Vi proponiamo questo nuovo saggio di Gianfranco La Grassa, scusandoci ancora una volta di non poterlo collocare in maniera appropriata in una sezione teorica che sarà comunque approntata nel sito in corso di realizzazione. Non fatevi ingannare dal titolo, perché con questo lavoro non si torna a girare intorno al pensiero di Marx, ma si punta ad attraversare la sua teoria scientifica per sgombrare il campo dagli errori odierni dei suoi epigoni e dei suoi detrattori, i quali lo hanno fatto scivolare tra i pensatori utopisti (del socialismo e comunismo dei desideri comunitari e umanistici) o tra gli ispiratori delle dittature egualitarie ed antindividualistiche. La Grassa esce dalla porta teoretica marxiana lasciandosela alle spalle ma quel che vede davanti a sé dipende appunto dal percorso teorico e storico che si trova dietro di lui. L’orizzonte che si staglia dinnanzi a noi non è casuale, ma è quello che gli occhi possono osservare schiudendo una determinata soglia concettuale piuttosto che un’altra. In quest’ottica, non perdono d’importanza le esperienze dei decenni trascorsi (come la Rivoluzione d’ottobre ) ma anzi vengono finalmente rivalutate e ricollocate storicamente sulla scorta degli effetti concretamente prodotti, al di là delle intenzioni degli ispiratori, individuali e collettivi. Buona lettura
1. L’individualismo affermato dal liberalismo, base della società capitalistica e della sua “democrazia”, era per Marx puramente formale. Sarebbe occorso un preciso processo di trasformazione sociale per renderlo sostanziale. Non certo però per annullarlo; per irrobustire invece quanto, permanendo i rapporti sociali del capitale, sarebbe rimasto ad un livello di liberazione degli individui da rapporti di dipendenza personale gli uni dagli altri, senza però che si creassero quelle condizioni di base indispensabili a fornire a tale libertà modo di esplicarsi in regime di effettiva parità fra tutti gli individui. Una volta che il processo sociale in questione si fosse realizzato, sarebbe finita la “preistoria” dell’umanità e sarebbe iniziata la vera “storia”.
Alcuni sciocchi, in base ad una letterina di Marx a Vera Zasulič, si sono inventati che per questo pensatore, e non semplice trombone “agitatore”, sarebbe stato possibile superare lo stadio capitalistico per passare direttamente al comunismo dalla “comunità” contadina russa. Nelle comunità contadine, russe o non russe, non esiste alcuna possibile base sociale per il passaggio al comunismo, che non doveva affatto implicare l’annullamento della personalità individuale schiacciata sotto il peso di tradizioni di autoritarismo patriarcale o altro di simile. Innanzitutto, era necessario che ogni individuo si affrancasse da qualsiasi tirannia fondata sulla pura dipendenza personale: e non soltanto rispetto ad un “padrone”, ma a qualsiasi autorità negatrice di ogni libertà di movimento personale e di pensiero per qualunque membro della società, in quanto sistema di relazioni interindividuali, sia pure raggruppate per classi di appartenenza dei “soggetti” in base ad una comune posizione occupata nell’ambito del processo sociale di produzione e riproduzione della vita associata.
I deformatori di Marx, denigratori o apologeti che fossero (e siano), hanno imperversato per tutto il XX secolo ed in particolare nella sua seconda metà (e ancor oggi si continua sulla stessa falsariga). Il fatto che in suo nome sia stata compiuta una rivoluzione – che pretendeva di portare al comunismo, e intanto ristagnava in un puramente nominale socialismo, conducendo al predominio di un gruppo di potere dedito a lotte interne, a colpi di mano, ecc., in un sistema sociale per nulla affatto socialista e comunista, pur senza negare la grande rilevanza storica di quel lungo e vasto processo – ha portato alle idiozie sul Marx precursore del gulag o invece campione della creazione di comunità che si pretenderebbero coese e armoniche, mentre nasconderebbero soltanto gravi crepe e debolezze strutturali esiziali.
Senza entrare in disquisizioni storiche, troppo frammentarie e complicate, meglio chiarire per sommi capi il processo che dall’individualismo liberale doveva portare a quello comunistico, dal “tutti contro tutti” ad una sperata cooperazione per nulla affatto scevra, tuttavia, da competizioni e anche sopraffazioni. Intanto, la libertà del liberalismo, pur definita formale, non è affatto un inganno. E’ ideologica com’è ideologica la spinta nazionale che ha condotto al formarsi delle importanti aggregazioni sociali odierne, base essenziale dello sviluppo e della potenza di dati paesi. Dire ideologico non equivale a falso, inessenziale, pura menzogna. Significa spesso l’indicazione di una forza aggregante capace di imprimere energico impulso a dati processi, implicanti nel contempo una conflittualità altrettanto indispensabile per dar corso a radicali rivolgimenti del già dato.
Anche quando, nelle società moderne (capitalistiche), si sono verificati movimenti che hanno abolito la cosiddetta espressione democratica (in genere soltanto quella elettorale) per instaurare la pretesa “dittatura” (spesso con una base di consenso, almeno per un determinato periodo storico, superiore a qualsiasi “democrazia” elettoralistica), non si è mai tornati a rapporti di dipendenza personale. Ovviamente, ci possono essere modificazioni più o meno profonde nella libertà di movimento, di espressione del proprio pensiero, ecc., ma ciò non sconvolge gli istituti base della società moderna, in particolare quelli riguardanti la sfera economica, che si rifanno alla creazione di date forme di unità produttive (imprese) e alla loro competizione in quel luogo ormai denominato da lunga pezza mercato. Si è in presenza di imperfezioni più o meno vaste, di regolamentazioni più o meno rigide od elastiche di tali istituzioni, motu proprio o invece per intervento esterno (in genere lo Stato), ma in ogni caso non è fondamentalmente alterata la struttura del sistema nella sua sfera economica. Il tentativo più pervasivo di mutamento “istituzionale” in economia è stato la pianificazione presunta socialista, il cui fallimento è definitivo; il massimo che ci si è inventati al suo posto è il “socialismo di mercato”, dove il primo termine è ormai una sbiadita copia della vecchia ideologia che impresse all’Urss una forte spinta non semplicemente alla crescita economica, mentre il secondo termine esprime una realtà in via di affermazione ed estensione, che non ha però nulla a che vedere con il socialismo.
2. Ritorniamo al problema principale. Gli appartenenti a molte scuole marxiste hanno spesso capito poco (per non dire nulla) del termine “sfruttamento” in Marx. Oggi si potrebbe dire che egli scelse un termine sbagliato e talmente carico di valore da confondere le idee. In ogni caso, a quell’epoca era giustificato dall’intento di mostrare come nascesse il profitto capitalistico in quanto forma storicamente specifica e mutata del vecchio pluslavoro estratto con altre modalità (altri rapporti sociali tra dominanti e dominati) nelle società precapitalistiche (il capitalismo nasce per la prima volta in Europa, cominciando dall’Inghilterra, mediante trasformazione del feudalesimo). Il vecchio pluslavoro dipendeva dai rapporti di dipendenza personale; la sua forma storicamente trasformata dal capitalismo è tipica di una società in cui la libertà personale si va affermando in via definitiva. Marx evita di riferirsi alle deformazioni che ancora sussistessero; se si fosse a queste limitato, avrebbe semplicemente indebolito la sua dimostrazione dell’estrazione di un pluslavoro pur nella supposizione della più perfetta libertà personale, che implica piena capacità di stipulare accordi, senza esservi obbligati, e altrettanto completa autonomia nel contrattare la vendita di ciò che si possiede nel luogo deputato a tale contrattazione, il mercato.
Incredibilmente, soprattutto nella seconda metà del secolo XX, sono apparse balzane teorizzazioni dello sfruttamento nel senso dell’imposizione dovuta ad un rapporto di forza sempre favorevole ad una parte sociale, quella capitalistica. Nell’800, Eugen Dühring, svillaneggiato sia da Marx che da Engels, aveva parlato del profitto in quanto estorto dal capitalista “con la spada in pugno”. Cent’anni e passa più tardi, altri “brillanti ingegni” hanno scoperto il “comando del capitale”, esercitato o direttamente dallo Stato o dall’uso di apparati (“egemonici”, in specie la scuola) che subornano i lavoratori (sottinteso sempre salariati, come se solo questi lavorassero). Lo sfruttamento, e dunque il profitto, è stato insomma in varie guise legato ad un rapporto di forza alla fin fine sbilanciato in senso “padronale” (pur se si è sovente teorizzata una “sfida” operaia cui il capitale avrebbe “risposto”). Non sempre invece il rapporto di forza sta dalla parte imprenditoriale, può accadere il contrario. Marx evitò l’insieme di questi tranelli, che implicano il puro ricorso all’empiria e a quanto si verifica in questa o quella congiuntura. Egli parlò di sfruttamento in situazione di equilibrio ed eguaglianza delle forze in campo
Egli suppose insomma una “assenza di attriti” in relazione alla contrattazione nel mercato, cioè nel luogo precipuo di estrinsecazione della libertà individuale, della parità di diritti. Tutto questo avviene nell’ambito di una lotta tra “soggetti” diversi (appartenenti alle due “classi” fondamentali dei capitalisti e dei lavoratori salariati), ipotizzando però che gli effetti della lotta (in cui può prevalere l’uno o l’altro nel mercato) si compensino e che, mediamente, lo scambio avvenga secondo il valore della particolare merce contrattata dalle due classi di soggetti: la forza lavoro, venduta dagli uni e comprata dagli altri. La media, appunto il valore, è il lavoro incorporato nei beni (acquistati con il salario) necessari alla sussistenza storico-sociale dei lavoratori: nient’affatto la mera sopravvivenza, un tenore di vita invece dipendente dal livello di sviluppo raggiunto dalla società capitalistica che è la più dinamica di tutte le società finora conosciute.
Non vi è alcun inganno, alcuna limitazione di libertà contrattuale, nessun “comando” del soggetto capitalista (né di quello individuale né dello Stato in quanto strumento di potere della “classe” capitalistica). Nulla di nulla. Marx non definisce la libertà individuale, che si manifesta nel contratto, un inganno, una mera falsificazione ideologica. Solo intellettuali, che del marxismo non hanno capito nulla (nella seconda metà del XX secolo, quasi tutti gli “eroi” del ’68 e seguenti), possono pensare una sciocchezza simile. La libertà individuale “borghese” – e la sua espressione “democratica”, che è infatti limitata alla pura manifestazione tramite una scheda – è definita formale, e quindi in attesa di un processo storico di trasformazione che la sostantifichi, per tutt’altri motivi.
3. Qui tocchiamo un altro punto, quello della scienza di Marx, per null’affatto un filosofo, altra deformazione di intellettuali solo capaci di grandi discorsi fantasiosi, fiabeschi; in tal caso, veri ideologi nel senso di ingannatori e falsificatori. Marx afferma che non vi sarebbe bisogno di scienza se i nostri sensi ci dicessero già tutto ciò che serve per comprendere la realtà. Il Sole gira intorno alla Terra (esempio riportato da Marx). Questo ci suggeriscono i sensi; e sostenere che si tratta di semplice inganno è banale. Per migliaia d’anni la società si è nutrita di questa credenza, evolvendo e trasformandosi, sia pure con ritmi piuttosto lenti rispetto a quanto è accaduto poi. Pretendiamo di sostenere che i sensi sono stati bugiardi, alziamo alti lai per un’illusione durata millenni e millenni? Sarebbe semplice superficialità. Resta il fatto che ad un certo punto è stata formulata una ipotesi del tutto diversa; e infine si è arrivati a concludere che il movimento del Sole dipende dalla rotazione della Terra, che questa è inoltre in movimento attorno al Sole, ecc. ecc. Adesso non proseguiamo lungo questo indirizzo.
Lo stesso mutamento è avvenuto con Marx in relazione alla libertà individuale affermata dal liberalismo. E’ un inganno, dobbiamo allora combatterla e sopprimerla? Ci mancherebbe solo questo. Essa va conservata, protetta, mai annegata in un indistinto “insieme”, che nasconde l’autoritarismo e la verticalizzazione del potere assai meglio di quanto faccia il mercato, in cui al livello del puro interscambio di attività economiche vengono preservati per l’individuo scambista effettivi ambiti di libertà e di non costrizione coercitiva. Tuttavia, lo scambio delle merci si effettua, in media, al loro valore (basandosi sulla teoria del valore-lavoro); la forza lavoro, venduta dietro salario (“giusto”, cioè corrispondente al suo valore di merce), ha la capacità di erogare una quantità di lavoro (energia) superiore a quella che rappresenta questo suo valore. Da tale fatto – soltanto da esso, senza intervento di “comandi” capitalistici, di rapporti di forza che sottomettono il lavoratore ad uno “scambio ineguale”, e altre asinerie degli “ultrarivoluzionari” sessantottardi – Marx trasse la conclusione che chi possiede i mezzi produttivi si trova in vantaggio, parte da una condizione privilegiata, rispetto a chi ha da vendere per vivere soltanto la capacità lavorativa; non semplicemente quella manuale e generica, ma anche intellettuale o specializzata.
E bisogna intendersi sul termine “possiede”. Significa il controllo reale dei mezzi produttivi, indipendentemente dalla forma giuridica della proprietà. Quando Marx parla di proprietà privata vuole segnalare tale reale potere di disposizione da parte di un gruppo che fa parte a se stante nella rete dei rapporti sociali da cui è formato un sistema economico. Il mercato, formazione storica particolare, separa i gruppi di proprietari in contrasto fra loro. Lo scambio mercantile, però, si afferma nella sua generalità – in quanto tessuto connettivo dell’intero sistema sociale e non più quale mera interconnessione tra “comunità” in larga parte autosufficienti – mediante un lungo processo (almeno due secoli) di espropriazione dei produttori dall’uso (e poi dalla stessa capacità d’uso) dei mezzi produttivi. La cosiddetta accumulazione originaria del capitale non è altro che il processo storico di questa separazione tra produttori (divenuti meri lavoratori salariati) e mezzi produttivi, caduti sotto il controllo di gruppi particolari (capitalistici, all’inizio costitutivi di quella che fu chiamata borghesia) che non agiscono – come pensarono alcuni marxisti del piffero – in quanto gruppo compatto che “sfrutta” i lavoratori imponendo uno “scambio ineguale” tra Capitale (nella sua totalità indistinta) e Lavoro (altrettale coacervo complessivo e indistinto).
Il potere di controllo (la proprietà) spetta sempre a gruppi capitalistici che lottano nel mercato per vincersi ed eliminarsi. Ed è questa separatezza nel luogo della loro lotta, che sottintende il termine privata. Per cui un’impresa detta “pubblica” – perché secondo i canoni del diritto appartiene allo Stato o ad enti assimilati di varia estensione territoriale – è in regime di proprietà (controllo reale) privata se agisce sotto la direzione di determinati gruppi in conflitto per la supremazia nel campo di lotta in cui si afferma la loro separatezza. Questa lotta per superarsi esige una strategia politica (ed è ciò che Marx sottovalutò), ma certamente implica, nella gestione interna dell’unità produttiva in quanto strumento della stessa, la tendenziale applicazione dei criteri dell’efficienza economica (il principio del minimo sforzo o costo), che ottiene il massimo risparmio possibile di risorse ed energie per ottenere un dato risultato; criteri di sicura rilevanza, pur essendo sottoposti al vincolo della vittoria nello scontro, vittoria che implica appunto la preminenza delle capacità strategiche.
Il mercato generalizzato, nato dal processo appena considerato, è il luogo dello scontro tra gruppi proprietari dei mezzi di produzione, che stabiliscono la rete dei rapporti sociali interattivi solo combattendosi fra loro e ponendosi quindi in situazione di separatezza reciproca, non certo considerandosi parti di una società armonicamente coordinata. Ogni tentativo di coordinamento può essere imposto solo “dall’esterno e dall’alto”; ma conduce all’inceppamento finale del sistema, alla fine di ogni competitività e capacità di svilupparsi. E non cessa soltanto la crescita economica perché – salvo una diversa e finora mai “scoperta” struttura dei rapporti sociali, non invece la mera dichiarazione della proprietà “pubblica”, da parte dello Stato, ecc. – la fine della competizione comporta l’invalidazione del fecondo paradosso di Alice, fondamentale per la società moderna: per restare allo stesso posto è indispensabile correre sempre più veloci. Appena si rallenta, inizia pure il disfacimento sociale, si acuisce il conflitto ma solo per dividersi un bottino in rapida decrescita, il che rende la società viepiù preda di violente spinte disgregatrici, dove prevalgono i sopraffattori aperti e più criminali.
4. L’eliminazione brusca e forzata della proprietà privata – appartenente a gruppi di controllori reali dei mezzi produttivi situati in posizione di separazione nel mercato, luogo in cui combattono per vincersi e sottomettersi o essere eliminati – non è quanto si aspettava Marx dall’oggi al domani. Del resto, pure Lenin, dopo le prime “esagerazioni” post-1917, lanciò la Nep quale misura di rallentamento di un processo semplicemente imposto. Per tutta una fase storica dell’accumulazione capitalistica (con il capitale che non è cosa ma rapporto sociale!), quella fase passata alla storia quale capitalismo di “concorrenza”, i proprietari privati (spero si sia capito cosa significhi il termine) dei mezzi produttivi contribuiscono al processo di produzione (nel suo complesso, ivi compresa la distribuzione e il finanziamento del ciclo complessivo) mediante la loro opera di organizzatori e dirigenti (per Marx, come per Lenin, “nessuna orchestra suona senza un direttore”!).
La funzione del capitalista è travisata ideologicamente dalla scienza economico-sociale dominante, che ne fa il vero artefice della produzione. Tuttavia, ancora una volta, l’ideologia non è puro imbroglio. Il capitalista dirige e organizza veramente; quando poi si verifica la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale – le potenze mentali della produzione si separano dai lavoratori addetti allora a mere funzioni esecutive e si concentrano nel lavoro direttivo – la funzione del capitalista appare tout court consustanziale alla produzione nella società moderna, che stravince contro ogni altra per l’eccezionale impulso fornito allo sviluppo delle forze produttive dalla competizione intercapitalistica (interimprenditoriale); e ha poi vinto anche contro la presunta “società del futuro” che credeva di poter sostituire il controllo reale privato dei mezzi di produzione con quello di un organismo statale in mano a semplici detentori del potere politico e ideologico. L’ideologia nasconde la realtà effettiva. Anche nel capitalismo, si sviluppano del resto chiacchiere sulle imprese dette cooperative (e magari “di lavoro”, come se non avessero bisogno di cospicui investimenti per svolgere la loro attività). Si tratta soltanto di una forma giuridica; in ogni impresa di questo tipo, la “cooperazione” sussiste tra cervello e mano, tra direzione ed esecuzione, che vengono affidate a “soggetti” diversi.
In effetti, tutti i “soggetti” implicati nella produzione sono egualmente liberi di contrattare la vendita delle merci, in particolare della forza lavoro. Nel contempo, essi contrattano pure le condizioni d’uso di tale merce entro il processo di erogazione di lavoro, ma in quest’ambito “i sensi” indicano, e non scorrettamente, chi è maggiormente utile alla conduzione coordinata del processo in oggetto, in modo da renderlo il più efficiente possibile con vantaggi che si distribuiscono, per quanto in misura diversa, tra tutti i partecipanti ad esso. Difficile individuare il pluslavoro che costituisce il profitto poiché questo si confonde con il “salario di direzione”, che anche per Marx esiste, poiché il lavoro non è solo quello dell’operaio manuale (la “tuta blu”), questa enorme deformazione fatta subire a Marx dalla II Internazionale e mai sanata nemmeno dalla III e da Lenin.
Scrive Marx nelle Glosse a Wagner (finito nel 1880, tre anni prima di morire):
“io rappresento il capitalista come funzionario necessario della produzione capitalistica e dimostro ampiamente che egli non si limita a ‘prelevare’ o ‘rapinare’, ma al contrario impone la produzione del plusvalore, contribuisce cioè innanzitutto alla creazione di ciò che sarà prelevato; dimostro inoltre diffusamente che, anche se nello scambio di merci si scambiano solo equivalenti, il capitalista – non appena paga all’operaio [venditore di forza lavoro manuale come intellettuale!; ndr] il valore reale della sua forza-lavoro [capito? Valore reale, niente furti e “scambi ineguali” esercitando il “comando” capitalistico!; ndr] – guadagna il plusvalore a pieno diritto; un diritto che naturalmente corrisponde a questo modo di produzione. Ma tutto ciò non fa del “profitto del capitale” l’elemento ‘costitutivo’ del valore, e dimostra invece soltanto che nel valore non ‘costituito’ dal lavoro del capitalista ce n’è una parte che egli si può appropriare ‘di diritto’, ossia senza violare il diritto che corrisponde allo scambio di merci [sottolineatura mia]”.
Si può essere più chiari? Si capisce quindi perché Marx insultò Proudhon quando questi scrisse “la proprietà è un furto”. Si capisce perché lo sfruttamento non ha nulla a che vedere con le sciocchezze degli operaisti (il “comando del capitale”), con le altre futilità dello Stato delle multinazionali; e, purtroppo, nemmeno con gli equivoci degli althusseriani in merito alle funzioni degli “apparati ideologici di Stato”, in particolare quelle di uno d’essi, la scuola, che avrebbe assegnato i ruoli di chi comanda e di chi obbedisce. Lo sfruttamento non dipende da alcun ruolo di comando o di obbedienza, come elucubrato dai pseudomarxisti tardonovecenteschi. Così come non è legato allo sforzo fisico, al sudore, dei lavoratori.
L’estrazione del pluslavoro/plusvalore, nel modo di produzione (struttura di rapporti sociali) capitalistico, avviene in regime di “pieno diritto”, di perfetta eguaglianza dei soggetti contraenti nella compravendita di forza lavoro. L’eguaglianza e la libertà sono condizioni fondamentali per l’esercizio del “dominio” capitalistico; senza eguaglianza dei possessori di merci e libera contrattazione, non viene in evidenza alcuna possibilità di profitto. Il comando, l’imposizione, la fissazione di ruoli tramite “apparati ideologici” (egemonici) è proprio ciò che ha perduto il “socialismo” perché abbatte, ad ogni livello del processo sociale di produzione (livelli del lavoro manuale e intellettuale, esecutivo e direttivo), l’individualismo competitivo e l’impulso impresso alla produttività e dunque allo sviluppo delle forze produttive. E allora vincerà sempre il capitalismo o sciocchi cantori del comunismo come “comunità” cooperativa, nel senso dell’annullamento di ogni competizione intersoggettiva.
5. L’organizzazione dei rapporti sociali nel capitalismo – con la sua piena eguaglianza dei possessori di merci e il rispetto del loro diritto alla libera contrattazione delle merci che possiedono, una della quali è quella insita nella corporeità dell’uomo in quanto sua potenzialità di erogare lavoro sia intellettuale che manuale – comporta appunto un altro “nascondimento”. Si confondono insieme il salario di direzione – eguale, in media, al valore della forza lavoro di questo tipo che, nella prima fase capitalistica (si rilegga il passo da Glosse a Wagner), è fornito dal capitalista, cioè da chi è anche proprietario privato (controllore reale) dei mezzi produttivi – e il profitto, che è plusvalore (pluslavoro nella forma del valore).
A dire la verità, la stessa economia politica dei dominanti (“borghese”) distingue tra salario di direzione, che viene in bilancio attribuito al capitalista in quanto pagamento della sua prestazione lavorativa, e il vero profitto. Se un capitalista non ha profitto, ma solo il salario direttivo, potrebbe anche decidere di impiegarsi come dirigente in qualche impresa e mettere i suoi “capitali” in banca ad interesse piuttosto che investirli in una impresa propria. Se non lo fa, è per considerazioni di carattere extraeconomico (status sociale o altro di simile). Tuttavia, malgrado la distinzione tra salario direttivo e profitto, la figura dell’imprenditore, nell’economica dominante, assomma in sé l’investimento di capitali (considerati di sua proprietà senza che si vada a “sottilizzare” su quanto siano invece plusvalore accumulato) e la capacità direttiva. Non a caso, nel capitalismo manageriale (americano) e non più borghese (inglese e poi europeo) – in cui il manager è generalmente la figura chiave dell’organizzazione e direzione della produzione in senso stretto (processo di lavoro) secondo il principio dell’efficienza e razionalità economiche (principio del minimax), essendo spesso sprovvisto di proprietà intesa in senso solo giuridico quale possesso di pacchetti azionari – il capitalista/proprietario marxiano diventa in realtà solo un imprenditore, un coordinatore dei “fattori produttivi” con eventualmente in più la capacità creativa e innovativa.
In tali condizioni, sopprimere d’imperio e dall’alto del potere dello Stato la proprietà privata, riducendo il capitalista (proprietario) a semplice funzionario della produzione pagato a salario – per di più spesso retribuendolo come o poco più dell’operaio esecutivo in nome dell’ideologia “proletaria”, con la terribile confusione fatta tra l’operaio combinato di Marx, che era l’intero corpo lavorativo, e la semplice “tuta blu” – non poteva che deprimere completamente, a lungo andare, le capacità produttive del sistema detto “socialista”. In una prima fase, non ci si accorse di questo fatto negativo per due motivi. Il principale fu l’enorme “rapina” (sfruttamento nel senso tradizionale e non marxiano del termine) effettuata a carico delle masse contadine, che erano il 90% della popolazione. Il secondo fu la pressione coercitiva e ideologica sul lavoro industriale: ideologica con lo stakhanovismo (quasi sempre per l’operaio esecutivo), coercitiva a carico di dirigenti che non avevano alcun interesse proprio ad organizzare la produzione e ad innovare.
Non a caso, la ricerca scientifica, che fu promossa per finalità militari, non “precipitò” mai nella sfera produttiva trasformandosi in innovazioni tecniche (di processo) e di prodotto. Questo fu sempre l’“arcano”, il fattore considerato inspiegabile della mancanza di impulso fornito all’industria, che avrebbe dovuto anche innalzare il livello di vita della gran massa della popolazione. Inspiegabilità solo per chi non aveva capito Marx, la sua teoria del “lavoratore collettivo cooperativo” (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), che sarebbe dovuto essere anche un corpo lavorativo attraversato da spinte competitive e quindi inventive. Nulla di tutto ciò nel sedicente “socialismo”, salvo l’ideologia stakhanovista e la coercizione e punizione severa per gli “scansafatiche” o, peggio, i sabotatori al servizio dell’imperialismo straniero. Il sistema funzionò perfino troppo a lungo – credo favorito anche dal terribile intermezzo della guerra mondiale – poi si ingrippò. Tutto fu però ridotto al “culto della personalità”, ai “crimini di Stalin”. Si immaginarono riforme “liberali” (Liberman in Urss, Oskar Lange in Polonia, Ota Sik in Cecoslovacchia; e altri ancora) che non riuscivano ad essere effettive rivitalizzazioni di una competitività adeguata allo sviluppo poiché questa, se non si basava più sul mercato (non quello “socialista”, sempre stato una pura chimera ideologica), doveva allora essere suscitata mediante qualche altra modalità, rimasta autentica “araba fenice”.
In Marx il problema, e la sua risoluzione, erano stati posti in base alla previsione di processi sociali oggettivi, intrinseci allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, non per pura decisione soggettiva sovrapposta a quelle che Marx sapeva essere comunque date leggi dello sviluppo di quella storicamente determinata forma di società. Non leggi deterministiche, certo, ma comunque indicanti tendenze, che non possono essere semplicemente create, cambiate, orientate, ecc. in base alle decisioni dei singoli soggetti (individui o gruppi organizzati di individui). Si tratta inoltre di decisioni prese in conflitto interattivo e che dunque conducono a risultati indipendenti dalle volontà e desideri di ognuno di questi soggetti. In Marx “funziona” una specifica previsione che egli formula in merito alla dinamica capitalistica.
6. La conflittualità tra individui possessori di quelle merci che sono i mezzi produttivi (tra capitalisti insomma) si verifica nel mercato che li separa fra loro, li rende avversari. La sconfitta di simili soggetti (proprietari dei mezzi) significa accentramento della proprietà stessa. Questo processo, per Marx, conduce al gigantismo delle unità produttive (quelle dette poi imprese, anche se tra impresa e unità produttiva in senso marxiano vi è differenza su cui non insisto qui, avendone già tanto parlato in altri testi). Diventa impossibile per il proprietario esercitare nel contempo la funzione direttiva, che tende ad essere affidata a lavoratori salariati, a venditori della merce rappresentata da quella specifica forza lavoro. La direzione si integra nel complessivo corpo lavorativo, mentre la proprietà si pone all’esterno d’esso e diventa proprietà azionaria, dunque in ultima analisi innnestata nel “mercato finanziario”, che sta “a lato” di quello specificamente produttivo.
La separazione della proprietà dal lavoro direttivo (divenuto una quota parte del lavoro salariato) è quindi separazione del controllo formale da quello reale dei mezzi produttivi nel processo in cui essi servono alla produzione effettuata dal corpo lavorativo complessivo. Il controllo reale torna in mano ai produttori; non più singoli artigiani (riunione in un solo individuo di potenze mentali e di lavoro esecutivo) bensì il lavoratore collettivo cooperativo (l’operaio combinato). Tale controllo reale implica i savoir faire necessari all’uso dei mezzi produttivi e all’esecuzione del processo lavorativo. Il controllo formale è però in tal caso quello decisivo. I mezzi produttivi restano infatti merci e non possono essere acquistati se non impiegando denaro. Quest’ultimo si concretizza innanzitutto nell’acquisto delle quote azionarie in cui viene suddivisa la proprietà delle unità produttive. Ed è a tale proprietà che viene attribuito il diritto a prelevare i profitti (plusvalore) e a decidere in merito ad essi. I profitti si staccano dal salario con cui viene acquistata nel mercato la forza lavoro direttiva. Appare in piena luce la separazione tra chi contribuisce, dirigendo, alla produzione e chi semplicemente si appropria del plusvalore nato dalla solita differenza tra valore della merce forza lavoro (sia direttiva che esecutiva) e il maggior valore creato dal lavoro erogato da quest’ultima.
Marx parla certo della concorrenza tra capitalisti e, appunto, della vittoria di pochi che accentrano la proprietà dei capitali. Tuttavia, manca in lui la precisa consapevolezza dei saperi strategici necessari alla concorrenza, che non resta fenomeno solo economico, ma coinvolge pure le altre sfere sociali (politica e ideologica); e tanto più le coinvolge quanto più aumentano le dimensioni delle unità produttive (divenute imprese). Per lui, invece, il fondamento della produzione sta nella cooperazione tra potenze mentali della produzione (quelle direttive, ma sostanzialmente tecniche; non a caso parla di “ingegnere”) e le prestazioni esecutive (“il manovale” o “giornaliero” a seconda delle traduzioni). Di conseguenza, della produzione in senso stretto vede il lato del processo lavorativo e le innovazioni sono generalmente quelle dette di processo, quelle tecniche e organizzative; di innovazioni di prodotto – soprattutto del lancio di interamente nuovi settori produttivi, come nella seconda rivoluzione industriale e poi nella terza, l’attuale – di fatto non si parla.
I metodi della concorrenza intercapitalistica coincidono soprattutto con quelli del plusvalore relativo, che implicano crescita della produttività del lavoro e riduzione del valore della merce forza lavoro con aumento della parte della giornata lavorativa incamerata dal capitalista proprietario. Detto nei termini dell’economica tradizionale, si tratta appunto di innovazioni di processo che riducono i costi e consentono di battere la concorrenza sui prezzi, aumentando pure i profitti. E’ ovvio che il capitalista, separato dalle potenze mentali della produzione (acquistate come merce forza lavoro, pagata con il salario di direzione), diventa allora semplice proprietario di azioni, figura estranea alla produzione, che egli controlla dall’esterno in virtù del possesso di capitale monetario. Da una parte, si pongono dunque i semplici finanzieri (i rentier), dall’altra l’insieme dei lavoratori produttivi (direttivi ed esecutivi, con tutte le varie gradazioni intermedie). Il profitto (plusvalore) diviene quasi-rendita, la proprietà non svolge più alcuna funzione nell’ambito della produzione sociale complessiva.
A questo punto, la proprietà privata (si ricordi sempre il suo significato effettivo, non quello della forma giuridica) non assegna più ai suoi titolari il controllo reale dei mezzi di produzione, spettante invece al “lavoratore collettivo” (“operaio combinato”); essa continua però ad avere come effetto la separazione delle unità produttive nel mercato. Tale separazione non implica più concorrenza e competizione; non è tanto la centralizzazione in sé, il “monopolio”, a indebolirle e a consentire un accordo per mantenere alti i prezzi – cosicché le innovazioni di processo, merito del lavoratore (salariato) collettivo si traducono soprattutto in un innalzamento dei profitti, senza vantaggio per i consumatori tramite diminuzione dei prezzi; questa è l’idea guida dell’economica tradizionale in merito al mono(oligo)polio – quanto invece la netta separazione del rentier (che equipara la proprietà di azioni al possesso di capitale monetario produttivo di un simil-interesse) dal processo produttivo, che per lui è solo fonte del plusvalore accaparrato nella nuova figura del dividendo, ecc.
Non c’è bisogno dell’imposizione dall’alto e coercitiva per superare la proprietà privata; essa lo è di fatto nella stessa struttura dei nuovi rapporti sociali formatisi per dinamica intrinseca del modo di produzione capitalistico. Dall’alto invece, dal potere nello Stato ancora in mano ai capitalisti/proprietari, si impone la permanenza di ciò che nel processo sociale di produzione è stato superato. I rentier restano proprietari (di capitale azionario di fatto equiparato a quello monetario in cui si traducono le azioni nei vari giochi finanziari di Borsa) perché lo Stato resta loro strumento di potere sulla società. A questo punto occorre la violenza rivoluzionaria esercitata dai produttori (componenti il lavoratore collettivo sociale) per abbattere tale potere e trasformare lo Stato, ma transitoriamente, in un loro strumento, indispensabile a mettere fine alle trame che continueranno a sviluppare, per una intera fase storica (di transizione), i proprietari di capitale; tenuto anche conto che la rivoluzione non scoppia simultaneamente nelle varie parti (formazioni sociali particolari, di fatto paesi) del mondo. E i capitalisti che controllano ancora i loro Stati aiutano quelli il cui potere statale viene rovesciato rivoluzionariamente.
7. Questo lo schema della previsione marxiana della rivoluzione “proletaria”, in cui il proletariato, usato come sinonimo di “classe operaia”, è appunto l’operaio combinato e non la semplice “tuta blu”. Il potere della classe dominante (capitalisti) è eroso innanzitutto nella base economica: struttura dei rapporti sociali di produzione, rapporti all’interno dei processi produttivi in quanto attività lavorativa collettiva. Il potere capitalistico resta confinato (e accerchiato) nella cittadella della sovrastruttura statale. Per un certo periodo di tempo, può essere che la “borghesia” (ridotta ormai a quella finanziaria, ai rentier) mantenga anche una egemonia ideologica; questa è però rapidamente sconvolta e rovesciata grazie alla nuova struttura sociale nella produzione, che pone in evidenza, con residui sempre più limitati e deboli, la superfluità del proprietario nella direzione dei processi ad essa inerenti, ormai controllati realmente dai “salariati” nel loro complesso. Resta alla “borghesia” solo il potere coercitivo statale, che deve essere rovesciato rivoluzionariamente e non certo tramite le forme della “democrazia” (parlamentare) borghese.
Si deve formare un nuovo Stato, quello di transizione, destinato però alla graduale scomparsa (estinzione), che non riguarda gli apparati di amministrazione e organizzazione sociale, come pensano coloro che….. non pensano mai a quello che scrivono, in quanto non hanno mai preso conoscenza della concezione dello Stato nel marxismo. Non esistono puri apparati egemonici, ma “egemonia corazzata di coercizione” (Gramsci). E i produttori associati del “lavoratore collettivo cooperativo”, una volta tolto di mezzo il potere (questo sì coercitivo e repressivo) dei capitalisti rentier, contro chi dovrebbero esercitare la loro coercizione? Ripeto: per un certa fase di transizione – dovuta soprattutto alla non simultaneità in tutto il mondo della rivoluzione “proletaria”, e ai residui di una certa egemonia ideologica “borghese” – vi è ancora bisogno di repressione, e quindi del ben noto “Stato di dittatura proletaria”.
Se però nella base, cioè nella struttura dei rapporti sociali di cui è intessuto il processo di produzione complessivo, si è esaurito il controllo reale dei mezzi produttivi da parte dei proprietari privati (esaurimento dovuto all’avvenuta separazione tra proprietà capitalistica e potenze mentali della produzione), se questi ultimi resistono transitoriamente nella sovrastruttura del potere (coercitivo) dello Stato – che è appunto Stato in quanto consiste di tali apparati di repressione e coercizione – si può sapere, una volta abbattuto questo Stato e una volta compiuta la transizione mondiale alla nuova forma produttiva sociale (alla nuova formazione sociale, detta appunto comunista), contro chi si dovrebbe esercitare la coercizione e la repressione? Solo dei pasticcioni e confusionari possono ancora parlare di permanenza dello Stato nel comunismo.
Solo chi non ha capito nulla della previsione (in realtà effettiva convinzione) marxiana relativa alla dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico – e non l’ha capita perché si è perso nel Marx “filosofo”, o in quello della letterina a Vera Zasulič, ma non ha mai studiato Il Capitale, le Teorie sul plusvalore, il Capitolo VI inedito, magari anche le Glosse a Wagner, ecc. ecc. – può arrivare ad una così grossolana falsificazione del suo pensiero, riducendolo ad elucubrazioni di un povero mentecatto utopista che sognava la “redenzione” degli uomini, l’inveramento di una supposta “natura generale” dell’Uomo, sempre invece pensata da Marx come essere sociale, cioè evolutasi storicamente nelle diverse strutture dei rapporti relativi alle varie formazioni sociali con i loro specifici modi di produzione.
Se la previsione marxiana (la sua convinzione ben radicata) si fosse rivelata esatta, la separazione mercantile delle diverse unità produttive sarebbe stata superata per opera di un processo sociale (relativo ai rapporti sociali, ai rapporti tra “classi”) avvenuto nella base economica, che era appunto la struttura interattiva tra queste “classi”. Nessuna imposizione dall’alto da parte di un potere statale in mano ad una minoranza, dichiarata “avanguardia” della “classe operaia” in un paese a stragrande maggioranza contadina, in cui quindi tale avanguardia doveva mettersi pure “a guardia” dell’alleanza tra la minoranza operaia e i contadini. Il potere statale si sarebbe invece rivelato quale fulcro del potere dei proprietari (rentier) ormai esautorati ed estranei alla produzione sociale a causa di un processo oggettivo, della dinamica inerente al modo di produzione capitalistico. Esso andava abbattuto per togliergli questa sua funzione di resistenza (reazionaria) al progresso della formazione sociale; al suo posto doveva quindi subentrare uno Stato di tipo nuovo, che avrebbe dovuto rappresentare il potere (anche repressivo!) della maggioranza sulla minoranza al contrario di quanto avvenuto sino ad allora nella storia delle varie formazioni sociali. Questo doveva essere il tanto incompreso Stato di dittatura proletaria. Quanto avvenuto nella “costruzione del socialismo” dopo il ‘17 non ha nulla a che vedere con tutto ciò.
Gramsci ha avuto in un certo senso ragione nell’affermare che la Rivoluzione d’ottobre è stata una rivoluzione contro Il Capitale (di Marx); ciò di cui non poteva all’epoca rendersi conto era che nessun processo di realizzazione del socialismo, quale transizione al comunismo, poteva essere promosso per semplice decisione di un gruppo di élite rivoluzionario, sia pure innestato su un sommovimento profondo delle masse; però formate da contadini, che si muovevano non certo per il comunismo, ma per “avere il loro pezzetto di terra”. Si impose poi – pena il ritardo dell’accumulazione e industrializzazione, senza la quale l’Urss sarebbe stata spazzata via nella seconda guerra mondiale – un grande trasferimento forzoso di risorse dall’agricoltura, perché questo fu il risultato principale della pianificazione sovietica. La separazione mercantile tra le unità produttive fu soppressa, schiacciata, ma non superata dall’avvenuta formazione del lavoratore collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”). Le potenze mentali della produzione rimasero in fondo separate e superposte al lavoro esecutivo, senza però i meccanismi che davano alle prime, nel capitalismo, i poteri di organizzazione del lavoro e di efficienza tecnica ed economica, nonché la spinta alle innovazioni; nemmeno a quelle di processo (di quelle di produzione meglio non parlare).
Si formulò la tesi che, mentre in tutte le altre transizioni da una formazione sociale all’altra, la nuova classe dominante era nata all’interno della vecchia formazione sociale, e non era però mai stata la classe dominata in quest’ultima a prendere il potere (il feudalesimo non nacque da una rivolta degli schiavi; il capitalismo non certo da un movimento di ascesa dei servi della gleba), nella transizione al socialismo sarebbe avvenuto proprio questo: la classe dominata sarebbe emersa quale dominante nella nuova formazione socialista e, dopo la transizione, comunista, nel cui ambito la sua funzione si sarebbe tuttavia esaurita lasciando il posto alla società senza più classi antagonistiche. Tale tesi sarebbe stata giusta se si fossero però verificate le due previsioni marxiane fondamentali. Intanto la classe dominata era l’intero lavoratore collettivo cooperativo (dirigenti ed esecutori nei processi produttivi), che sarebbe stata per una fase storica ancora subordinata alla classe dei rentier, cioè dei capitalisti solo proprietari e privi di funzioni direttive nella produzione.
Inoltre, basta semplicemente leggersi il par. 7 del capitolo sull’accumulazione originaria, che non posso citare per esteso (l’ho già fatto innumerevoli volte in passato). Nella struttura produttiva sociale (la base della società) la socializzazione delle forze produttive (controllo reale dei mezzi produttivi da parte del nuovo soggetto, l’operaio combinato) si sarebbe già realizzata ad opera delle leggi dinamiche intrinseche al modo di produzione capitalistico:
“questa espropiazione [dei capitalisti dal controllo dei mezzi; ndr] si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali […….] Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la proprietà capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata [attenti al passaggio!; ndr], ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e del mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”.
Intanto, tenete ben presente per il finale di questo saggio: esiste una proprietà individuale che è privata e un’altra proprietà individuale fondata sulla cooperazione e possesso collettivo (cioè controllo reale da parte dell’operaio combinato) dei mezzi di produzione. Tale cooperazione però è una conquista dell’era capitalistica, nel senso che la formazione del lavoratore collettivo avviene per sviluppo del modo di produzione capitalistico, attraverso la centralizzazione dei capitali, processo in cui il capitalista proprietario va perdendo la sua funzione direttiva (possesso delle potenze mentali della produzione), affidata a specifici lavoratori venditori di merce forza lavoro (qualificata) tramite salario, tramite un prezzo mediamente equivalente al valore di tale forza lavoro. Quest’ultima quindi, inserita nel processo produttivo, produce come ogni altra il suo plusvalore (pluslavoro), accaparrato dal proprietario (privato) divenuto mero rentier e possessore di quote azionarie.
8. Insisto, perché è ora si capiscano i passaggi, si comprenda infine come quello che è stato chiamato socialismo fu qualsiasi altra cosa, ma non questo. La rivoluzione contro Il Capitale (di Marx) fu benemerita, ma non si doveva confonderla, com’è stato fatto per un secolo o quasi, con la rivoluzione socialista, preparazione della transizione al comunismo, mai avvenuta perché non poteva avvenire, non ne erano state preparate le basi (sociali, non semplicemente nella crescita del Pil, nella produzione dei vari beni!). Tutta la storia del presunto socialismo del XX secolo è stata gravemente alterata e resa indigesta. E si è trattato di errore capitale; era possibile difendere la natura rivoluzionaria del 1917 (con tutto ciò cui ha dato seguito, in quanto cambiamento radicale del mondo) senza creare illusioni sulla società del “Sol dell’Avvenire”, senza raccontare che una certa società, assolutamente inaccettabile nella nostra area, doveva rappresentare il nostro futuro.
E’ ovvio che chi andava in visita in quei paesi (e parlo anche di operai e contadini negli anni ’50 e ’60) tornava assai perplesso, ingoiava il rospo perché i “grandi capi” (creduti come oracoli) raccontavano che si trattava di “deformazioni” temporanee, tiravano in ballo la guerra con le sue distruzioni, l’aggressività del mondo capitalistico, ecc. In realtà, non esisteva il socialismo, punto e basta. Non aveva alcun senso battersi nell’“occidente” ad alto sviluppo in base alla riproposizione di quei modelli. Simili menzogne clamorose hanno favorito (e continuano a favorire) la prevalenza di società come le nostre attuali, guidate da gruppi dominanti particolarmente degradati e privi di progetti che non conducano semplicemente alla devastazione del mondo. Si abbia intanto il coraggio di dire la verità e di mandare al diavolo gli imbecilli e i farabutti, che ancora diffondono le false illusioni sul socialismo e comunismo.
La proprietà privata non è semplicemente quella individuale, dove individuo non significa in ogni caso un singolo soggetto umano, ma anche un soggetto giuridico tipo società per azioni, ecc. La privatezza è carattere dell’individualità separata dalle altre nel luogo chiamato mercato (essa riguarda quindi anche le imprese dette “pubbliche”!). Nel mercato deve supporsi la più perfetta eguaglianza – lasciando perdere gli “attriti” sempre esistenti, che non attribuiscono però vantaggi in una sola direzione, ma nei vari sensi – tra individui, siano essi quelli umani o giuridici, ecc. La privatezza è la separatezza imposta dal mercato in quanto luogo del conflitto tra queste individualità poste in condizioni di eguaglianza. Si tratta però di un conflitto non diretto e immediato tra tali individualità, non è una loro “singolar tenzone”, bensì un conflitto intanto mediato dall’applicazione del principio del minimo mezzo al fine di sconfiggere l’avversario sulla base dei costi e dei prezzi. Ci possono essere mezzi aggiuntivi di lotta, ma si tratta di un “di più”, di mezzi eccezionali ed eventuali; la normalità è la lotta in cui si sconfigge l’avversario, esistente nell’ambiente (all’esterno, quindi), migliorando le proprie prestazioni interne (i costi appunto, che poi si riflettono sui prezzi di vendita). Tutto questo, sia chiaro, secondo la visione che fu di Marx, in cui si prescinde dal (preminente) lato strategico del conflitto.
In poche parole, il conflitto esige certo gli individui in lotta reciproca, ma ciò comporta la cosiddetta (dall’economica tradizionale) migliore organizzazione e coordinamento dei “fattori” (mezzi tecnici e forze lavorative) della produzione per battere gli avversari sul piano dei costi (quindi mediante l’applicazione del principio del “minimo sforzo”). In questa visione della lotta concorrenziale, Marx introduce la diseguaglianza tra le condizioni di partenza degli individui che posseggono i diversi “fattori” produttivi (esistenti in qualità di merci); vi sono alcuni che hanno la proprietà dei mezzi produttivi e altri che posseggono solo la forza lavorativa (di muscoli e cervello). I primi godono di un vantaggio non perché impongano alcunché con la forza (o con l’egemonia o altra trovata di chi non ha mai compreso la teoria marxiana del valore), ma semplicemente perché trovano nel “libero mercato” la forza lavoro da acquistare mediamente al suo valore di merce.
Questo è sufficiente: una volta stabilito il contratto per l’acquisto di tale merce al suo valore, si svolge l’atto successivo, il processo di produzione. Da esso emerge il plusvalore (pluslavoro) per coloro che lo dirigono; certamente perché hanno il diritto di dirigere in base alla proprietà dei mezzi produttivi, ma anche perché in una prima fase capitalistica, soprattutto dopo la sussunzione reale del lavoro nel capitale (separazione dei saperi produttivi dal lavoro esecutivo e loro unione alla proprietà), i capitalisti contribuiscono con la loro direzione all’ordinata esecuzione dei processi produttivi e all’emergere del plusvalore (si rilegga il passo citato dalle Glosse a Wagner).
La conflittualità capitalistica comporta l’espulsione dal mercato dei vinti e la conseguente centralizzazione dei capitali in mano a pochi. Per tale movimento conflittuale, intrinseco al capitalismo, la proprietà va separandosi dalle potenze mentali della produzione e dunque dalle capacità direttive che, a questo punto, vengono anch’esse acquistate sul mercato. L’intero corpo lavorativo, rappresentato da venditori di merce forza lavoro ai suoi diversi livelli di sapere e qualificazione, diviene così produttore del plusvalore complessivo, di cui si appropriano però soggetti del tutto esterni alla produzione, i capitalisti esclusivamente proprietari e non più dirigenti di alcunché di produttivo. I veri dirigenti della produzione non acquistano la merce forza lavoro esecutiva al suo valore di mercato; poiché sono essi stessi a dover vendere la propria forza lavoro qualificata e direttiva per un salario a personaggi ormai estranei al processo produttivo sociale.
In simile situazione, poiché il capitalista proprietario non esercita più alcuna funzione realmente produttiva, non possiede affatto quei savoir faire indispensabili al reale controllo (non alla mera proprietà giuridica) dei mezzi produttivi; il mercato mostra la sua vera natura, che non è quella dell’occasionale scambio di prodotti tra “comunità” complessivamente autosufficienti come avveniva nelle società precapitalistiche. Il mercato generale – e la cui generalizzazione è un portato, non a caso, dei processi storici dell’accumulazione originaria, tramite cui si è venuta formando la gran massa del lavoro salariato – è essenziale affinché, nella piena libertà degli individui, i possessori dei mezzi produttivi possano acquistare la forza lavorativa come merce, pagandola al suo valore (il “giusto” prezzo) ed estraendone il plusvalore. Quando, tramite la prima fase dell’accumulazione, che comporta l’espropriazione dei tanti produttori artigianali da parte dei pochi capitalisti, si viene verificando la sussunzione reale del lavoro – cioè l’espropriazione dei saperi produttivi e direzionali che si concentrano nei proprietari di contro ai lavoratori rimasti soltanto esecutivi – è possibile ingannare questi ultimi e far pensare che il profitto è in fondo qualcosa di connaturato alla dirigenza capitalistica.
9. Nel periodo storico in cui, secondo Marx, si realizza la “negazione della negazione”, in cui cioè i capitalisti perdono i saperi produttivi e comprano sul mercato la forza lavoro in possesso di questi ultimi – estraendo anche da essa il plusvalore, che a questo punto appare nella sua interezza quale emolumento spettante alla sola proprietà, garantita giuridicamente e protetta mediante il controllo del potere nello Stato (quello vero, quello dotato di poteri coercitivi e repressivi) – la maschera cade: “Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati” (sempre dal par. 7 già citato). Ma vengono espropriati della pura proprietà giuridica – e ciò richiede l’abbattimento del loro Stato e l’instaurazione dell’altro, già considerato – quando ormai è già avvenuta la trasformazione sostanziale nella base, nella produzione, nella struttura dei rapporti sociali che la regge e svolge. Il lavoratore collettivo, unione di potenze mentali ed esecuzione, si è ormai formato; è caduta la finzione del mercato quale luogo della competizione economica virtuosa tra liberi possessori di merci secondo quanto recita l’ideologia dei dominanti; esso finalmente manifesta il suo reale carattere di rete di rapporti sociali in cui il proprietario delle condizioni oggettive del lavoro compra la forza lavoro come merce, paga il “giusto prezzo” (valore) ad essa e ne estrae poi il plusvalore. Nessun furto né imposizione né inganno o uso di raggiri o di forza. Tutto avviene nella piena libertà degli individui (umani e soggetti giuridici).
Non c’è bisogno di forzatura alcuna nella sfera sociale della produzione per instaurare la transizione alla nuova società. Viene semplicemente abbattuto lo Stato reazionario (dei rentier), ancora difensore di questo scambio mercantile eguale (in media) che non nasconde più l’estrazione di plusvalore da tutte le figure del lavoratore collettivo, la proprietà essendosi ormai staccata dalle capacità direttive dei processi produttivi. Ma se tale abbattimento si anticipa a quando siamo ben lontani dalla conclusione di questo processo indicato da Marx, se si ammette che gli operai in senso stretto – i lavoratori salariati esecutivi – sono ancora privi del loro coordinamento con i lavoratori dotati dei saperi produttivi, se questi ultimi vengono indicati (come fece Lenin, e del tutto giustamente, sia chiaro) quali specialisti borghesi, bisogna rendersi conto che non siamo nemmeno alla formazione della base sociale essenziale del socialismo, a quell’operaio combinato o lavoratore collettivo cooperativo cui Marx affidava il segnale precipuo della transizione ormai in corso, e a cui esclusivamente lo Stato dei rentier (proprietari resi estranei alla produzione e alla sua direzione) poteva opporsi; la necessità di spazzarlo via appariva in tutta evidenza.
Vorrei non mi si fraintendesse. Non rimetto in discussione la Rivoluzione d’ottobre, non dico come i menscevichi: bisognava prima aspettare il completamento della rivoluzione borghese. E’ stato a mio avviso corretto prendere quanto si poteva ottenere nella congiuntura data. Fu però un grave errore pensare di star costruendo il socialismo in condizioni lontanissime da quelle, oggettivamente intrinseche allo sviluppo capitalistico (nella visione di Marx, intendiamoci, secondo le sue supposizioni che sto dando per buone), del tutto indispensabili alla “negazione della negazione”. Bisognava ammettere che il decorso storico non confermava le previsioni marxiane relative allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, da lui studiato soprattutto con riferimento alla formazione sociale inglese.
Si è invece ridotta la classe operaia a quella esecutrice (operazione già compiuta da Kautsky e non più rimessa in discussione, recuperando invece la corretta impostazione di Marx), del tutto priva di capacità non semplicemente egemoniche (culturali e ideologiche), bensì soprattutto delle potenze mentali (direttive) della produzione, spettanti all’insieme di quel corpo lavorativo collettivo che, nella previsione marxiana, sarebbe dovuto essere il portato dello sviluppo capitalistico; un “soggetto sociale” che si sarebbe realizzato tramite l’estraneazione della proprietà capitalistica dalle suddette potenze mentali, con tutti i passaggi sopra visti. Una volta constatato che così non era – che in nessun paese capitalistico avanzato si era formato un simile soggetto collettivo, in quanto base sociale necessaria alla transizione verso il socialismo e comunismo, e che le rivoluzioni sedicenti proletarie continuavano a prodursi in società sempre più contadine – se ne dovevano trarre le logiche conclusioni. Invece si è proceduto testardamente fino al fallimento totale, nel mentre sempre nuovi “polloni” si staccavano dal filone originario, spesso però passando semplicemente “dall’altra parte”, dalla parte della società vincente, cioè pur sempre quella capitalistica.
Ed è ora di ammettere che la vittoria del capitalismo è stata la logica conclusione di battaglie socialistiche totalmente errate. E’ giusto che si perda quando si commettono errori di tale enormità; solo il fallimento della propria azione consente eventuali correzioni di rotta. Anzi, diciamolo infine sinceramente, è stato grave che la sconfitta sia avvenuta così tardi; si è perso molto tempo e si è consentita la formazione di tanti miasmi e residui velenosi che ancor oggi pesano su di noi. Non è un incidente che comunisti degenerati, incapaci di ripensare l’errore commesso, arrivino oggi ad appoggiare le criminali imprese tipo Libia. E’ del tutto nel carattere di gente che non vuole correggersi. Non c’è più nulla da salvare in essi. E anche se piccoli gruppi manifestano talvolta della resipiscenza in specifiche occasioni, non ci si fidi; riprenderanno a degenerare perché ciò è connaturato all’errore ultrasecolare. Simili elementi patogeni devono scomparire, non si dia più loro alcun credito, la si smetta di dialogare con essi. Devono puramente e semplicemente ammettere di avere sbagliato su tutta la linea. Altrimenti, nessun dialogo è possibile, tanto meno è utile!
10. In questo saggio ho cercato – anche con puntigliose ripetizioni – di seguire passo passo l’impostazione di Marx per porre in luce la grave degenerazione dei marxisti e comunisti successivi. Perfino se Marx avesse colto giustamente la dinamica del modo di produzione capitalistico, i suoi successori avrebbero comunque commesso gli sbagli e seguito le politiche errate del XX secolo; e ci saremmo in ogni caso trovati con gli insuccessi e i fallimenti catastrofici già ben noti. Giustissima l’accusa a Kautsky d’essere un rinnegato, ma per il suo atteggiamento da traditore all’epoca della prima guerra mondiale. Dall’essere un rinnegato al diventare un revisionista ce ne correva. In realtà, il vero revisionista fu, fortunatamente del resto, Lenin. Egli però non mutò purtroppo l’ortodossia kautskiana proprio nel punto cruciale, quello della base sociale della transizione al socialismo e al comunismo, base che non era più pensata in senso marxiano, non era il lavoratore collettivo cooperativo, ma solo l’insieme dei lavoratori delle mansioni esecutive o, al massimo, dei bassi livelli direttivi. Tutto il dibattito tra revisionismo e antirevisionismo è stato viziato da questo fraintendimento di fondo.
Quando la Rivoluzione culturale cinese lanciò la sua parola d’ordine, la classe operaia deve dirigere tutto, siglò l’atto finale del fallimento totale della “rivoluzione proletaria o comunista”. La classe operaia, così com’è stata intesa da Kautsky in poi, non era in grado di dirigere un bel nulla. D’altra parte, dev’essere ammesso che l’errore era la naturale conseguenza dell’incomprensione, comune a tutti i dirigenti del “movimento operaio” successivi a Marx, di qual era, per quest’ultimo, il reale “soggetto” della rivoluzione socialista e comunista. Al contrario di quanto egli aveva creduto, la dinamica capitalistica non era andata nella direzione della formazione dell’operaio combinato (dal più alto livello direttivo al più basso esecutivo).
Già il passaggio all’impresa moderna smentiva Marx, per il quale l’ingrandimento dell’unità produttiva capitalistica era aumento dimensionale soprattutto dell’opificio industriale (di trasformazione), cioè della fabbrica, mentre gli altri settori (dipartimenti, divisioni o come poi si chiamarono) erano considerati “accessori”, necessari per la contabilizzazione dei risultati conseguiti dalla reale produzione di manufatti industriali; e solo perché sussisteva il mercato. D’altronde, all’epoca di Marx, nemmeno era in marcia la formazione sociale (statunitense) che poi prenderà, nel corso di un secolo, il netto predominio mondiale e che, non a caso, qualcuno denominò, piuttosto sensatamente, capitalismo manageriale.
Era mancata in Marx la consapevolezza della preminenza di quelli che ho indicato quali strateghi del capitale; soggetti (non individuali in genere, anche se poi esprimono spesso un nome quale loro condottiero), le cui funzioni vanno separate sia dalla proprietà sia dalla direzione (potenze mentali) dei processi produttivi in senso proprio. Intendiamoci bene. In molti casi essi hanno anche la proprietà, in molti altri casi sono pure i dirigenti dell’impresa intesa come luogo dell’efficienza economica, del minimax. Il problema centrale è rappresentato dal fatto che è la loro funzione ad essere separata e non derivata dalla proprietà e dalla direzione della produzione. E quando si tratti di personaggi (o di gruppi di individui) consci di qual è il compito principale da svolgere per vincere nella competizione, si può essere sicuri che essi sanno mettere in secondo piano, se necessario, sia l’eventuale proprietà (e i dividendi di cui godere in base ad essa) sia i caratteri specifici dei processi produttivi (lavorativi), cioè la stretta e rigorosa efficienza economica. Sono i loro ideologi (da strapazzo ma ben pagati) ad elevare l’elegia al mercato come luogo in cui l’impresa è obbligata al conseguimento del minimo costo: con reciproco vantaggio per gli imprenditori (il profitto) e per i consumatori (la più alta utilità acquisita). Questi sono però gli intellettuali (professori, giornalisti, imbonitori d’ogni risma) che servono per irreggimentare il “volgo”; lo stratega sa bene ciò che deve fare per vincere veramente.
Lo stratega può essere quindi quello che manovra l’entità detta impresa nella sfera economica, come può invece agire nella sfera politica in qualità di membro di un governo, di dirigente di apparati militari, di dati centri di studi strategici; egli può utilizzare importanti mezzi di comunicazione e influenze ideologiche ai fini dell’esecuzione di date strategie, ecc. In genere, c’è sempre un mix di posizioni e un intreccio fra le stesse nella lotta che contrappone fra loro dati gruppi dominanti. In questo contesto, balzano sempre in evidenza i centri finanziari, quelli che controllano i “soldi” (detto volgarmente). E’ un gran bel vantaggio per gli strateghi dei gruppi dominanti avere come paravento e mascheratura il sistema finanziario, che d’altronde non è creazione di nessuno, è sorto “naturalmente” dalla generalizzazione dello scambio mercantile. Ricordo che in tale processo di generalizzazione è stata decisiva la formazione del lavoro salariato, implicante la libertà personale e l’unicità della merce da vendere per vivere; una merce che, una volta pagata “giustamente” (secondo il suo valore), ha la “bella proprietà” di erogare lavoro creatore di un maggior valore.
Più si generalizza lo scambio e più si sviluppa anche la circolazione generale del denaro (nelle varie figurazioni monetarie o ad esse assimilabili; come titoli, ecc.), che acquisisce una sua autonomia e manifesta andamenti di mercato molto erratici, non in perfetta linea con quelli degli altri mercati. Questa fantasmagoria fa perdere di vista la moneta come mezzo d’acquisto di ogni merce, in particolare della forza lavoro, di qualsiasi forza lavoro (perfino, in certi casi, di quella dello stratega). Si perde di vista pure l’acquisto di merci che sono armi, strumenti adatti all’uso nell’ambito di particolari strategie. La fantasmagoria finanziaria prende il davanti della scena, che sia mezzo ognuno lo scorda. Lo scorda l’apologeta del capitalismo che getta le colpe di certi dissesti del sistema sulle cattive azioni di chi gestisce denaro; lo scorda ancor più il critico che si butta a corpo morto contro il capitale finanziario, dichiarando che è la quintessenza del capitalismo, che combattendo la finanza si combatte il capitalismo, che il crollo finanziario preannuncia quello del capitalismo, che tagliando le unghie ai cattivi finanzieri si toglierà di mezzo questa circolazione malefica, questo “sangue velenoso”, purificando così l’organismo, trasformandolo in buona linfa, sana, docile ai voleri dei riformatori; tutti inutili e sciocchi quanti sono.
E il capitale va avanti, combatte intanto le sue battaglie di ristrutturazione dei suoi rapporti interni, promuove le sue campagne guerresche o comunque bellicose d’altro genere, sobilla popolazioni, sovverte governi contrari ai gruppi dominanti più forti, quelli dotati non solo di maggiori strumenti, ma anche di migliori centri d’elaborazione di strategie, con il solito mix della loro applicazione nella sfera economico-finanziaria, politico-militare, ideologico-culturale. E i critici finiscono per divenire spesso i migliori propagandisti dei centri strategici più potenti, più criminali. Non insisto adesso sul problema perché da oltre quindici anni ho colto l’errore marxiano nell’aver sottovalutato tale problema, puntando soprattutto sulla proprietà capitalistica invece di comprendere che il fulcro del capitalismo sta nel fattore strategico. Ho parlato del primo disvelamento (marxiano), del secondo, non certamente portato a termine né arrivato ad univoche determinazioni, ecc. Pur avendo scritto ormai migliaia di pagine, come minimo dalla metà degli anni ‘90 (mettendo termine alle incerte ingenuità del capitalismo lavorativo, mia precedente teorizzazione), ho indicato, per semplicità, cinque volumi contenenti il succo di quanto detto.
Del resto, devo scrivere ancora la seconda parte del sesto (Il capitale è un rapporto sociale, la cui prima parte si trova in questo blog), dove riprenderò e, spero, svilupperò ulteriormente tale tema, ormai cruciale per superare una teoria che resta la più avanzata – guardando cos’altro esiste oggi in giro, mi viene il mal di mare – ma è tuttavia essa stessa irrimediabilmente invecchiata. Desidero invece concludere questo piccolo saggio spezzando una lancia a favore dell’individualismo, un individualismo che, ancora una volta, fu dello stesso Marx; altro che la comunità dell’obščina russa e del suo Mir. Nessuna concessione ad un qualsiasi attacco all’individualismo; non come valore etico supremo di fronte a cui inchinarsi, semplicemente perché è alla fine l’elemento vincente contro chiunque tenti di conculcarlo. Non sono un cultore dell’individualismo, valuto semplicemente la sua funzione di prevalenza. Non ho particolare predisposizione né per la comunità (in specie agraria), con le sue chiusure e il suo micragnoso e mentalmente ristretto “controllo sociale” (ho visto in Italia negli anni ’50 i residui di certe comunità similari …. non importa dove, comunque qualcosa di orrendo, da sentirsi asfissiare); né amo l’individualismo, magari “cosmopolita”, quello delle menti tanto aperte da essere estranee a qualsiasi aggancio ad una realtà qualsiasi, galleggianti nel nulla della “infinità del mondo” (ma di quale mondo, di grazia?!).
11. Torniamo per un momento a come Marx pensava la dinamica del modo di produzione capitalistico e facciamo finta che non avesse commesso l’errore messo in luce negli ultimi anni. Come rilevato, Marx pensava a processi tali di socializzazione delle forze produttive – e non solo materiali (tecnico-organizzative) bensì soprattutto relative alla formazione del corpo lavorativo collettivo – che era ormai pronta la base sociale della nuova formazione (e modo di produzione) verso cui si doveva necessariamente transitare. Se si legge il solito par. 7 del capitolo sull’accumulazione originaria, risulta chiarissimo che tale base sociale è già per Marx in fase di avanzata preparazione; e siamo negli anni ’60 dell’800. Riporto soltanto questo passo (finale del paragrafo e capitolo):
“La trasformazione della proprietà sminuzzata poggiante sul lavoro personale degli individui in proprietà capitalistica [si tratta della prima “negazione” che conduce dalla produzione mercantile semplice al modo di produzione capitalistico; ndr] è naturalmente un processo incomparabilmente più lungo, più duro e più difficile della trasformazione della proprietà capitalistica, che già poggia di fatto sulla conduzione sociale della produzione [sottolineatura mia affinché non si perda questa convinzione marxiana che la base sociale del socialismo è ormai esistente di fatto a quell’epoca; ndr], in proprietà sociale. Là si trattava dell’espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell’espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo”.
Di conseguenza, la stessa rivoluzione, pur necessaria, è vista come relativamente facile, poco violenta e sanguinosa, poiché il frutto è perfino “fradicio”; la rivoluzione, come detto altrove, è “la levatrice di un parto ormai maturo nelle viscere della società capitalistica”. L’unica reale difficoltà, che può esigere l’uso della violenza per rimuoverla, non è il pugno di usurpatori (questi verrebbero “sistemati” con facilità dalla gran massa del popolo produttore, facente parte del corpo lavorativo collettivo), bensì lo Stato che, con i suoi poteri coercitivi (senza i quali non è Stato ma solo organo di amministrazione generale degli affari sociali), difende ancora la piccola accolita di capitalisti/rentier. E’ questo Stato, come si vide nel massacro dei comunardi da parte dei paesi ancora in mano ai capitalisti, ad usare la massima violenza sanguinaria contro la maggioranza del popolo. Il nuovo Stato (di dittatura proletaria) giocherebbe solo sulla “difensiva”, proteggerebbe semplicemente le conquiste di tale maggioranza popolare – già consolidatesi nella base economica (rapporti sociali di produzione) attraverso la socializzazione delle forze produttive e la formazione del lavoratore collettivo cooperativo – contro il pugno di usurpatori e, eventualmente, l’aiuto esterno da questi ricevuto.
Non c’è bisogno di alcun intervento d’autorità per sopprimere il mercato. Questo è il luogo in cui avviene la separazione dei proprietari dei mezzi produttivi fra loro, separazione che è appunto il fondamento della privatezza della loro proprietà e del reciproco conflitto, il quale può svilupparsi – conducendo, nella visione di Marx, alla dinamica capitalistica della socializzazione delle forze produttive già sopra tratteggiata – grazie alla presenza della forza lavoro da acquistare come merce al suo valore (“giusto” prezzo), garantendosi così l’acquisizione del plusvalore senza ledere in nulla la libertà individuale dei lavoratori, senza imposizioni di sorta. Questo luogo della separazione e privatezza doveva entrare per Marx in esaurimento grazie allo sviluppo della base sociale produttiva, non invece venire soppresso da una decisione d’imperio dall’alto, che non potrà mai raggiungere il suo scopo. Come Bettelheim mise in luce (in Calcolo economico e forme di proprietà e ne Le lotte di classi in Urss), la pianificazione, così come attuata nei paesi del “socialismo”, semplicemente soffocava il “mercato” e la separatezza dei “produttori” (imprese in cui potenze direttive ed esecuzione restavano divise), nascondendoli dietro l’apparenza della pianificazione (un simulacro di socializzazione, in realtà un’imposizione da parte di un nuovo gruppo dominante), con l’unico risultato di deprimere ogni competitività ed ogni impulso alla produzione (non quella per fini militari, che riceveva “altre spinte”, di cui il popolo non godeva minimamente).
12. Rileggiamo un passo già citato e che avevo avvertito di tenere presente:
“Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la proprietà capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata [attenti al passaggio!; ndr], ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”.”
Esiste quindi una proprietà individuale che è quella dell’artigiano e che, con la dissoluzione degli ordinamenti corporativi medievali, caratterizza la produzione mercantile semplice. Questa proprietà si perde nella concorrenza tra artigiani, una volta instauratasi la separatezza del mercato, dando origine alla proprietà capitalistica che comunque, già lo abbiamo visto, esige la formazione del lavoro salariato libero. La proprietà individuale ritornerebbe però più tardi a causa della dinamica socializzatrice intrinseca allo sviluppo capitalistico (che nega se stesso; “negazione della negazione”); ma questa volta sulla base della cooperazione e del possesso collettivo. Proprietà individuale, in simile contesto, significa semplicemente libera estrinsecazione della personalità di ogni singolo pur nella collettiva cooperazione. Il produttore, membro del corpo lavorativo complessivo, non è certamente proprietario di un pezzo del macchinario o di uno spezzone del processo produttivo. E’ però individuo libero, non annulla le sue specifiche predisposizioni e prerogative nel nuovo processo sociale di produzione condotto in cooperazione tra “ingegnere e manovale”.
Il comunismo non è mai stato indicato con precisione da Marx, et pour cause, essendo una società soltanto prefigurata, immaginata. Si è parlato di uno sviluppo delle forze produttive talmente alto da poter dare a ciascuno secondo i suoi bisogni, senza più calcolo alcuno del contributo in lavoro (esecutivo e direttivo, semplice e complesso) fornito da ogni singolo produttore. Il tempo libero (liberato da ogni costrizione lavorativa necessaria a soddisfare l’intera gamma dei bisogni) avrebbe rappresentato per ogni individuo la maggior quota del tempo di vita e sarebbe stato dedicato, da ognuno, a quelli che oggi chiameremmo hobbies. Considerazioni generiche, piuttosto diverse da quelle dedicate alla descrizione del socialismo, in quanto prima tappa o gradino del (o fase di transizione al) comunismo. Il socialismo era già prefigurato in quella che Marx definì “negazione della negazione”, nei processi di socializzazione delle forze produttive, materiali ma soprattutto umane, quelle formatesi nell’ambito dei rapporti inerenti al corpo lavorativo collettivo di cui già tanto discusso.
Il processo che avrebbe condotto, secondo l’opinione di Marx, al lavoratore cooperativo – e che ho già descritto, passo dopo passo, a partire dalla separazione del proprietario dei mezzi produttivi dalle potenze mentali (direttive) della produzione, ecc. ecc. – eliminava la necessità della merce forza lavoro (fornita da lavoratori liberi da costrizioni personali), perché non vi era alcun bisogno, all’interno del processo produttivo, che qualcuno (minoranza) si appropriasse del pluslavoro di altri (maggioranza). Il pluslavoro entrava in possesso del corpo lavorativo nel suo insieme. Questo ne era espropriato, solo permanendo lo Stato (coercitivo) nelle mani dei proprietari (semplici rentier), ma l’evidenza dello “sfruttamento” sarebbe stata tale da provocare il rovesciamento di tale Stato. Ne sarebbe emerso quindi, senza più coercizione, il carattere sociale ormai acquisito nella base economica della società. Il mercato sarebbe entrato in fase di estinzione, avendo ormai esaurito la sua precipua funzione: ritrovamento di una merce venduta liberamente e fornitrice di pluslavoro al proprietario capitalista, senza che venisse approntata una sola misura di limitazione della libertà personale a danno di qualcuno, senza rapporti di dipendenza di servi nei confronti di padroni.
Veniva allora ad esaurimento anche il carattere individuale del fornitore del lavoro al processo sociale di produzione nella sua forma cooperativa? Nemmeno per sogno; e proprio per questo Marx parla (nel passo appena citato) di ripristino della “proprietà individuale”, non più a titolo strettamente personale bensì nell’ambito della cooperazione, che sarebbe stata conquista mediata dalla formazione del modo di produzione capitalistico, con la sua dinamica socializzatrice delle forze produttive sopra considerata. Nell’artigianato la proprietà individuale è privata, fondata sul lavoro personale (o della “famiglia”); e viene realmente ad esistenza con la dissoluzione dell’ordinamento corporativo medievale, da cui nasce la separatezza mercantile delle varie unità produttive (di proprietà individuale appunto) e la competizione (concorrenza) fra di esse, fondamentale per lo sviluppo delle forze produttive. Quest’ultimo si accelera con la “prima negazione”, che conduce alla proprietà capitalistica, ma poi viene imbrigliato – sempre nell’opinione di Marx – quando si arriva alla centralizzazione dei capitali, alla separazione tra proprietà e capacità direttive con tutte le conseguenze già illustrate minuziosamente (e che rappresentano, nel linguaggio marxiano, la “negazione della negazione”).
Nel frattempo, le forze produttive si sarebbero andate socializzando, si sarebbe formato il lavoratore collettivo cooperativo, ecc. Pensare che tale processo potesse mettersi in moto e condurre alle conclusioni prospettate (e credute) da Marx senza la mediazione del modo di produzione capitalistico è negare l’intera costruzione marxiana; è dichiarare, fin dal principio, che la sua opera era fallita in toto. Secondo una simile concezione, Marx nemmeno avrebbe compiuto quello che ho denominato (si veda Oltre l’orizzonte, Besa edit.) primo disvelamento: quello relativo all’eguaglianza e alla libera contrattazione tra i possessori di merci che nasconde la diseguaglianza reale dipendente dalle condizioni di appropriazione del plusvalore come profitto capitalistico. Il “Nostro” si sarebbe inventato un comunismo in quanto estrinsecazione dello spirito comunitario degli individui umani; traviato anzi dal capitalismo, ma risorgente dalle comunità contadine di stampo feudale. Nulla di tutto questo. Anche perché per Marx il comunismo non sarebbe mai potuto nascere dalla penuria, bensì dal massimo sviluppo delle forze produttive per soddisfare i bisogni sempre crescenti di una umanità evoluta (culturalmente evoluta), e riducendo al minimo il tempo di lavoro produttivo onde lasciare piena libertà di manifestazione alle caratteristiche individuali dei singoli uomini.
13. E’ quindi evidente che nel socialismo, prima tappa del lungo cammino, la libertà individuale non sarebbe stata affatto conculcata, non comunque nella convinzione di Marx e nella sua previsione relativa agli esiti oggettivamente socializzatori della dinamica del capitale (del rapporto sociale che esso è!). Tuttavia, si sarebbe trattato della libertà in una società di individui, sì cooperanti, ma nell’ambito di un processo sociale di produzione non ancora ridotto ad un tempo infimo della vita personale. In tale processo il singolo individuo avrebbe impiegato buona parte della sua esistenza; in esso avrebbe quindi impegnato le caratteristiche della sua personalità. E Marx non pensava ad uomini buoni e generosi, ma semplicemente a uomini così come sono sempre stati. L’“uomo nuovo” è creazione assai più tarda, tipica dell’ideologia della “costruzione del socialismo” in un paese dove non ve ne erano le possibilità oggettive individuate da Marx (o meglio: che egli credeva di aver individuato nel pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico).
Nell’ambito di quest’ultimo il processo di liberazione degli individui dai rapporti di dipendenza personale aveva “creato” il mercato generalizzato come luogo di nascondimento della (potenzialità di) nascita del profitto capitalistico (il processo produttivo attua poi semplicemente tale potenzialità, non crea il profitto tramite imposizione di rapporti di forza a favore dei “padroni”); ed è nel mercato che si concentra la competizione, anche se questa si riflette poi nei metodi del plusvalore relativo (con aumento della produttività e riduzione di costi e prezzi). E’ quindi su impulso della competizione nel mercato, a causa della necessità di risultare vincitori in esso, che si mette in moto la creatività dei produttori, l’applicazione della scienza alla tecnica, si inventano nuovi prodotti, ecc. Credere però che creatività e invenzione, la stessa “fertilità” dell’applicazione tecnologica, siano processi solo virtuosi, non sollecitati anche da ambizioni individuali, dalla volontà di prevalere, di andare ad occupare quel certo posto direttivo, di “fare carriera”; non legati dunque, e molto spesso, all’utilizzazione di inganni e raggiri, di menzogne e nascondimenti, di costrizioni connesse al ruolo e allo status (a volte anche solo psicologiche), e via dicendo; tutto ciò significa credere in un mondo di fate.
Marx non propalava simili fandonie; del resto propagandate solo da nuovi gruppi dominanti, che se ne sono serviti per i loro scopi, in una situazione in cui non erano minimamente date le condizioni da lui previste. Non era affatto facile accorgersi del “malinteso”, pur se il linguaggio avrebbe dovuto metterci sull’avviso. Si parlò dopo il 1917 di “costruzione del socialismo” (la “prima tappa, ecc.). Si rilegga allora il passo citato del paragrafo 7. Dove mai si accenna ad opere “ingegneristiche”, di “costruzione” di “nuove architetture della società”? Il processo ivi descritto e pensato era di carattere storico-sociale, doveva implicare una dinamica intrinseca di trasformazione di quei rapporti sociali che sono il capitale. La presa del potere statale (e rivoluzionaria senza dubbio) si sarebbe dovuta effettuare per infrangere la resistenza dei capitalisti, ormai estraniati dalla socialità della produzione, che ancora godevano – e adesso sì per imposizione, coadiuvata pure dall’uso coercitivo degli apparati statali – del pluslavoro creato dal lavoratore collettivo.
Quando scoppia la Comune di Parigi, le conclusioni che ne trae Marx (riprese poi da Lenin in Stato e rivoluzione, ma in un contesto del tutto diverso) sono quanto mai nette. Egli pensò alla forma finalmente scoperta dello Stato di dittatura proletaria, che non era già più uno Stato in senso proprio, non più uno strumento di coercizione di una minoranza – ormai esautorata nell’ambito dei processi sociali di produzione; ci si ricordi sempre il passo appena citato in cui Marx parla di socializzazione di fatto nella base economica della società già negli anni ’60, in cui sta pubblicando il primo libro de Il Capitale – sulla maggioranza dei produttori. La Comune, dice Marx, ha sbagliato a non usare la violenza repressiva, ma perché doveva difendersi dall’attacco delle borghesie esterne corse in aiuto di quella francese. Tutta l’organizzazione degli apparati d’essa, vista con estremo favore, è quella di uno Stato che ormai entra in fase di esaurimento, di riassorbimento nella società in quanto suo semplice organo di amministrazione degli affari generali. Altrimenti non avrebbero senso le indicazioni sulla fine della scissione tra lavoro esecutivo e legislativo, sul lavoro di tutti i funzionari dello Stato – compresi quelli che nel vecchio apparato erano i “paludati” parlamentari e i membri del Governo, ecc. – pagato al livello del salario operaio (dei vari membri del lavoratore collettivo, quindi con differenziazioni retributive, non con emolumenti del tutto indifferenziati).
Questo è già uno Stato in via di estinzione, che doveva esercitare obbligatoriamente, a causa della presenza delle borghesie nemiche, le sue funzioni coercitive in modo semplice e diretto, non mediante la nuova costruzione di una complicata struttura dei vari corpi speciali addetti a compiti di aggressione all’esterno, di difesa dei proprietari all’interno, di spionaggio di strati della popolazione supposti pericolosi per la proprietà, con tutto il variegato apparato giudiziario e carcerario, ecc. Malgrado le grandi chiacchiere sui Soviet, quando mai lo Stato dell’Urss è stato di tipo “comunardo”? E meno male che non lo fu, non sarebbe durato più dei due mesi della Comune. Tale fatto avrebbe però dovuto essere esplicitato; non dico nell’immediato, ma nemmeno negato per sempre, e ancora adesso dai pochi dementi che si ostinano a blaterare di comunismo senza mai riflettere su tali problemi.
D’altra parte, quale è stata l’alternativa pensata? Il presunto “tradimento della rivoluzione” (trotzkysmo). Nessun tradimento, invece, solo fraintendimento delle affermazioni marxiane relative sia alla socializzazione della produzione, sia alla classe operaia in quanto operaio combinato e non semplice insieme di lavoratori delle mansioni esecutive o comunque di basso livello, sia allo Stato del tipo della Comune, ecc. Se si fosse tenuta ferma l’analisi di Marx, se si fossero comprese le tendenze che egli vedeva (erroneamente) in atto per il manifestarsi dell’intrinseca dinamica del capitale (in quanto rapporto sociale), se ne sarebbe concluso che in nessun paese capitalistico avanzato, e tanto meno dopo l’affermazione definitiva della formazione dei funzionari del capitale (di matrice americana), i processi storico-sociali avevano condotto nella direzione preconizzata da Marx.
14. Oggi dobbiamo concludere che non era proprio possibile “costruire il socialismo” – quale prima tappa del comunismo o fase di transizione ad esso, oggettivamente data nei suoi caratteri di fondo, pur se attuata ovviamente tramite dati gruppi di portatori soggettivi del processo – in paesi sostanzialmente pre-capitalistici a stragrande maggioranza contadina. Si trattava, e si tratta tuttora pur dopo la fase di industrializzazione, di formazioni sociali diverse. Si può discutere se vale ancora la pena di indicarle come capitalistiche, pur se ne hanno ormai molte caratteristiche; in ogni caso non sono socialiste, non lo sono mai state. Lo Stato ha esercitato funzioni della massima coercizione; e non certo di una maggioranza su una minoranza (di capitalisti). Ci si è a lungo giustificati con la tesi dell’accerchiamento capitalistico dell’Urss; poi con quella del confronto, non diretto ma pur sempre armato e bellicoso, tra campo capitalistico e campo socialistico.
Si è mentito, non si è voluto prendere atto della realtà, e si è perso; giustamente perso, perché si è creata una società non in grado di competere con quella dei funzionari del capitale, una società stagnante, cristallizzata, incapace di sviluppi e trasformazioni dei rapporti sociali. Si è compiuta – e non in tutti quei paesi però, ma nei principali – una vasta opera di industrializzazione, che non è appunto andata nella direzione della formazione di alcun lavoratore collettivo cooperativo, bensì di industrie di tipologia capitalistica. Si è cercato di sopprimere il mercato quando non ne esistevano affatto le condizioni sociali preconizzate (errando) da Marx. Si è creato un “mostro”, con molte potenzialità conculcate, mal dirette, che alla fine hanno condotto alla ben nota “implosione” di quei paesi (dall’interno, senza nemmeno un minimo di dignitosa resistenza) con fenomeni di grave devastazione sociale e politica.
Il non riconoscimento che Marx aveva sbagliato previsioni ha condotto, come appena rilevato, a tentare impossibili “costruzioni socialistiche”. E’ tuttavia necessario affermare recisamente che, perfino se Marx avesse correttamente previsto l’andamento della socializzazione delle forze produttive per dinamica specifica della produzione capitalistica, mai sarebbe stata giustificata una qualsiasi idiosincrasia, e quindi repressione, dello spirito individuale. Ribadisco, affinché non sussistano dubbi, che il rifiuto di qualunque avversione nei confronti dell’individualismo non ha nulla a che vedere con preferenze etiche o di qualsiasi genere. Si tratta semplicemente di valutazione lucida e spassionata della spinta individuale: innanzitutto esercitata in ambito conflittuale nel mercato generalizzatosi con l’affermazione del capitalismo. Nel corso dello sviluppo di tale società, l’impulso alla competizione porta all’affermazione, all’interno delle unità produttive (imprese), del principio del minimax, necessario a ridurre i costi e dunque i prezzi, mezzo considerato fondamentale per prevalere nella concorrenza mercantile.
Secondo Marx, tale processo, che conduce alla centralizzazione dei capitali, avrebbe comportato come già considerato la creazione della base economico-sociale del socialismo, con esautoramento della proprietà capitalistica dalla produzione (e poi dal potere nello Stato). Si sarebbe sviluppata la cooperazione tra i diversi componenti del corpo lavorativo – separati comunque dall’individuale possesso di diverse prerogative, intellettuali e manuali, direttive ed esecutive – con la manifestazione di nuove forme di competizione intersoggettiva. Sussiste in ogni caso l’ambizione all’ascesa personale, alla manifestazione della propria creatività e originalità (non sempre riconosciute con ammirazione dagli altri cooperanti); si afferma la necessità dell’occupazione di posizioni di maggior potere, senza di cui non si realizza quella divisione dei compiti indispensabile alla coordinata conduzione del processo produttivo secondo il già ricordato principio del minimax (efficienza, ecc.). Conculcando la pulsione individuale si arriva anzi a fenomeni di stagnazione e poi degrado della produzione con fenomeni sociali di disfacimento.
D’altronde, la superiorità della spinta individuale, promossa comunque dall’ambizione e dalla volontà di emergere, si constata con evidenza nella capacità di una formazione sociale, in cui essa si manifesta, di sviluppare con maggiore potenza le forze produttive e le capacità trasformative dei propri rapporti sociali. Simili società hanno in genere mostrato l’attitudine a prevalere e ad affermarsi rispetto alle società statiche, “fredde”, con gerarchie consolidate e mai rimesse in discussione, società tendenzialmente stagnanti e impreparate allo scontro. Nel “socialismo” (nelle sue prime fasi di accumulazione accelerata) si è cercato di stimolare artificiosamente l’ambizione individuale con medaglie e titoli, che hanno riguardato però soprattutto i lavoratori delle basse mansioni esecutive. Per quelli investiti di funzioni ben più rilevanti nell’ambito dei processi produttivi – che nel capitalismo godono dei profitti o degli alti emolumenti dei manager, oltre che della soddisfazione relativa alla creazione di condizioni di status assai elevato con forti influenze sugli apparati del potere politico – si sono avute solo ingiunzioni tassative, dall’alto di un potere (pianificatore) estraneo ai problemi della produzione, e “piombo” in quanto “nemici del popolo” quando si riteneva insufficiente il loro impegno.
Per fortuna quel periodo storico è finito, l’inganno della “costruzione socialistica” resta appannaggio di piccole schiere di nostalgici incalliti e di alcuni mascalzoni che sfruttano gli ultimi sussulti di un movimento finito ormai come quello anarchico ottocentesco. Risorgono invece alcune forme non comuniste nel senso marxiano, bensì torbide e pronte a saldarsi con le confuse aspirazioni e ambizioni di pattuglie di individui asociali, finanziate dai gruppi dominanti nell’ambito della loro lotta soprattutto nel trapasso da una fase all’altra della formazione capitalistica. Il comunismo, o il comunitarismo, predicati soprattutto per giovani disadattati e ottenebrati, non ha più nulla a che vedere – se non in stereotipate formule prive di un qualsiasi contenuto realmente conoscitivo – con il vero pensiero comunista, che fu soprattutto quello di Marx. Siamo ormai a fenomeni di disgregazione sociale, che si manifestano nelle epoche di transizione caratterizzate da crisi e acute lotte fra gruppi dominanti capitalistici, con formazione di bande di energumeni utili a tali lotte.
Siamo oggi in un tornante storico del genere e si manifestano i soliti fenomeni disgregativi sia pure in forme nuove. I luddisti furono ampiamente giustificati nelle loro rivolte disperate. Quanto avveniva era un cambiamento mai prima verificatosi; la rivoluzione industriale mutava completamente il rapporto tra il produttore e gli strumenti di ausilio della sua forza trasformativa. Nella sua epoca, Marx ebbe parole di disprezzo per il lumpenproletariat, fenomeno di disgregazione sociale. Oggi, i disadattati sono i figlietti ben nutriti del ceto medio semicolto, prodotto di una prima trasformazione intracapitalistica susseguente alla terza rivoluzione industriale, quella che avrebbe dovuto dar vita alla sopravvalutata società dell’informazione e/o dello spettacolo. Si trattava solo della preparazione a quanto sta avvenendo a cavallo tra XX e XXI secolo, epoca di relativo declino di una superpotenza (attraversata da scontri tra diversi gruppi dominanti nel tentativo di mantenere più a lungo il predominio mondiale) con l’ancora incerto emergere delle potenze che dovrebbero esserle alternative, due delle quali appartengono a quella ancora non ben definita formazione sociale nata dalla speranza del socialismo, frustrata dall’impossibilità di quella rivoluzione prevista da Marx.
CONCLUSIONI
I. So che molti avranno la predisposizione a fraintendere questo saggio. Magari qualcuno dirà: ma non si era entrati nell’ordine di idee di uscire da Marx, perché rispiegarlo con così ossessiva insistenza? Questo piccolo saggio coadiuva l’uscita da Marx – di cui si troveranno ampi schizzi nei cinque libri elencati alla fine – proprio perché segue passo dopo passo l’elencazione delle condizioni di possibilità oggettive della transizione al socialismo in quanto mero prodromo di quella al comunismo. Nello stesso tempo si pone in luce come l’ammissione definitiva, e irrevocabile, dell’impossibilità che si producano tali condizioni non debba affatto condurre alla condanna del 1917 e della storia che da lì prese avvio. Semmai, proprio l’analisi dell’“errore” di Marx (colto con il senno di poi) mi porta a concludere per la significatività delle scelte di Lenin e perfino di quelle di Stalin. Oggi prendo semplicemente atto che non si è trattato di costruire il socialismo. Non ne esistevano le condizioni di possibilità nelle società a capitalismo avanzato; tanto meno quindi si deve sostenere l’edificabilità del socialismo in società come la russa o la cinese, ecc.
Sia chiaro che coloro che, anche con scelte terribili, furono convinti di avviarsi verso la “nuova società” erano a mio avviso in perfetta buona fede; sostenere che fossero dei mentitori, ingannatori del popolo per i loro meschini interessi di potere, è atteggiamento tipico dei reazionari più squallidi e stupidi. Del resto, come esempio, pensate a quei cretini che affermano: “Il Papa è furbo, mica crede in Dio, lo racconta agli altri per l’affermazione del proprio potere”. Sono fessi. I Papi, salvo casi eccezionali, credono in Dio, così come coloro che organizzarono le Crociate erano convinti della necessità di liberare il “Santo Sepolcro”, nelle mani degli “infedeli”. L’ideologia nasconde anche degli interessi, nasce anche dagli interessi, ma è molto difficile perseguirli realmente se non si è certi della propria “missione”. La meschinità dell’epoca attuale, la piccolezza dei suoi “massimi protagonisti”, nasce proprio dal fatto che questi miserabili sanno di mentire, non hanno più nulla in cui credere, sono solo lestofanti di mezza tacca. I “grandi personaggi” della storia hanno spesso (oserei dire sempre) agito con modalità criminali, ma con acuta visione dell’orizzonte da allargare e con la ferma sicurezza della propria funzione e missione.
E’ oggi appunto indispensabile riconoscere come il socialismo fosse oggettivamente impossibile, come dunque siano imbroglioni o quanto meno assai poco preparati quelli che ancora cianciano di socialismo e comunismo, sia per lodarlo che per denigrarlo. Ciò che più mi ha impressionato negli ultimi anni (almeno 15, forse 20) è l’incomprensione di quanto affermato da Marx. Un’incomprensione pure mia propria, per cui la critica contro le deformazioni fatte subire a tale pensatore è nel contempo un’autocritica. E se uso a volte espressioni accese contro chi lo deformò, tali espressioni sono dirette pure a me medesimo. Nutro tuttavia un di più di acredine contro coloro che insistono nell’incomprensione; a questo punto, stento a considerarli in buona fede. E, se lo sono, non riesco a pensarli come dotati di sufficiente intelligenza, malgrado la prosopopea con cui tranciano giudizi da trogloditi, facendosi passare per fini intellettuali.
Non ce l’ho con i filosofi, ma con quelli che, attribuendo alla filosofia il raggiungimento della Verità, trattano Marx da filosofo. Einstein e Heisenberg (e altri) si sono dilettati nel civettare con la filosofia. Questo non autorizza nessuno a giudicarli dei filosofi invece che dei fisici; e a emettere giudizi, che siano critici o entusiastici poco importa, su tali autori in quanto filosofi invece che scienziati. Io non mi metto a fare alcuna graduatoria tra scienza, filosofia, arte e letteratura, ecc. Comunque per me Hegel non è uno scienziato, Tolstoi e Balzac non sono filosofi; e nemmeno Marx lo era. Quando divenni comunista, lessi, in certi casi conobbi, i Galvano Della Volpe (e il sedicente “rinnegato” Colletti), i Luporini, i Badaloni, i Geymonat, ecc. Avevano letto molto di Marx e sapevano che era il fondatore della “Critica dell’economia politica”; ognuno di loro pensava fosse soprattutto uno scienziato. Dopo l’innominabile ’68, è invalso l’uso di trattarlo o da “critico della teoria economica” (paradigmatici gli “sraffiani” o “neoricardiani”) o da filosofo (meglio se dell’alienazione). Una pura e semplice vergogna; che investe però solo i nuovi “grandi pensatori” pseudomarxisti, alcuni dei quali si erano limitati a leggere il “Frammento sulle macchine” (Grundrisse), altri i “Manoscritti economico-filosofici”. Un insieme di “geni”, che hanno imperversato fino a questi anni distruggendo Marx e dunque il marxismo.
Non si può uscire utilmente da un autore se non lo si conosce, se si deforma completamente il suo pensiero. Quindi lo scritto che ho appena vergato è proprio indispensabile ad uscirne. Chiarisce la grandezza di Marx (non in tutti i suoi aspetti, è chiaro, altrimenti avrei dovuto scrivere un volumone di alcune centinaia di pagine), ma lo tratta da scienziato che ha formulato alcune previsioni in base ad un’analisi precisa non tanto del capitalismo nel suo complesso quanto del modo di produzione capitalistico che ne costituiva, per lui, l’anatomia e fisiologia essenziali. Egli affermò con estrema nettezza, in ciò dimostrando appunto la sua consapevolezza d’essere uno scienziato:
“Il fisico [vi piace a chi fa riferimento, o pasticcioni sessantottini e successivi?; ndr] osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, la loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria [avete capito chiacchieroni inconcludenti? Marx sceglie l’Inghilterra quale luogo in cui certi processi “si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori”; questo è appunto spirito scientifico al 100%, che può, anzi deve, incorrere in errori, ma è nel contempo adeguato a ripensarli e correggerli; ndr.]. Ma nel caso che il lettore tedesco si stringesse farisaicamente nelle spalle a proposito delle condizioni degli operai inglesi e dell’agricoltura o si acquietasse ottimisticamente al pensiero che in Germania ci manca ancor molto che le cose vadano così male, gli debbo gridare: De te fabula narratur!” (Prefazione a Il Capitale).
Mi astengo da ulteriori commenti sia per la chiarezza del testo sia perché, altrimenti, dovrei usare espressioni dure verso coloro che cianciano di Marx; sia apologeti (pochi) sia critici (tanti). Avverto solo i lettori che questo mio scritto non è diretto esclusivamente a chi pretende di conoscerlo e lo presenta invece come un indigesto fabbricante di utopie, ma ancor più a quelli che lo vogliono far passare per una sorta di precursore del “gulag”, ecc. E’ bene che finalmente s’impari Marx. Non certamente per restare ancorati alle sue teorizzazioni. Queste ultime delucidano però alcuni punti qualificanti.
II. Marx non è anti-individualista, non chiede l’annullamento dell’individuo nella comunità dei produttori associati. Conosce invece bene la funzione indispensabile dell’individualità, e della stessa conflittualità interindividuale, per lo sviluppo sociale. Nemmeno però crea il culto dell’individuo alla moda liberale. Più semplicemente prende atto – da scienziato – che le società in cui l’individualità spicca, anche in un conflitto con altre, manifestano alla fine forza superiore in quanto sviluppano maggiormente le potenzialità produttive e conoscono più intensi e frequenti processi di trasformazione, che non sono semplicemente distruttivi, anzi coadiuvano appunto la maggiore potenza. Alla fine, quindi, queste società prevalgono.
Per Marx il capitalismo, a causa dei processi che ho descritto passo dopo passo, avrebbe conculcato infine proprio la personalità dei produttori riuniti nel corpo lavorativo collettivo (riuniti ma non annullati in esso, esaltati invece nelle loro capacità individuali); solo il socialismo avrebbe liberato la forza produttiva di queste individualità in cooperazione competitiva (perfino conflittuale più spesso di quanto non si dica). Il fatto che i paesi del “socialismo reale” fossero ormai cristallizzati e stagnanti mentre il capitalismo, pur tra crisi, arresti e ripartenze, ha mostrato ben maggiore vivacità, ci segnalava già da molto tempo dove stava l’errore di prospettiva dello stesso Marx, ma soprattutto di coloro che avevano preteso di “costruire” il socialismo (che non è opera ingegneristica o di organizzazione di “falansteri”). Basta con le sciocchezze secondo cui Reagan ha stroncato il socialismo imponendogli un di più di spese militari. Ecco dove ha portato l’assoluta ignoranza sia di Marx sia dei suoi seguaci, che hanno svisato proprio la questione principale da lui posta, quella del “soggetto rivoluzionario”, dimostratasi in tutta evidenza un errore di previsione di chi resta comunque un grande scienziato (non un predicatore dell’utopia, come sono certi suoi meschini commentatori!).
In secondo luogo, Marx non era affatto uno statalista, non aveva predisposizione per il Leviatano. Lo Stato, così come noi l’abbiamo sempre conosciuto, e ancora lo conosciamo, doveva essere abbattuto in quanto supposto strumento della classe dei proprietari divenuti rentier, ostacolo all’impetuoso sviluppo delle forze produttive socializzatesi, in particolare con la formazione del lavoratore collettivo cooperativo. Lo Stato detto di “dittatura proletaria” avrebbe svolto, se si fossero realizzate le previsioni marxiane relative alla dinamica del capitale, la funzione soltanto transitoria di impedire il ritorno al potere della borghesia, ormai assenteista in termini di processo di produzione; alla fine dell’espansione mondiale (progressiva e non tutta d’un colpo) della rivoluzione “proletaria”, con il pieno fiorire del corpo lavorativo collettivo, lo Stato (organo di coercizione e repressione) si sarebbe estinto lasciando il posto ad un semplice insieme di apparati addetti alla gestione degli affari generali della società.
Comprendere tale concezione realmente marxiana significa capire – a dir la verità ci abbiamo impiegato un bel po’ di tempo – che il socialismo non semplicemente non è stato realizzato, ma nemmeno si poteva impostare la presunta transizione ad esso; ne mancavano i presupposti essenziali. L’imposizione dall’alto, dal potere di un organo statale pienamente dotato di apparati coercitivi, e assai robusti e pervasivi, non era esattamente sintomo di una simile transizione. Si deve però anche capire che non vi è stato alcun tradimento della rivoluzione socialista; semplicemente non ne esistevano le condizioni, così come del resto non si sono andate formando nemmeno nelle società del capitalismo detto avanzato, che ha poi conosciuto forme di sviluppo diverse da quelle inglesi studiate da Marx. Egli sbagliava a “gridare” agli operai tedeschi: de te fabula narratur. Se poi avesse conosciuto i rapporti sociali del capitalismo americano, quell’urlo sarebbe stato quanto mai stonato.
Va però affermato con forza che la Rivoluzione d’ottobre è stata comunque l’evento forse maggiore del XX secolo; essa ha realmente cambiato il decorso storico e, per quanto mi riguarda, sono ad essa del tutto favorevole, perfino più favorevole di quando pensavo che si fosse trattato dell’inizio di una rivoluzione in direzione del socialismo, poi abortita. Nessun aborto invece. Si è trattato di un evento che ha indubbiamente messo in moto processi di ri-strutturazione dei rapporti sociali, di cui ancor oggi non è stato individuato, con precisione effettivamente scientifica, il decorso né quali altri sviluppi e trasformazioni ci saranno. Un po’ più comprensibile appare invece la nascita della formazione dei funzionari del capitale, di matrice appunto statunitense, che ha poi influenzato tutto il mondo detto “occidentale” (comprendente pure il Giappone). Tuttavia, siamo molto in arretrato nell’analisi della società ancora detta genericamente capitalistica; in particolare di quella emersa dopo la seconda guerra mondiale. Ci si è fermati al più piatto economicismo, senza gran che analizzare le forme sociali oggi esistenti.
III. Almeno Marx aveva chiaro in testa che il capitale non è cosa ma rapporto sociale, quel rapporto che ho tentato di delucidare in questo mio scritto. Oggi, una massa di incompetenti continua a coltivare la semplicistica idea del dominio “diabolico” del capitale finanziario, soprattutto nella sua veste di organismi presunti transnazionali. Siamo al pieno infantilismo, all’obnubilamento di ogni possibile indagine relativa all’organizzazione e intreccio dei diversi rapporti tra gruppi dominanti e tra raggruppamenti sociali, che costituiscono l’intelaiatura delle diverse società. Abbiamo da percorrere un lunghissimo tratto di strada per tornare in possesso di una conoscenza paragonabile a quella di Marx, sia pure approssimativa ma comunque stimolante. L’inizio era stato ottimo, ma si è via via guastato strada facendo. Marx è stato trasformato da scienziato in predicatore, in profeta, in incallito utopista.
Ci si deve intanto liberare dalle macerie del socialismo e comunismo. Coloro che ancora usano tali termini non hanno evidentemente mai compreso a fondo l’analisi marxiana. Non si può procedere oltre senza una radicale bonifica; poiché i nomi, una volta divenuti puri suoni privi di contenuto, hanno effetti fortemente deleteri bloccando ulteriori ricerche. Soprattutto, s’impedisce così di seguire l’evoluzione delle formazioni sociali nate da una rivoluzione che non fu socialista, eppure quanto mai radicale e con effetti mondiali di enorme rilevanza. I comunisti, ormai completamente ignari del significato di tale termine, sono divenuti perfetti reazionari, bande di complemento delle parti peggiori dei dominanti, quelle dei subdominanti al servizio dei gruppi in conflitto nella formazione particolare (paese) ancor oggi preminente, pur se in relativo declino. Si autoproclamano comunisti, o come minimo progressisti, ma sono in realtà i “vandeani”, e come questi devono essere trattati. Bisogna seppellirli perché sono cadaveri in aperta decomposizione.
Marx deve tornare ad essere una pietra miliare nello sviluppo di una teoria delle formazioni sociali, che deve proseguire oltre di lui, ma con lui facendo i conti. Non ignorandolo o ancor peggio deformandolo con lo spirito di tutti i vigliacchi che tentano di svirilizzare un pensiero rivoluzionario sia criticandolo sia invece elogiandolo; ma sempre falsificandolo e diffondendone una versione ridicolizzata. Si torni a comprenderlo, preparando il terreno per un ulteriore e decisivo avanzamento. La degenerazione è stata tuttavia assai grave ed è durata ben oltre un secolo; pensare di rimediarvi in pochi anni è ingenuità massima.
Non si pensi dunque che questo mio scritto sia un ritorno ad una inutile filologia marxiana. Vuol invece far vedere insieme la grandezza, l’incisività di un pensiero scientifico e i suoi limiti dopo la lunga esperienza storico-sociale successiva alla sua formulazione. In ogni caso, la scienza deve esplicare effetti riduttivi della complessità del reale per servire a qualcosa. E’ necessario insomma raggiungere l’essenziale, costruire una struttura di rapporti, che consenta l’individuazione di certe tendenze del tutto impossibili da cogliere – sia pure tramite ipotesi sempre rivedibili – qualora si pretenda di riprodurre la complessità del mondo reale. Quest’ultimo, del resto, non ha struttura, è continua fibrillazione di “materiale” apparentemente informe. Credere di poterlo conoscere così com’esso è realmente, significa essere semplici pasticcioni, confusi pensatori incapaci d’ordine mentale. Solo l’artista può farlo intuire nelle sue sfumature, illustrandone però solo un pezzo, tramite cui si tenta di rappresentare l’insieme.
Si abbandonino, per favore, i “ritardatari”; si è già perso troppo tempo. Non lo si recupererà certo facilmente. Mi sembra anzi che ne manchi complessivamente la volontà. Tutti si fermano al più facile, allo sproloquio antiscientifico. I “migliori” si trincerano dietro discorsi tecnici che servono per piccoli tratti di strada; e quando questa non è tortuosa. Appena si presentano strette curve, rigide impennate, la tecnica si trasforma in mera ideologia di nascondimento dei problemi. Dobbiamo riaffrontarli con tutt’altro spirito. Io mi limito a quello scientifico, quello di Marx. Non sostengo sia il solo, ma è quello intanto fondamentale per afferrare i processi che investono le società odierne. Per il momento siamo in mano ai chiacchieroni o ai tecnici. Così restiamo in posizione di stallo; muoviamo intanto i primi passi.
Finito il 20 ottobre 2011
BIBLIOGRAFIA PERSONALE ESSENZIALE
Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma 2006
Finanza e poteri, “ “ 2008
Tutto torna ma diverso, Mimesis, Milano 2009
Due passi in Marx (per uscirne), Il Poligrafo, Padova 2010
Oltre l’orizzonte, Besa editrice, Lecce 2011