Ovvero: nell’era del digitale la confusione è grande. Sempre secondo me, sia chiaro.
Il dibattito su cosa sarà del libro cartaceo non è interessante, a meno che non si voglia occupare il tempo, proprio e altrui, con aria fritta. Mi pare invece degno di una maggiore attenzione quello che si dice a proposito delle storie. Quindi dell’opera, esatto.
Si dice che grazie al Web avremo nuove forme d’arte che avranno un vigoroso impatto sulla narrativa, cose mai viste prima, insomma. È probabile, purché sia chiaro un concetto che non scorgo (quasi) mai in questo tipo di riflessione.
Vale a dire: l’arte non è per tutti, spiacente. Lo so, è antidemocratico eccetera eccetera, ma pure il genio e il talento sono per pochi. Certo, siamo tutti curiosi di vedere cosa accadrà alla narrativa tra cinque anni, e nessuno è in grado di prevedere adesso cosa ci sarà. Però la mia impressione è che si parli di un argomento senza rendersi conto che la narrativa non è un prodotto come gli altri.
Affermare che l’opera è un problema, perché vive in un mondo tutto suo, significa avere scarsa dimestichezza con la narrativa, sul serio. È una concezione vecchia, che mi fa orrore perché è la stessa che infarcisce la testa di tanti esordienti. In troppi sono persuasi che chi scrive viva chiuso da qualche parte, in una dimensione parallela dove accedono solo le Muse (con la maiuscola, mi raccomando), e salutano con gioia la possibilità di “aprire” il mondo dell’autore affinché sia investito da una nuova ondata di creatività.
Un autore inventa, non crea, ma lasciamo perdere.
Se esiste qualcosa di aperto, anzi spalancato, pulsante, in movimento e vitalissimo, è proprio la narrativa. È proprio l’autore e il suo mondo. Se c’è qualcuno che avrebbe bisogno di uscire dalla realtà, prendersi una vacanza, è proprio chi scrive. Costui ci vive talmente immerso da soffocare.
Quello che mi lascia perplesso, per usare un eufemismo, è che tutto questo viene eclissato. La narrativa o parla di arte oppure è chiacchiera inutile; o ha una tensione verso qualcosa che sta altrove, oppure è più eccitante un panino in un fast food. Ed è appunto l’ideologia del cibo pronto e preparato uguale per tutti, che dalle cucine è uscita e cerca di imporsi a tutto e a tutti. Con grande successo, occorre riconoscerlo.
Chi scrive non è una persona come le altre, magari con più tempo a disposizione e la conoscenza degli strumenti del Web. Niente di tutto questo. Ha un talento, punto. Disconoscere questo, come si cerca di fare, significa finire a lavorare per le cucine del fast food. Perché siamo tutti uguali, e tutti possiamo mettere mano all’opera e…
No.
Innanzitutto perché esiste un individuo con un talento e una voce unica. Questa è imperfetta, eppure non inficia il valore dell’opera. Il “Moby Dick” ha una valanga di difetti (una valanga no, ho esagerato), però è un capolavoro. Non ha senso dire che andrebbe scritto così e cosà. Come? È un’opera del passato e non vale come esempio? Benissimo.
Il punto non è né il passato, né l’opera: ma l’autore. Solo lui ha la parola definitiva su quello che scrive (lo so, esiste l’editor), e basta.
Mi rendo conto: l’ideologia della cucina fast food non crede che ciascuno sia unico, e contenga qualità non replicabili. Scorge la minaccia perché il prodotto che propone, l’omologazione, rischia di restare invenduto. Se viceversa annienta le barriere e proclama che tutto è arte, e tutti possono qualunque cosa, si garantisce il successo. La sopravvivenza.
Solo Dostoevskij poteva scrivere “L’idiota”. E appare un’opera trincerata in se stessa, sganciata dalla realtà solo perché si vive in una realtà distorta, dove scrittura e narrativa hanno senso solo se vanno a braccetto con l’impegno. Oppure, se si riconosce al lettore di poter diventare autore solo perché ha i mezzi e un’idea, e quindi anche il diritto di rendere più aperta un’opera.
Niente da fare. Non c’è nulla di male nell’affermare che lo scrittore russo era superiore ai suoi lettori. A meno che non si faccia parte del felice esercito dell’omologazione, che detesta tutto quello che esce dalla consuetudine perché svela la profondità, il mistero dell’essere umano.