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“Su per balze e in anfratti” dell’Appennino alessandrino

Creato il 27 luglio 2010 da Fabry2010

Articolo di Marco Grassano
(da Alibi Online)

Su per balze e in anfratti d’una solitudine dura
su valli deserte ormai
se non per l’attraversamento orizzontale e infinito
di farfalle…
(Attilio Bertolucci)

L’Appennino è forse, almeno col sereno, la parte più bella della Provincia di Alessandria; senz’altro, è la più incontaminata, più ricca di biodiversità. Per questo ci si è permessi di denominare questa porzione di territorio Appennino piemontese, così come esiste l’Appennino emiliano di Bertolucci. Si è però ben consapevoli che la cultura e la Storia lo legano alla Liguria. Di ceppo ligure sono i dialetti che si parlano in Alta Val Curone, in Val Borbera e fino all’Ovadese. “Ligure” è aggettivo che contraddistingue la toponomastica, in molte località (Cantalupo Ligure, Cabella Ligure, Carrega Ligure…). Liguri erano le popolazioni, anche da prima della colonizzazione romana.
Ecco cosa annota lo storico ellenistico Diodoro Siculo, verso il 40 a.C.: “Abitano i Liguri un suolo aspro, ed affatto sterile; e vivono una vita dura e miserabile tra le fatiche e le molestie continue di pubblici lavori. Perciocché essendo il loro paese montuoso e pieno d’alberi, gli uni di essi tutto quanto il giorno impiegano in tagliar legname, a ciò adoperando forti e pesanti scuri; altri che vogliono coltivar la terra, debbono occuparsi in romper sassi, poiché tanto è arido il suolo, che cogli istromenti non si può levare una zolla, che con essa non si levino sassi. (…) Essi poi si danno spesso alla cacciagione, e trovando quantità di selvaggiume, con esso si risarciscono della mancanza delle biade; e quindi viene, che scorrendo per le loro montagne coperte di neve, ed assuefacendosi a praticare pei più difficili luoghi delle boscaglie, indurano i loro corpi, e ne fortificano i muscoli mirabilmente.” (Biblioteca storica, volgarizzamento del Cav. Compagnoni, Tomo II, Libro V, Cap. XVI, Sonzogno, Milano, 1820).

I Liguri si scontrarono (e in parte si fusero) con i Galli, dando vita a una popolazione celto-ligure. Furono coinvolti (fornendo truppe sia ad Annibale che a Roma) nelle guerre puniche; all’epoca molti erano mulattieri, attivi nel trasporto delle merci fra i due versanti appenninici; la loro alimentazione si basava prevalentemente sulla castagna (come del resto succedeva ancora in anni non remoti); i castagneti fornivano anche legname da costruzione e foglie per il concime e le lettiere degli animali; al di sopra dei castagneti, gli alpeggi per il bestiame, con le stalle e le baite per la preparazione del formaggio di ovini e caprini (eccellente è, ancora oggi, il Montebore). I Liguri dell’interno, grazie alla congenialità del terreno, furono gli ultimi a essere assoggettati, sotto Augusto. L’imperatore organizzò quindi il territorio della Regio Augustea IX, il cui centro principale era Dertona (l’attuale Tortona), ma che comprendeva anche Acqui Terme (Aquae Statiellae, così chiamata perché città termale in territorio dei Liguri Stazielli); la via Postumia arrivava fino a Libarna (Serravalle Scrivia) e a Tortona, col prolungamento della via Iulia Augusta fino ad Acqui, da dove la via Aemilia Scauri scendeva a Carcare e a Vado. Oltre a queste direttrici ufficiali, scendevano a ventaglio dall’Appennino le cosiddette “vie del sale”, il cui tracciato seguiva le dorsali e veniva preferito ai percorsi di fondovalle perché questi erano più insicuri e spesso inagibili a causa degli eventi meteorici. Con la crisi dell’impero, la regione venne occupata, in successione, sia dal Longobardi che dai Franchi, nonostante il sistema di segnalazioni ottiche da torre a torre che collegava i vari oppida (le cui tracce sono ancora presenti sul territorio, com’è il caso del “castello” di Dernice o di quello di Carrega Ligure). Nel 950, il re Berengario I d’Ivrea la divise nelle tre marche Arduinica, Aleramica (Alto Monferrato, Acqui e Vado) e Obertenga (Genova, Tortona e Piacenza). Questo nuovo assetto amministrativo-militare consentiva il rifluire della maggior parte del traffico commerciale tra la pianura padana e Genova attraverso le vie “cabanere”. Dopo il Mille, con l’imperatore Ottone I, si affermarono, anche qui, le signorie; a partire da questo momento vennero edificati alcuni tra i più bei castelli dell’Appennino, come Casaleggio, Lerma, Mornese, Tagliolo, Borgo Adorno.

Il dominio genovese si estendeva fino a Ovada, a confinare coi Signori del Monferrato: Genova si assicurò il transito sulla vecchia via Postumia, il valico dei Giovi e Voltaggio, e acquistò dai Signori di Gavi la rocca del Passo della Bocchetta. Nel XV secolo, Garbagna, la Val Curone e una parte della Val Borbera erano feudo dei Fieschi; il resto della Val Borbera faceva parte del feudo degli Spinola; Novi, Serravalle Scrivia e Gavi erano possedimento del Comune di Genova; Carrosio, Silvano d’Orba, Ovada, Ponzone, Spigno ed Acqui appartenevano invece ai Malaspina. I boschi appenninici fornivano carbone (la carbuneina è stata fino alla metà del secolo scorso una delle caratteristiche della vita rurale sulle nostre montagne) e legname per alimentare il fuoco delle fornaci dove si lavorava il ferro dell’Isola d’Elba, ma anche per i cantieri navali liguri (rovere e pino per gli scafi, faggio per i remi): la cosa provocò il disboscamento di molte parti del territorio, non del tutto rimediato nei periodi successivi. Nel 1557, tra i galeotti buonavoglia (cioè rematori di mestiere, stipendiati) di Genova, tre risultavano essere di Novi, tre di Gavi, due di Voltaggio, due di Ovada e uno di Parodi. Successivamente al 1575, col nuovo stato genovese “post Andrea Doria”, Novi divenne Podesteria Maggiore e Gavi, Ovada e Voltaggio Podesteria Minore. Con la guerra del 1617, le truppe franco-piemontesi occuparono Acqui e Novi, arrivarono ad Ovada e conquistarono, temporaneamente, Gavi e Voltaggio. Alla fine del ‘700, un gruppo di giacobini piemontesi tentò invano di suscitare una ribellione nello stato sabaudo e, fuggendo sull’Appennino, si asserragliò a Carrosio – borgo piemontese in territorio genovese – con l’ausilio della guarnigione repubblicana ligure insediata nel forte della vicina Gavi. Dopo la Battaglia di Marengo, l’intero territorio fu ricompreso nella Repubblica Cisalpina, poi divenne parte del Regno d’Italia e alla fine fu annesso all’impero francese. Caduto Napoleone, il Congresso di Vienna, per volontà espressa del Metternich, assegnò tutta l’ex Repubblica di Genova, territori oltreappeninici compresi, ai Savoia; l’annessione avvenne a far data dal 7 gennaio 1815. Con lo Stato unitario, e l’organizzazione in Province, i territori che ci interessano divennero parte della Provincia di Alessandria.

Guardando all’oggi, nulla di significativo è cambiato, in più di due millenni, rispetto alle annotazioni di Diodoro Siculo: i boschi crescono fitti, e sono pieni di animali d’ogni tipo, ma il terreno non concede molto più di un frumento stentato, di erba medica e di qualche patata (un mio recente tentativo di seminare fave e piselli – proteine vegetali – ha reso solo pochi baccelli contorti e semivuoti). Si potrebbero tuttavia sperimentare per il futuro “altre agricolture”: piante aromatiche (lavanda, timo…) e frutti di bosco (in ogni riva di sentiero, o campo abbandonato, si trovano rovi da more – Rubus ulmifolius – rigogliosi e carichi di frutti, mentre una prateria di mirtilli – Vaccinium myrtillus e V. gaultherioides – tende a svilupparsi spontanea sui prati di vetta del monte Giarolo, non più adibiti a pascolo, come stato preparatorio al ritorno del bosco di faggio). Gli inverni sono ancora duri, anche nei borghi che in estate si presentano come “perle” turistiche: “la luce del giorno è un barlume da cantina”; “la neve cade così fitta da diventare nera”, come scrive Jean Giono. Paolo Rumiz ha raccolto, a Masone, questa massima: “Solo chi conosce la pioggia capisce il valore del sole”. Si comprende allora perché l’Appennino piemontese è da sempre terra di emigrazione, in Argentina, Stati Uniti, Canada o, più semplicemente, verso i centri abitati della pianura padana o della costa ligure. Da molti paesi si scendeva ogni anno a fare la campagna del riso. Il Comune di Carrega contava, nel 1861, 3.292 residenti censiti, ridotti all’attuale centinaio, con intere frazioni abbandonate. Eppure a volte accadeva qualcosa di sorprendente: famiglie provenienti dalla Svizzera italiana, in transito per imbarcarsi a Genova, trovavano nell’aria o nel paesaggio qualcosa che le induceva a fermarsi. È il caso, nel tardo Ottocento, dei Guggiari, stabilitisi prima a Mongiardino e poi in frazione Riarasso di Gremiasco.
Perché, dunque, visitare l’Appennino piemontese, o magari viverci? Perché l’ambiente e l’aria non sono contaminati come in pianura e per la ricchezza di biodiversità, come dicevo all’inizio. Ma anche perché, sui versanti esposti a meridione, si può godere di una luce spesso unica, dell’infinita declinazione dei verdi (dopo primavere particolarmente piovose, come quella appena trascorsa), del lento trascolorare sul paesaggio delle stagioni, e si possono osservare gli effetti del tramonto che rendono le pendici delle montagne circostanti un sontuoso velluto viola. E poi perché dalla vetta di alcuni dei nostri monti (l’Ebro, il Chiappo…) si può scorgere, nei giorni limpidi, il mare, come annotava già nel Settecento il cartografo sabaudo Ing. Bergonio. Su noi dell’entroterra, per quanto poco propensi alla “bieca balneazione”, la vista del mare produce un effetto analogo a quello sperimentato dai soldati di Senofonte giunti sulla cima del monte Thékes: “A mano a mano che i sopraggiunti, ansimando per la corsa, si uniscono a quelli che sono già in cima e gridano, lo strepito aumenta per l’aumentare del numero delle persone. (…). Non hanno compiuto molte falcate, che sentono i soldati gridare: ‘Il mare! Il mare!’, e li vedono fare ampi gesti di richiamo. (…) Tutti, anche gli animali, sono sulla cima in vista del mare: ciascuno getta le braccia al collo del vicino, senza distinzioni di grado, mentre dagli occhi di tutti scendono lacrime di gioia irrefrenabili.” (Anabasi, Libro IV, Cap. VII). Una simile commozione mi è stata raccontata dall’amico Mauro Cattaneo, che un giorno, giunto in Vespa sopra uno dei nostri valichi, ha notato all’improvviso, all’orizzonte, una lineetta che pareva sospesa a mezz’aria e, guardando con più attenzione, ha capito che si trattava di una nave. Auguro a tutti i lettori di sperimentare, sull’Appennino, emozioni del genere.



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