Mica semplice affrontare un argomento del genere. Che cosa diavolo vuol dire però usare in maniera corretta il linguaggio? Che si deve conoscere la grammatica e la sintassi, ma questo è ovvio, infatti non è questo l’argomento che desidero affrontare.
Secondo me, utilizzare in modo corretto il linguaggio significa rendere in maniera onesta ed efficace l’esperienza. In apparenza si tratta di una definizione piuttosto vaga, mentre in realtà coglie nel segno. Proverò a spiegare.
Esistono due modi di usare la lingua: quello per avvicinare le persone, gettare cioè un ponte verso di esse. Per questo motivo abbiamo imparato a parlare, invece che esprimerci con grugniti. All’inizio andava bene così, perché nelle savane africane il primo scopo dei nostri antenati era sopravvivere. Quando ci siamo evoluti un poco, e abbiamo cominciato a comprendere la complessità del mondo, l’unica maniera per rendere testimonianza appunto del mondo era evolvere il linguaggio. E anche per decifrare il mondo, cercare di comprenderlo e dominarlo.
Il secondo modo è di banalizzare il linguaggio, e quindi la realtà. Il termine “realtà” rischia di essere troppo neutro me ne rendo conto; però in esso trovano posto le nostre esperienze. Grandi o piccole che siano, hanno un sapore e uno spessore unico, poiché ciascuno di noi è appunto unico.
Da tempo questa idea a proposito dell’unicità della persona ha lasciato spazio a qualcosa di ben diverso. Per un malinteso senso di egualitarismo (in realtà si tratta di uniformità, quindi di omologazione) si è cercato con successo di imporre una visione differente. Il linguaggio è stato piegato a uno scopo ben preciso. Non per comunicare, unire, bensì per rendere banale. Che sia inevitabile? Non saprei, di certo sono persuaso che a un certo punto ciascuno di noi ha la possibilità di cambiare.
L’atteggiamento che prevale da alcuni anni è quello che pretende di instaurare con le proprie esperienze un atteggiamento neutro. Quasi scientifico, mentre pure la scienza è, contrariamente a quello che si crede, tutt’altro che fredda e senza cuore.
Gli scienziati migliori sono ottimi comunicatori non perché siano neutrali, ma proprio perché usano un linguaggio capace di celebrare nel modo migliore le loro esperienze.
Anche l’esordiente percorre la scorciatoia di un uso del linguaggio asettico, e algido. Sono vittime di un’idea che guarda alla realtà e pretende che sia neutra, e che il fine di chi racconta le storie sia quello di eliminare tutto quello che potrebbe influenzare il giudizio del lettore. In caso contrario, si commetterebbe un abuso, si supererebbe un confine e si entrerebbe nel mondo di chi legge con la pretesa di cambiare il suo modo di vedere.
Peccato che la vita sia esattamente qualcosa del genere: un’intrusione. E non si può affrontarla senza avere con sé un linguaggio in grado di comprendere cosa accade. Un linguaggio corretto, appunto.
Le esperienze hanno necessità di vivere, e quindi devono possedere una lingua adatta. Spesso per essere comprensibili si sceglie la strada di una prosa troppo banale. A volte è persino corretta (in realtà nella maggior parte dei casi non lo è affatto), però non ha nerbo. Quindi si produce un linguaggio che separa dall’esperienza, dalla vita.
Ecco perché è necessario affrontare il linguaggio con la stessa determinazione con quale affrontiamo una storia. Non è un dettaglio, e la sua fondamentale correttezza non è garanzia di alcunché.
Il linguaggio o rende testimonianza della vita, oppure è chiacchiera.