento a tappe forzate

La tecnologia può umanizzare le lezioni

di Salman Kahn

Quando immaginiamo un oggetto virtuale pensiamo subito alla sua controparte fisica: Amazon e le librerie, Wikipedia e le enciclopedie di carta. Si dà per scontato che il virtuale debba sostituire il fisico con qualcosa di più economico, veloce ed efficiente. Nell’istruzione, invece, il virtuale avrà un impatto diverso: l’obiettivo non sarà sostituire le tradizionali lezioni in aula ma piuttosto mescolare il virtuale e il fisico per ridisegnare interamente il sistema educativo.

Oggi in quasi tutte le classi gli studenti stanno seduti, ascoltano e prendono appunti mentre il professore parla. Benché siano presenti da 20 a 300 esseri umani, l’interazione personale è scarsa o nulla. Spesso gli esami sono l’unica occasione in cui il docente può verificare ciò che ha assimilato lo studente. E anche se emergono lacune nella comprensione di qualche concetto di base la classe prosegue la sua marcia in avanti. Gli strumenti virtuali offrono la possibilità di ripensare questa metodologia. Se una lezione è disponibile on line, il tempo in classe può essere usato per la discussione, il lavoro di gruppo o gli approfondimenti guidati del professore.

Sostituendo una lezione con esercitazioni e test adattativi si elimina il modello-fabbrica ereditato dalla Prussia del XIX secolo, dove gli alunni marciano tutti insieme allo stesso ritmo. Qui invece ognuno può procedere secondo i suoi tempi e verificare quanto appreso anche molto tempo dopo la conclusione formale del corso.

Nei prossimi dieci o vent’anni questo insegnamento misto permetterà di separare la formazione dalle credenziali, oggi fornite entrambe dalle stesse istituzioni. In questo modo chi lo desidera potrà dimostrare le proprie competenze sia che le abbia imparate sul lavoro, in una scuola tradizionale, on line o, più probabilmente, in tutti questi modi insieme.

L’effetto più importante di tutto ciò è forse l’impatto qualitativo sulle lezioni e il materiale didattico in generale. In genere sia i docenti sia gli editori di libri di testo tradizionali ignorano l’uso, e persino l’efficacia, dei contenuti che producono. Unendo la ricchezza dell’esperienza diretta agli strumenti on line, invece, insegnanti e creatori di contenuti saranno finalmente aggiornati sull’efficacia delle esperienze da loro veicolate.

L’insegnamento misto migliora il ruolo dei professori. Anziché usare tutto il tempo per fare lezione, interrogare e dare voti, i docenti possono interagire con gli studenti; invece di rafforzare un passivo «zitto e ascolta», possono incoraggiarli a diventare padroni del proprio apprendimento, la competenza forse più importante in assoluto. Nei paesi in via di sviluppo questi strumenti virtuali saranno cruciali per facilitare l’apprendimento degli studenti più motivati. Nei paesi sviluppati il vantaggio sarà di rendere il tempo fisico meno passivo e, diciamolo, più umano.

Salman Khan è fondatore della Khan Academy, organizzazione no profit per l’insegnamento on line di Mountain View, California.

Una manna dal cielo

Quindi i MOOC potrebbero essere la soluzione a questi pro­blemi, in India e altrove? Per una ristretta minoranza di studen­ti d’eccellenza, i MOOC sono una manna dal cielo. «Moltissime persone seguono autonomamente i nostri corsi, e ci scrivono per raccontarci come questa esperienza abbia cambiato loro la vita», conferma Koller di Coursera. «Altrimenti, nei paesi in via di svi­luppo, molti giovani non avrebbero accesso all’istruzione superio­re. Non dimentichiamolo».

Prendiamo il caso di Amol Bhave, diciassettenne indiano di Jabalpur, che a soli 16 anni si è iscritto a un MOOC del Massa­chusetts Institute of Technology intitolato «Circuiti ed elettronica». Fin da bambino aveva l’abitudine di curiosare fra i libri di inge­gneria del padre, e ha imparato il BASIC da solo. Alle superio­ri ha ottenuto una certificazione Microsoft come programmatore. Ha sempre avuto anche l’hobby dell’elettronica. Durante l’ultimo anno delle superiori ha concluso felicemente il corso del MIT e, quando ha visto che edX non gli offriva il corso successivo, «Se­gnali e sistemi», ci è rimasto malissimo.

Così, insieme ad altri due studenti incontrati in rete, ha deciso di creare la propria versione MOOC del corso, basata su registra­zioni video delle lezioni del MIT, questionari on line e altri elemen­ti interattivi inventati da lui. «Abbiamo creato tutto dal nulla, co­minciando da zero», spiega Bhave. Il corso ha avuto un migliaio di iscrizioni. Bhave ha citato questa sua impresa nella domanda che ha inviato al MIT come studente a tempo pieno. «Il 14 marzo sono usciti gli elenchi degli ammessi. Indovina? C’ero anch’io!», esulta il ragazzo. «Io e la mia famiglia siamo così emozionati. È la prima volta che qualcuno delle mie parti va a studiare al MIT».

L’aneddoto può essere letto in due modi. Il primo è che un MOOC erogato dal Massachussets Institute of Technology ha aper­to un meraviglioso orizzonte di possibilità a un ragazzo che viene dal profondo dell’India. Il secondo è che i MOOC non si sostitui­scono del tutto ai corsi tradizionali: infatti la massima aspirazio­ne di Bhave era andare negli Stati Uniti per frequentare il MIT di persona. I motivi sono ovvi: anzitutto è difficile studiare le scien­ze esatte senza fare ricerca in laboratorio. Ma, soprattutto, al MIT non puoi laurearti studiando solo on line, e la laurea è indispensa­bile per fare carriera.

Certo, non sono molti gli indiani con la grinta e l’intrapren­denza di Bhave. La fortuna del ragazzo è stata anche di avere al­le spalle una famiglia in grado di fornirgli un computer e un ac­cesso a Internet; il padre, ingegnere, ha potuto fargli frequentare le scuole private. In India Internet è sempre più diffusa, ma ha una penetrazione ancora risibile: nel 2011 solo il 10 per cento degli in­diani aveva accesso alla rete. In molte zone del paese ancora non arriva l’energia elettrica, e il reddito medio pro capite non rag­giunge i 1500 dollari all’anno. Per centinaia di milioni di indiani, il computer è un lusso inimmaginabile. Eppure la tecnologia si sta diffondendo, e a costi sempre più contenuti. Persino un paese senza sbocchi sul mare come il Rwan­da è attraversato dai cavi della fibra ottica, e quest’anno il cablag­gio si estenderà ulteriormente. I prezzi dei computer sono sempre più abbordabili: su richiesta ufficiale del governo indiano, l’azien­da britannica Datawind ha prodotto un tablet Android di base che costa 40 dollari e 11 centesimi, e che il governo indiano fornisce agli studenti quasi alla metà del prezzo. L’Aakash 2 non è al livello dei migliori tablet sul mercato, ma a un costo del genere è già rivoluzionario. Quest’anno Datawind ha intenzione di spedir­ne in India un milione di pezzi. «Quando ho avuto quel dispositivo fra le mani ho pensato che avrebbe cambiato il mondo, e il mon­do ancora non lo sa», dice Andrew Ng, fondatore del Coursera in­sieme a Koller.

Anche i MOOC si stanno evolvendo. Michael Horn, fondatore con Clayton Christensen dell’Institute for Disruptive Innovation, un gruppo di esperti decisi a rinnovare il mondo dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, paragonano gli odierni MOOC alle pel­licole cinematografiche di un tempo. «I primi film erano riprese teatrali; avevano un’aria insulsa e ridicola», osserva. «E anche i MOOC sono fondamentalmente riprese teatrali. Filmiamo le lezio­ni e poi le montiamo». Questa è forse una delle ragioni per cui a concludere effettivamente i corsi è meno del 10 per cento degli iscritti. Secondo Horn bisogna rendere le lezioni on line molto più coinvolgenti. L’idea è di produrre corsi interattivi in grado non so­lo di istruire gli studenti ma di imparare da loro: corsi personaliz­zabili commisurati alle competenze e ai bisogni di ciascuno. Alcuni docenti aspirano addirittura a una netta separazione fra didattica e assegnazione dei crediti: uno studente che, dopo ave­re seguito i MOOC, superando un test ottiene una certificazione di alto livello basata sulle competenze, può essere più competitivo sul mercato del lavoro di chi esce da un ateneo tradizionale.

Ma per ora siamo solo nel campo delle ipotesi. Per il momento gli studenti non vedono sempre grandi benefici nei MOOC: i gio­vani, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, devono avere la cer­tezza che l’istruzione ottenuta porterà loro occupazione e stipen­dio. «Gli studenti devono percepire una chiara linea di continuità tra la frequentazione di un corso, il conseguimento di un certifi­cato e l’accettazione del certificato da parte delle aziende», spiega Aggarwal. «I corsi devono corrispondere alle esigenze dell’indu­stria. Se si crea questo circolo virtuoso, ed è chiaro allo studente, i MOOC potranno espandersi». I fornitori di questa tipologia di corsi prevedono di offrire cre­denziali valide per i college e le aziende, ma il progetto è ancora agli inizi. L’importante, intanto, è offrire la garanzia che a passa­re gli esami siano proprio gli studenti registrati. Un metodo anti­copiatura consiste nel chiedere ai candidati di recarsi fisicamente presso un centro di riconoscimento; altri stratagemmi fanno ap­pello alla tecnologia. «Abbiamo un sistema, chiamato Signature Track, dove all’inizio chiediamo allo studente una foto identifica­tiva e poi, mentre esegue il compito, lo invitiamo a scattare una foto e registrare un campione della propria “calligrafia digitale”, una sorta di impronta digitale della propria scrittura sulla tastie­ra», spiega Ng. «Il modo di digitare cambia da individuo a indi­viduo. È difficile che qualcuno riesca a farlo come me o io come qualcun altro». Si tratta di un sistema di riconoscimento biometri­co basato sullo stile di battitura.

Coursera ha invece stretto un accordo con ProctorU, che con­trolla gli esami attraverso una telecamera. Si registra l’account e si prenota il giorno del test. Dopo essersi accertato che sulla scri­vania non ci siano fogli, libri o tablet, un professore scruta lo stu­dente via webcam per tutta la durata dell’esame. Oltre oceano il sistema è un po’ più complicato da applicare, ma funziona. Tal­volta è anche necessario compilare un formulario basato su informazioni raccolte tramite i database pubblici, rispondendo a do­mande riguardanti esperienze personali. Chi fornisce i MOOC, inoltre, vede nell’offerta di credenziali un modo per monetizzare i propri servizi. Su Coursera, per esempio, le lezioni individuali sono gratuite, ma i crediti no. Se uno studen­te opta per una lezione «Signature Track» della Duke University, per poco meno di 100 dollari ottiene, dopo avere completato il corso e superato gli esami, un «attestato di frequenza» siglato con il logo della Duke. Per quanto riguarda il riconoscimento dei corsi, l’American Council on Education ha analizzato e deciso di «racco­mandare» cinque corsi Coursera, i cui crediti vengono quindi ac­cettati da diversi atenei tradizionali. Il costo varia dai 100 ai 190 dollari. Per chi non può affrontare la spesa, Coursera mette a di­sposizione un aiuto finanziario.

Ma nelle regioni del mondo ancora prive di acqua potabile e dove le misure sanitarie sono tuttora quasi inesistenti queste so­luzioni altamente tecnologiche appaiono improponibili. In In­dia la sperimentazione dei MOOC è, per ora, volta a migliorare la qualità didattica all’interno delle istituzioni esistenti. Il settore ri­cerca della Microsoft sta lavorando a un progetto pilota chiamato MEC (Massively Empowered Classrooms), orientato allo sviluppo di lezioni on line simili a quelle dei MOOC, impartite da prestigiosi docenti di nazionalità indiana che sono stati invitati ad adatta­re i corsi che già tengono nelle facoltà d’ingegneria indiane. «La risposta non è uguale per tutti», afferma Jhunjhunwala, spiegan­do che per gran parte degli studenti indiani, a causa della lingua e della cultura, risulterebbe problematico comprendere i corsi on li­ne erogati dagli atenei statunitensi. Lui stesso ricorda le difficol­tà incontrate nel seguire un corso di chimica al college per colpa del forte accento del professore. «Importare semplicemente qual­cosa da fuori è un sistema che non funziona», conclude. «Non ha mai funzionato».

I fautori dei MOOC ribattono però che le lezioni on line so­no come libri di testo in forma digitale, e i buoni libri di testo finiscono per essere adottati in tutto il mondo. I corsi possono es­sere progettati per un’ampia varietà di utenti. Gli europei stanno sviluppando le proprie specifiche piattaforme MOOC, e i grandi fornitori statunitensi di questi corsi stanno convincendo gli ate­nei stranieri a offrire lezioni in lingue diverse dall’inglese. «L’istruzione on line è ancora ai primi passi», commenta Bhave, con il tipico entusiasmo di un ragazzo. Ma di certo ha tutti i nume­ri per cambiare il volto del terzo mondo. E, sulla base della pro­pria esperienza, aggiunge: «Nei prossimi anni ci aspetta una ri­voluzione educativa».

Schermata 2013-12-14 a 11.24.58Un’opportunità per l’India

I corsi on line possono attenuare le conseguenze dei tagli di fondi alle università, migliorando la formazione

di Pawan Agarwal

Le tecnologie digitali potrebbero trasformare radicalmente l’istruzione superiore indiana. Un nuovo modello educativo, costruito intorno a una combinazione di corsi on line aperti a tutti, i MOOC, sviluppati localmente oppure offerti dai migliori atenei del mondo, può fornire livelli di formazione prima impossibili.

In India gli iscritti all’università sono numerosissimi, e aumentano di anno in anno. Nel 2012 hanno superato gli Stati Uniti e ora, con 22 milioni di studenti, il nostro paese è secondo solo alla Cina. Ogni giorno si iscrivono all’università 5000 studenti, e si inaugurano dieci nuovi atenei.

Le spese per l’alta formazione in India superano il 3 per cento del prodotto nazionale lordo, e sono fra le più alte del mondo. Eppure le quo- te di iscrizione sono fra le più basse. Mentre la recente espansione ha ampliato l’accesso agli atenei, ha anche ridotto i fondi disponibili per studente, e aggravato la situazione già difficile delle facoltà. Il risultato è un abbassamento della qualità didattica.

L’India deve continuare a espandere l’accesso all’alta formazione mantenendo alta la qualità e bassi i costi. La situazione non riguarda solo il nostro paese ma, considerate le enormi dimensioni del Subcontinente e la sua posizione, le sfide indiane sono particolarmente impegnative. Le tecnologie digitali, in particolare l’uso estensivo dei MOOC, possono aiutare.

L’India ha già sperimentato classi on line, ma con un impatto marginale. Una decina d’anni fa è stato condotto un primo esperimento di videolezioni e corsi in rete all’interno di un programma finanziato dal governo, il National Program on Technology Enhanced Learning. Gli sviluppatori hanno allestito oltre 900 corsi, soprattutto scientifici e tecnici, di circa 40 ore ciascuno. Tuttavia, a causa del limitato livello di interattività e di una qualità piuttosto discontinua, i corsi non hanno avuto grande successo.

I MOOC hanno mostrato agli accademici indiani che è possibile smontare e rimontare una lezione usando brevi segmenti autonomi, con un efficace livello di interattività e un altro grado di coinvolgimento degli studenti. Gli istituti indiani di tecnologia, considerati fra le scuole d’ingegneria migliori al mondo, prevedono di offrire attraverso i MOOC tre corsi base – tecnologia dell’informazione, programmazione, algoritmi e strutture dati – a centinaia di migliaia di studenti universitari. I corsi daranno crediti formativi che avranno valore ai fini della laurea. Fortunatamente l’India è piena di giovani che hanno confidenza con la tecnologia. Gli indiani sono fra i più agguerriti fruitori dei MOOC. Sui 2 milioni e 900.000 utenti registrati su Coursera al marzo scorso, oltre 250.000 venivano dall’India, seconda solo agli Stati Uniti.

Dobbiamo ancora trovare il modello di MOOC più conforme al contesto indiano. Ma dopo dieci anni di esperienza sul campo, e un vivace ecosistema tecnologico alle spalle, l’India non tarderà a trovare la strada giusta.

Pawan Agarwal è consulente per l’istruzione superiore della Commissione del governo indiano per la pianificazione. Le opinioni espresse sono personali e non riflettono quelle ufficiali.

Una grande scommessa 

Ma al progetto Kepler non intendono aspettare. Per loro il mo­dello è uno solo: offrire on line l’istruzione migliore con gli inse­gnanti migliori, integrata da un significativo supporto sul campo e un soddisfacente livello d’interazione in classe. «L’idea di sgan­ciare semplicemente i MOOC sulla testa degli africani o di altre popolazioni, senza agevolazioni e senza assistenza, è un’idea falli­mentare in partenza», si lamenta Hodari. «Moltissimi studenti non hanno mai imparato a usare il computer. Non sanno fare le cose più semplici: lanciare un programma, chiuderlo, non sanno nep­pure digitare su una tastiera». La prima docente a unirsi a Kepler è stata Christine Yarng, ex insegnante in una scuola della rete KIPP (Knowledge Is Power Program) ad Austin, in Texas. Emma Stellman, cofondatrice di un’importante charter school di Cambridge, nel Massachusetts, sta disegnando il programma. Entrambe lavorano per salari no pro­fit in un remoto angolo del globo, perché sono convinte che un’i­struzione di qualità possa trasformare radicalmente la vita delle persone, e perché hanno sete di sfide e avventura. Stellman pre­vede di usare segmenti di vari corsi MOOC e combinarli insieme per adattarli agli studenti ruandesi. All’inizio si porrà l’accento so­prattutto sulla necessità di imparare in che modo si impara, essen­ziale soprattutto in un contesto digitale, poi si passerà all’analisi quantitativa e al pensiero critico. «Le aziende sono a caccia di per­sone che sappiano pensare con la propria testa», spiega Stellman.  «E gli studenti sono fieri di riuscire a elaborare idee personali.

Vedere quelle lampadine che si accendono è un fenomeno bellissi­mo, una grande carica».Lo scopo del corso pilota di Kepler era identificare eventua­li problemi e trovare le soluzioni prima che partisse il programma autunnale vero e proprio. Già alla quinta settimana Yarng e Stell­man hanno imparato diverse lezioni importanti. Anzitutto che oc­correva un migliore accesso a Internet, e hanno quindi pianificato di trasferirsi in nuovi uffici connessi alla rete ruandese della fi­bra ottica. Poi hanno capito che molti studenti avevano bisogno di migliorare l’inglese per poter seguire le lezioni on line e studia­re i materiali più complessi. (Negli ultimi anni il Rwanda è pas­sato dal francese all’inglese come lingua primaria dell’istruzione scolastica.) Il programma di Kepler prevede infatti corsi intensivi di inglese, da tenersi nella fase di orientamento che ha preceduto la sessione autunnale, e l’assegnazione di compiti scritti in inglese durante il corso regolare. «E quando avremo finito di scrivere ­ in­siste Stellman – scriveremo ancora». L’ideale, secondo Hodari, sarebbe estendere il modello di Kepler a tutto il Rwanda, e poi esportarlo in altri paesi. Dipende da come andranno i prossimi due anni. «È un progetto pilota», puntualizza. «Per ora l’importante è la sperimentazione. Si parla tanto di vo­ler cambiare il mondo, ma pochi cercano di farlo veramente. Noi nei prossimi due anni intendiamo verificare l’efficacia del model­lo, per identificare i metodi pedagogici più efficaci con gli studen­ti». Hodari vuole soprattutto assicurarsi che l’esperimento Kepler abbia successo, se non altro perché cinquanta speranzosi cittadini ruandesi non hanno altre alternative.

Jeffrey Bartholet è corrispondente estero di «Newsweek di cui è caporedattore a Washington. 

RobLue_outsideIl segreto è la sperimentazione

Il futuro della formazione universitaria sta nella giusta combinazione fra strumenti tradizionali e digitali

di Robert A. Lue

Oltre dieci anni fa, quando ho tenuto il mio primo corso on line, ero un eccezione nel mio dipartimento. A spingermi era il bisogno di condividere alcune informazioni sulla biologia dell’HIV, nel generale intento di combatte- re gli innumerevoli luoghi comuni che circondavano l’AIDS a quel tempo. Il corso si basava sulle riprese video di lezioni tenute in aula, trasmesse in tutto il mondo come parte dei nostri programmi di formazione per adulti. Oggi la situazione è completamente diversa. Nel maggio 2012 la Harvard University e il Massachusetts Institute of Technology hanno annunciato un accordo per la creazione di edX, piattaforma destinata ad ampliare l’accesso all’alta formazione tramite cicli di lezioni on line e, contemporaneamente, trasformare la didattica nelle rispettive istituzioni. L’interesse degli atenei per i corsi on line è cresciuto, e sempre più si discute della possibilità di una loro ampia distribuzione in rete.

I corsi on line non servono soltanto a condividere materiali didattici, ma anche a sviluppare nuove modalità di insegnamento sia per un pubblico generico sia per gli studenti universitari. Molti miei colleghi qui a Cambridge, Massachusetts, già utilizzano strumenti digitali per trasformare l’esperienza degli studenti. I tutorial e le valutazioni interattive sviluppati per il corso introduttivo in computer science di David Malan integrano pefettamente le sue lezioni ad Harvard e i partecipanti ne sono pienamente soddisfatti. Il software che Malan ha progettato per offrire a ogni studente un riscontro istantaneo sulla qualità del proprio percorso è utile tanto agli studenti degli atenei tradizionali quanto a quelli on line. Francis Cook e Marcello Pagano, della Harvard School of Public Health, hanno sviluppato un nuovo corso on line in biostatistica ed epidemiologia che sarà utilizzato quest’anno come base per una cosiddetta «classe al contrario», in cui gli studenti guardano on line le lezioni o altri materiali del corso, per poi discuterne attivamente in aula con docenti e compagni.

La rapida evoluzione di risorse digitali come le videolezioni, i multimedia interattivi e i nuovi metodi di valutazione on line inducono a riflettere su ciò che potremmo e dovremmo fare quando siamo faccia a faccia con i nostri studenti.

Ogni volta che sviluppo un corso on line, per esempio sul metabolismo cellulare, penso che combinando animazioni al computer e metodi di valutazione «a ritmo autogestito» riesco a comunicare le complicazioni del trasferimento di elettroni più efficacemente che nella mia lezione tradizionale. Quando calibro le esercitazioni in modo da includervi testi sia di lettura sia elettronici senza alterare il carico di lavoro mi rimane il tempo per discutere in aula con i miei allievi o analizzare criticamente le conseguenze metaboliche dell’interruzione sperimentale del trasferimento di elettroni. In altre parole, riesco a concentrarmi meglio sui concetti più ostici per loro. Sotto questo aspetto, le classi al rovescio, dove lo studente non ascolta le lezioni a scuola ma a casa, possono migliorare l’attenzione e innalzare il rendimento.

Dietro a questo impegno entusiasmante c’è la consapevolezza della grande importanza della sperimentazione, anche se ancora ignoriamo come sfruttare al meglio l’immenso potenziale della rivoluzione on line. Ecco perché, in ogni corso o modulo di HarvardX – l’iniziativa didattica ampiamente digitale della Harvard University, che include una partecipazione in edX – c’è una componente di ricerca. Misuriamo i progressi dello studente in relazione a vari parametri, fra cui le sequenze di materiali del corso, il supporto con cui vengono forniti (se come lezione o con un’animazione video), gli strumenti di valutazione usati dal docente (interattivi o meno) e altro. Da questi studi, associati a ogni corso on line, nasceranno i miglioramenti pedagogici da introdurre sia on line sia in sede universitaria.

Gli istituti di formazione superiore devono svolgere questo tipo di ricerche se vogliono sviluppare nuovi modelli capaci di ampliare l’accesso ai contenuti didattici di alto profilo; nel frattempo devono anche sostenere e incrementare le strutture «in presenza», che sostengono l’impresa congiunta fra ricerca, apprendimento e insegnamento.

Robert A. Lue è Richard L.Menschel Director del Derek Bok Center for Teaching and Learning della Harvard University, preside di Facoltà di HarvardX e docente presso il Dipartimento di biologia molecolare e cellulare della Harvard University

Trascrizione effettuata da questo link.

Fonte: rivista LE SCIENZE , edizione italiana di Scientific American

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