Virginia Woolf ha scritto, nel suo memorabile A room of one’s own, che era grazie alla rendita mensile della sua zia deceduta che poteva scrivere, leggere, studiare. Il testo di quel libro fu scritto in occasione di due conferenze significativamente intitolate:
"Intellectual freedom depends upon material things. Poetry depends upon intellectual freedom."
Marx ha lottato a lungo contro l'indigenza, con tutti quei figli, e poi ha avuto la fortuna di trovare un certo industriale – gente d’altri tempi – disposto a mantenerlo per anni, Friedrich Engels; così Marx ha potuto scrivere il Capitale.
Rousseau dovette lo stesso a una nobildonna, Françoise Louise de Warens, che lo salvò per un certo periodo dalla povertà. Agostino visse per una certa fase della sua vita profondi tormenti per non potersi dedicare in toto alla pratica filosofica, per via dei familiari da mantenere; trovò poi il ricco amico Romanino pronto a offrirgli i suoi denari, così da consentirgli di proseguire quello che, allora come oggi, è evidentemente sempre stato considerato un lusso. Nel VI secolo, quando furono definitivamente chiuse le scuole di filosofia in Grecia, fu grazie a una clausola in un trattato di pace firmato dall’imperatore Chosroe che fu possibile, per un gruppetto di filosofi tra i quali Damascio e Siriano, continuare a filosofare (sì, perché una volta nelle trattative di pace i sovrani trovavano finanche il tempo di porsi il problema “filosofi”).Il tiranno Ermia, che non godeva di buona reputazione, diede ad Aristotele e ai suoi amici "la città di Asso in cui vivere; e lì essi trascorrevano il tempo a filosofare, riunendosi in un porticato, ed Ermia forniva loro tutto ciò di cui avevano bisogno” [S. Mekler, a c. di, Academicroum philosophorum index Herculanensis, Berlin 1902, p. 23]. "Qualunque fosse la personalità di Ermia, la scienza è in debito nei suoi confronti. Perché fu durante gli anni di viaggio, 347 - 335, [...] che Aristotele intraprese la maggior parte dell'opera su cui si basa la sua reputazione scientifica". [J. Barnes, Aristotele, Einaudi 2002, p. 15].
Avevamo già accennato, anni fa, alle disperazioni di Leopardi, talora profondamente legate all'incubo di dover intraprendere la carriera ecclesiastica per dedicarsi agli studi; e chissà, per chi abbia l'ossessione del bicchiere mezzo pieno, forse senza quelle pressioni non avremmo avuto le prolifiche disperazioni di Giacomo.
Ora, come sarebbe andata se non ci fossero stati/e Engels, de Warens, Romanino, la zia di Woolf, eccetera? E quanto ancora potrebbe essere lunga questa lista? Quanti infiniti altri esempi potremmo fare? E' chiaro che gli amici coinvolti nelle diverse biografie accennate avrebbero potuto essere e molto spesso sono state delle istituzioni - per esempio, si consideri il caso esemplare di Agostino, il quale una volta abbandonata la filosofia come pratica di vita per abbracciare il cattolicesimo in qualità di vescovo...non ebbe più problemi.
Parliamo di filosofi e letterati/e, ma l'esempio si può estendere a molte altre "categorie professionali". Non si tratta di un'oziosa aneddotica, si tratta di piccoli esempi che restituiscono un po' una dinamica fondamentale, che supera le singole vite individuali, nelle quali pure si esprime in modo esemplare.
La differenza tra un'opera realizzata e un'opera mancata, una teoria intuita e una teoria elaborata, tra progresso e non progresso, passa fra l'altro da questa piccola grande ovvietà: la pagnotta. Il legame della cultura e della conoscenza col potere - perché laddove vi è un rapporto di dipendenza difficilmente si può non parlare di potere - è qualcosa di fondamentale nella storia, una sorta di commistione originaria, intorno alla quale ho l'impressione che non ci si interroghi abbastanza, perché generalmente considerato ovvio o che.
E' frequente leggere interi manuali scolastici, monografie, curatele eccetera, sorvolare arditamente su questo piccolo grande fattore. Questa omissione ha l'aria di un'impostura, poiché tendenzialmente occulta un fattore determinante; per riadattare un'espressione kantiana, della condizione di possibilità stessa del darsi del sapere. Potrei spingermi più in là, affermando che la pagnotta è il vero trascendentale, ma forse è il caso di fermarmi. A scuola ci dicevano di leggere le biografie degli autori, ma forse sarebbe stato più corretto invitare direttamente gli studenti a domandarsi a quali condizioni era prodotto il sapere, dentro quali istituzioni, in virtù di quale dipendenza. Si potrebbe leggere l'intera storia del sapere da questo punto di vista, scoprendo cose, sono certa, molto interessanti, cruciali. E' appunto anche grazie a questa prassi che considera solo i risultati, più che le condizioni e i processi-attraverso-cui, che è possibile, fra l'altro, presentare la storia del pensiero come storia del pensiero solo maschile: da cui il lettore inferirà che è per natura che gli uomini pensano e fanno la storia e le donne no, dato che non si spiegano la genesi politica, materiale, di tale fatto, che non gli viene mai raccontata in questi termini. Fare astrazione dalla pagnotta, alias stanza tutta per sé, alias condizioni materiali dell'esistenza e del darsi del sapere, è un'omissione che politicamente fa la differenza, perché rischia di assolutizzare una contingenza storica con tutto il corredo di omissione che ciò comporta; dove "contingenza" è un termine solo in parte adatto, dato che si tratta di una dinamica che in qualche modo ha sempre a che fare con quel tipo peculiare di causalità determinato dagli interessi.
Pensiamo al Medioevo cristiano, quando il nesso sapere-potere si esercitava non solo per via censoria (che già faceva gran differenza), ma anche attraverso l'esclusiva legittimazione nella produzione del sapere da parte di alcune istituzioni afferenti molto spesso alla Chiesa. Pensiamo naturalmente anche al mecenatismo, che consentì ai più vari intellettuali e artisti di esprimersi; a quale prezzo e con quali vantaggi è un bilancio che possiamo a stento solo abbozzare, e non ci credo che l'alternativa al do ut des fosse pratica corrente.
Perché una volta trovata la persona/istituzione finanziatrice, a quale tipo di condizionamento erano esposti gli intellettuali/artisti eccetera? Quanto hanno dovuto "limare" i loro contenuti per non dare fastidio al committente?
(Penso per esempio ad Aristotele che fece in seguito di uno spietato tiranno i più sperticati elogi).
Liberarsi dal committente è sempre stato un lusso solo per pochissimi; gli aristocratici, per esempio, o chi riusciva a vendere a un pubblico - benché in questo caso sempre di eteronomia si tratti. Il punto è che se il mondo è cambiato - con Il Capitale, con il pensiero di Agostino, con Aristotele, eccetera, e anche con chi non c'era perché priva della room of one's own, e cioè, fra l'altro, le donne: un'assenza storica potente, con la quale ancora oggi facciamo pesantemente i conti - è stato anche grazie alla contingente solerzia di qualche benestante, al prezzo di chissà quali (più o meno taciti) ricatti.
Il discorso è importante per via, da un lato, della ricattabilità cui è sempre stata esposta la cosiddetta intelligencja nella sua strutturale eteronomia materiale e quindi del tipo di libertà goduta nel progresso della conoscenza; e, dall'altro, perché occorre interrogarsi sul fatto che è impossibile quantificare le idee, le opere, le teorie che avrebbero-potuto-ma-non-hanno, perché prive di quel gran tesoro che può essere un certo tipo di amico - in senso lato, anche istituzionale - in questi casi. Da questo punto di vista, possiamo spiegarci come mai il pensiero più radicale e rivoluzionario abbia sempre stentato a farsi strada, a causa della sua congenita difficoltà di trovare un finanziatore (il finanziatore deve, in fondo, avere un interesse a finanziare; quando non lo ha è un amico o un benefattore, il che espone il tutto alla contingenza). Il sapere è esposto, così, a un'eteronomia che sembra strutturale: si tutela l'interesse del potere o l'interesse "disinteressato" del sapere?
Del resto, lo stesso Aristotele - e anche Platone - non fece a meno di riferirsi candidamente alla natura un po' classista della produzione del sapere. I lavori manuali, quelli andavano svolti dagli altri, il filosofo doveva essere libero dal lavoro per poter filosofare; che poi, in soldoni, significa semplicemente questo: solo i ricchi potevano (possono?) fare i filosofi. Il che aprirebbe la strada a una serie di considerazioni con le quali si potrebbe scrivere un'intera enciclopedia.
Si tratta, dopotutto, dell'annosa questione delle pari opportunità, per dirla in politichese; la quale non va dimenticato che va estesa anche alle condizioni di ricezione del sapere: un problema ancora attualissimo; si pensi fra l'altro all'accesso alle informazioni nel web, ancora precluso a un numero vergognoso di persone - è del tutto condivisibile, in questa luce, la posizione di Stefano Rodotà, che paragona questo diritto ai diritti fondamentali come quello dell'accesso all'acqua e perciò teorizza la necessità della banda larga.
Ora, non è che sia tutto brutto e cattivo. Si tratta di riflettere sulle dinamiche ingenerate da questo tipo di dipendenze, di prenderne coscienza, di analizzarne le implicazioni, magari per trovare soluzioni alternative; non solo per superare, in chissà quale futuro, questa eteronomia e questo classismo proprio del sapere nella sua produzione (e ricezione), ma anche per indagare i nessi e per neutralizzare il rischio di assolutizzazione e mistificazione che presiede a ogni tentativo di prescindere dalla materialità delle cose. Imparare a (ri)conoscere i propri limiti non implica giocoforza l'esito nullificante del "tutto è dominio, tutto è contaminato, la verità non esiste", anche se il rischio c'è e va tenuto in conto. Il punto è che anche darsi da fare per conoscere le condizioni materiali - non solo biologiche, ecc - e sociali della conoscenza è conoscenza, come dire. La commistione del sapere con il potere è stata tematizzata in più forme, ma a me sembra che lo si sia fatto meno del dovuto, trattandosi di una questione fondamentale, che ha conseguenze molto concrete in relazione non solo alle pari opportunità ma anche a quello che Braudel definiva andamento del mondo. E' stata tematizzata criticamente, fra l'altro, da Adorno e soprattutto Horkheimer (quanto è attuale ma dimenticata la sua proposta per un'epistemologia materialistica?); da ben altra prospettiva lo ha fatto Foucault; c'è poi qualche tedesco tipo Mannheim che ha riflettuto in termini di sociologia della conoscenza. Ma a me sembra una cosa talmente costitutiva e fondamentale, che riservargli l'aspetto di ramo fra i rami del sapere - e non semmai un che di preliminare - mi sembra enormemente riduttivo. Ma a questo va dedicato altro spazio.