Ogni volta che sento una notizia di questo tipo, mi coglie una certa tristezza.
Mi viene da pensare a quella persona che non ce l’ha fatta perché, indipendentemente dal risultato raggiunto o meno di togliersi la vita, guardo ad un individuo che tenta di togliersi la vita come a qualcuno che non ce la fa.
Penso al suo sconforto, o magari al disprezzo che deve provare per sé stesso. Provo ad immaginarmi quanto possa sentirsi colpevole per qualcosa (molto spesso ben più semplice da risolvere o da confessare), o quanto in totale empasse, al punto da non riuscire nemmeno ad immaginare una via d’uscita dal suo personalissimo vicolo cieco.
Quasi sempre le situazioni legate al suicidio lasciano in chi resta un senso di vuoto che va oltre l’assenza che si crea. Un vuoto che si lega al tempo prima, quello trascorso ancora insieme alla persona; con tutto il corredo di “se avessi fatto… detto…. pensato….” che rende ancor più concreto lo strazio dei famigliari e degli amici.
L’ISTAT calcola che dal 1993 al 2010 la mortalità per suicidio è diminuita notevolmente nel nostro paese, passando dal 8,3 al 6,7 per centomila abitanti. Questo dato, sempre secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, ci colloca ad uno dei livelli più bassi tra i paese di area OCSE. E almeno qui, abbiamo la sensazione di essere produttivi piuttosto che in deficit.
Resta però il dato di realtà umana che va oltre la statistica e che rende egualmente agghiacciante pensare che, anche solo 6,7 persone ogni centomila, muoiano suicidandosi. Ossia sentendosi sole, disperate o vedendo la propria realtà in modo completamente patologico e stravolto.
Tra questi troviamo che gli uomini sono più frequenti delle donne (3:1) e che, in maggioranza, i suicidi si correlano a livelli d’istruzione medio bassi e ad un’età superiore ai 45 anni.
Ma questa, ripeto, è la statistica. La fredda e pura rilevazione dei dati ottenuti al momento della rilevazione della causa di morte, compito triste quanto doveroso, del sanitario capitato a portare soccorso in quell’occasione. Le persone, le loro storie restano sullo sfondo dei numeri che però non vanno ignorati per poter capire meglio e quindi prevenire.
Diventano quindi importanti categorie come la solitudine, il sostegno emotivo, la buona relazione interpersonale e la resilienza personale (capacità di far fronte agli eventi della vita). E diventa quindi importante capire quanto valga imbastire la vita su condizioni sane di comunicazione, su attività che a lungo termine diano soddisfazione a ciascuno, su relazioni trasparenti e sulla disponibilità a mettersi in gioco; il tutto per evitare rigidità e solitudini che possano ferire, allontanare, farci sentire abbandonati e soli.
Il suicidio è l’azione di rivolgere la morte contro la propria stessa vita e quindi immaginiamo quanta disperazione possa provare chi giunge a tanto. Senza giudicare perciò, proviamo ad ascoltare col cuore: sia dentro di noi che attorno a noi. Sapremo sentire le grida di aiuto che le nostre orecchie e i nostri occhi non sanno sentire e vedere almeno per 6,7 volte ogni centomila persone che incontriamo.