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Sul Castello Di Fanes – la penna di Beccodoro

Da Fiaba
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Lunedì 07 Marzo 2011 22:14 Scritto da filippo

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Dopo le avventure di Nebbianera e della “chiave dei desideri”, i nostri eroi: Greta, Costanza e Federico, tornarono alla Scuola di Magia che si trovava sotto la grande quercia degli Gnomi Verdi, proprio vicina al Lago del Sapere Occulto. Le lezioni si svolgevano in ampie sale illuminate dalle lampade della conoscenza che non esaurivano la loro energia perché alimentate dai pensieri degli studenti. Quando il pensiero vacillava per disinteresse, scarsa attenzione o noia, anche la luce veniva meno e il Prof. di turno capiva che era il momento di sospendere la lezione.

Era un metodo infallibile perché la lezione fosse fruttuosa e l’energia gratuita. Studiare è faticoso se manca l’interesse: le formule magiche da imparare a memoria sono noiose ma indispensabili per diventare un buon mago, ma la memoria è come un prezioso scrigno che digerisce i tesori della conoscenza adagio adagio nel tempo: troppe notizie rischiano di causare un imbarazzo digestivo o addirittura di esondare dal forziere mettendo in crisi la reperibilità dei file. Per questo il vecchio Phlippus, che insegnava “difesa dalle arti oscure “, pensò bene di interrompere le dotte dissertazioni e comunicò agli studenti del corso di Magia Applicata, che la seconda parte della lezione si sarebbe svolta all’aperto. Tra le grida di gioia irrefrenabile, tutti gli allievi maghetti corsero verso la luce naturale  del sole che inondava i prati e faceva splendere le acque del lago del saper occulto.

L’esercitazione consisteva nella conquista di una penna dell’ala di Beccodoro, una splendida Aquila Reale che aveva costruito il suo nido sulla parete sud della cima di Fanes.

Furono forniti scarponi, caschi, giacche a vento, corde, moschettoni, cordini di assicurazione e poi tutti, maghi e maghetti, salirono sulla spaziosa groppa del Drago Sputafuoco che con pochi possenti colpi d’ala si levò alto nel cielo, sfrecciando poi verso le cime dei monti che fanno corona al gruppo di Fanes.

Che spettacolo ragazzi! Non c’erano nuvole a turbare la luce dei monti: alle pianure verdi si alternavano colline sempre più scoscese e infine apparvero le guglie eleganti delle Dolomiti, disegnate con grazia contro il cielo turchino. Superata la bianca distesa del ghiacciaio della Marmolada, ecco la Civetta, il Pelmo, l’Antelao, il Sorapis il Lagazuoi, le Tofane e infine la meta del viaggio:il Gruppo di Fanes, avvolto nelle sue leggende di popoli guerrieri e senza paura.

Il drago Sputafuoco, con ampie volute circolari scese verso terra atterrando dove gli umani hanno costruito il Bivacco Della Chiesa: un minuscolo baluardo di salvezza, un ricovero sul bastione di roccia che apre la strada per la vetta.

Phlippus salì su un masso imponente che dominava il pianoro e comunicò alla platea di giovani alpinisti lo scopo dell’esercitazione, mettendo in guardia dai pericoli della montagna.

” La montagna è severa, bella e affascinante, ma il suo aspetto può cambiare improvvisamente. Quando il vento prepotente ruba le nuvole più scure e le spinge turbinando verso la parete, la luce cambia e il colore delle rocce, prima caldo e rosato si fa grigio e negli anfratti nero come la pece. Il volto prima ridente e bello si fa arcigno e duro, la voce, prima suadente come quella di una sirena, diventa sferzante e sibila tra le guglie il vento della tempesta. I lampi squarciano l’oscurità calata sul mondo  e il tuono fa tremare il cuore di chi si trova in balia degli elementi infuriati.”

I nostri maghetti erano un po’ preoccupati, ma la montagna era così bella e invitante che non sembrava possibile un repentino cambiamento dell’umore del cielo! Si avviarono perciò, insieme a tutta la scolaresca, per il sentiero che saliva, prima dolcemente, poi sempre più ripido e scosceso verso la parete dorata dal sole. Ben presto si formarono varie cordate che Phlippus consigliò e istradò, continuando a fornire mille raccomandazioni, che ovviamente i ragazzi  accantonarono nell’angolo più remoto del cervello.

Beccodoro intanto controllava dall’alto quel brulicare di minuscoli scalatori e Phlippus che conosceva bene il Guardiano di Fanes e soprattutto il suo carattere ombroso e collerico, si augurava che non intervenisse con qualche sua insofferenza epidermica,rendendo più ardua l’impresa dei maghetti e la conquista della penna.

Intanto il sentiero era finito contro una parete verticale, solo una corda metallica costituiva il valido aiuto per il superamento di una placca quasi liscia, dove la forza delle braccia era l’unica alternativa ad una minuziosa e attenta ricerca di appigli anche microscopici per i piedi.

Greta, forte di un corso di arrampicata sportiva con i maestri di Santa Cristina, si offrì di iniziare la scalata come capo cordata. Federico e Costanza, che pure vantavano esperienze non indifferenti su ferrate abbastanza impegnative, accettarono”obtorto collo”la decisione della più anziana del gruppo che ormai era prossima al giorno del suo compleanno.

Superarono senza alcuna difficoltà o perplessità il loro attacco alla parete e si apprestarono ad affrontare uno spigolo aereo che si affacciava su un terrificante strapiombo sui ghiaioni della valle che scendeva al laghetto di Fanes. “Che gioia vederli salire come stambecchi, felici di quel contatto con la calda parete verticale” pensava Phlippus, appollaiato su un picco poco distante dove Sputafuoco lo aveva traghettato con un balzo prodigioso.

Ma il Guardiano di Fanes, soprannominato Caronte, era un mago grintoso e suscettibile, molto infastidito da quella turba di molesti ciarlieri scalatori, irriguardosi verso la maestà della montagna. Decise perciò di dare una bella lezione agli apprendisti stregoni.

Si eresse in tutta la sua altezza, che superava i due metri, levò al cielo le mani nodose, scosse da un fremito nervoso, e pronunciò con un tono di voce altissimo che fece tremare il campanile di Fanes, strane ,incomprensibili, magiche parole.

Sulla terrazza del rifugio ( forse è meglio dire ristorante ) Lagazuoi i gitanti che stavano a crogiolarsi al sole, pensarono ad un fulmine a ciel sereno, si tirarono su dai loro lettini per un attimo, poi si distesero di nuovo per nulla impressionati da quel tuono. Ma le nuvole,che navigavano lontane, si voltarono verso l’origine di quel suono e mormorarono tra loro: “Caronte chiama!”E si prepararono a ricevere il Vento del Nord, più freddo e prepotente che mai.

Arrivò il vento del nord, raccolse quei vapori ancora chiari e li rapì, trasportandoli a folle velocità verso il Lagazuoi, cominciò a comprimerli sbattendoli contro le pareti della grande montagna, li plasmò a suo piacimento trasformandoli in cumuli di colore plumbeo carichi di pioggia. Sulla terrazza  del Lagazuoi i gitanti si precipitarono dentro il ristorante che in quel caso divenne veramente un rifugio!

Caronte, continuava ad agitare le sue mani  comandando al vento del nord; era furioso con i primi tre maghetti che scalavano la sua montagna senza ritegno e rispetto, quasi per gioco, e su loro concentrò  la furia degli elementi che aveva avocato a sé, schiavi della sua magia.

“E’ troppo tardi per tornare indietro, dovremmo aver superato la metà del percorso” pensavano i nostri eroi, mentre il vento si faceva sempre più forte e gonfiava  le giacche a vento, quasi a volerle strappare. Greta era molto preoccupata ma continuava a salire con agilità e fermezza di piede, Federico brontolava un poco perché vedeva le altre cordate ancora al sole , quasi immuni dalla tempesta che sembrava intenzionata a sfogarsi soltanto sul loro itinerario. Costanza, che pure saliva con sfacciata sicurezza, cominciava a lamentarsi per la fame che aumentava ad ogni soffio di vento.

Dopo un piccolo sentiero di congiungimento tra l’anticima e la cima, affrontarono lo spallone verticale che conduceva in vetta. Anche sul sentiero provarono la brutta sensazione di essere ghermiti dal vento e si ancorarono saldamente alle funi metalliche, che in quel punto erano ben tese, per assicurare gli scalatori nel caso il sentiero risultasse completamente ghiacciato. Attaccata la parete dello spallone la situazione si fece più critica:il vento sferzava i loro volti con piccolissimi aghi di ghiaccio, poggiava il suo alito gelato sulle mani, quasi congelate malgrado i guanti da ferrata,che cercavano gli appigli, strappava gli zaini e cambiava continuamente direzione, quasi volesse saggiare la resistenza ora a trazione, ora a compressione di quei piccoli, umani provini.

E il nido dell’Aquila? Non si vedeva più in là di un paio di metri dal proprio naso, un muro d’acqua gelata turbinava togliendo il respiro, impossibile cercare il nido.”Altro che penna qui bisogna salvare la pelle.” Pensava Federico, senza però comunicare questo suo preoccupato pensiero alle compagne di cordata. Furono veramente forti  a resistere: sembravano incollati alla parete per offrire meno superficie alle folate rabbiose, eppure avanzavano, piano, ma avanzavano.

Finalmente Greta accimò, si volse indietro gridando ai suoi cuginetti tutta la gioia della conquista e furono in breve alla croce della cima. Si abbracciarono. Sputafuoco, appollaiato sulla torre poco distante, batteva le ali dalla contentezza, Phlippus era bianco dalla paura, ma felice per lo scampato pericolo e per la conclusione positiva della scalata,ma ancora perplesso sulla conquista della penna di Beccodoro.

Arrivati alla croce, in vetta, il vento, come per incanto cessò, le nuvole in breve si dissolsero in bianchi leggeri vapori.Il panorama era stupendo, le tre Tofane brillavano, spolverate di neve fresca,la Marmolada splendeva nel sole come un diamante gigantesco, le valli digradanti verso il passo del Falzarego stendevano i loro manti verdi chiazzati dallo scuro dei boschi di larici e abeti. Di fronte, quasi a toccarlo, il Lagazuoi con la cresta frastagliata e le costruzioni volgari e prepotenti che gli umani avevano incastonate in quell’angolo di Paradiso.

Greta si tolse l’assicurazione  e il casco, Costanza e Federico erano intenti alla consumazione della sospirata colazione; insieme aspettarono le altre cordate che avevano scalato nel sole, senza accorgersi della vendetta del Custode di Fanes.

A questo punto vi chiederete: e la penna dell’aquila?

Bene, forse Beccodoro aveva intuito la vostra domanda e, dal momento che aveva seguito con molto interesse l’avventura dei nostri amici contro la stizzosa mossa di Caronte, aveva finalmente deciso di scendere e di farsi vedere nel suo maestoso degradare dal cielo verso la vetta di Fanes.    Sputafuoco e Phlippus assistevano dall’alto, quasi in parcheggio nell’aria con le grandi ali agitate per consentire una sosta nel cielo, vietata dalle leggi di Fanes ma, per questa volta, concessa dal Guardiano, non più così astioso, anzi quasi sorridente per la prova dei tre maghetti

E finalmente Beccodoro, che aveva concluso il suo volo e posati gli artigli tra i massi sconnessi della vetta, sostò immobile, maestosa, con le grandi ali racchiuse come un regale mantello e il becco feroce atteggiato ad un favorevole sorriso.

Sulla cima, ora illuminata dal sole, fu silenzio, solo accarezzato dal vento gentile che bacia leggero le cime calde di sole. Nel silenzio, davanti a quel pubblico di apprendisti maghi così parlò Beccodoro:

“Amo chi non si ritrae davanti al pericolo e sa reagire agli scherzi dei guardiani intransigenti, chi affronta l’imprevisto con animo sereno e confida nella propria forza interiore,altrimenti che aquila sarei? So che tutti aspirate alla mia penna più lunga e preziosa, ma se dessi a ciascuno di voi una mia penna rimarrei sicuramente spennata e non potrei più volare; e questo sono certa che nessuno di voi possa desiderarlo! Solitamente chi cerca la penna dell’aquila si accontenta di cercare tra quelle che mi cadono dal nido o che mi strappano per gioco i miei aquilotti. Nessuno è mai venuto a tirarmela via con le sue mani, per l’indubbia difficoltà di accostarmi e per il grande rispetto di cui godo anche tra i mortali. Ho deciso questa volta di consegnare la mia più bella penna a Greta, come regalo per il suo compleanno, che proprio oggi ricorre, perché ho apprezzato il modo con cui ha guidato la sua cordata e la forza d’animo che ha dimostrato davanti alle avversità imposte dal terribile Guardiano, che noi chiamiamo Caronte per il suo aspetto truce e sostenuto. Anche a Costanza e Federico darò due penne, forse meno lunghe e  pretenziose, ma che serviranno comunque a scrivere il diario di questa avventura intingendone la punta nell’inchiostro inesauribile della fantasia”

Beccodoro consegnò le tre penne, salutò da lontano Phlippus e Sputafuoco, sempre appollaiati sulla cima della Torre, accarezzò con la grande ala destra (perché non era mancina)tutti gli studenti del corso di magia applicata e volò via. In breve fu un puntino contro la sfera infuocata del sole al tramonto.

Il ritorno sulle possenti spalle di Sputafuoco, fu di grande soddisfazione per tutti: chi riviveva quel passaggio aereo sulla placca senza appigli, chi le cenge mozzafiato a trecento metri sopra le morene bianche come la neve, ma certo più di tutti seppero raccontare i nostri tre maghetti che avevano superato la tempesta di Caronte e che agitavano le penne di Beccodoro impazienti di riportare con l’inchiostro della fantasia, sulle pergamene della scuola, l’avventura di Fanes.

Va detto per la cronaca che il drago, dopo i primi dieci minuti di giustificata baldoria, pregò Phlippus di sistemargli due grandi tappi di cera nelle sue cavernose orecchie, prima di venire completamente assordato,(con il pericolo di perdita di orientamento)dalle urla, i canti e i peana dei piccoli vincitori.

(Il quadro di Filippo Parodi, La penna dell'aquila)

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