In questi giorni siamo tutti spaventati ed è normale. Non voglio dilungarmi in spiegazioni su ciò che sta succedendo, anche se sei anni di storia delle religioni me lo permetterebbero e anche se in materia ho le idee molto chiare. Non è questo che mi interessa.
Mi interessa ricordare i lunghi pomeriggi d’inverno in cui me ne stavo sul divano con la coperta di lana accanto a mio nonno e mia nonna e guardavo con loro le foto della loro giovinezza. Erano tutte foto sbiadite in bianco e nero e tutti erano sorridenti, quasi si trovassero in un mondo incantato fuori dal tempo e dallo spazio. Volti felici, persone ben vestite, donne dai capelli tirati indietro e uomini di uno charme incredibile. C’erano foto dei miei bisnonni che non ho mai conosciuto (il papà di mio nonno morì di morbillo quando lui aveva tre anni) e foto di ragazzi che ballavano balli di coppia col volto sereno.
Verrebbe da dire, visti i fatti di cronaca di questi ultimi giorni e in generale degli ultimi 15 anni, “beati loro”. Verrebbe da pensare che abbiamo messo al mondo i nostri figli in un universo che va tutto al contrario, dove non ci sono più certezze, dove tutto ciò che gli stiamo offrendo è una vita di insicurezza e sofferenza. Ma non è così, o perlomeno non lo è a causa della fase di terrorismo fisico e psicologico che stiamo attraversando.
Dietro le foto felici dei miei nonni, dietro i walzer e le canzoni che a me sembravano tanto felici, c’era la guerra. Entrambi erano nati pochi anni dopo la Prima Guerra mondiale ed entrambi hanno vissuto da giovanissimi la Seconda Guerra Mondiale, che a noi fa meno paura perché ormai è un ricordo lontano, ma che ha segnato inevitabilmente le loro vite e il loro modo di pensare.
L’infanzia dei miei nonni è stata molto povera, perché le campagne tosco-marchigiane non si erano ancora riprese dai danni della guerra del 15-18. Mio nonno a quattro anni fu mandato dal patrigno a fare il “garzone” e poi si costruì pian piano un lavoro da muratore, mentre mia nonna pascolava pecore su per i monti con solo un tozzo di pane e una fetta di formaggio per tutto il giorno. Ma erano felici.
Pochi anni dopo, mio nonno aveva 16 anni e mia nonna 13, arrivò di nuovo la grande guerra e con essa crollarono di nuovo tutte le certezze. I miei nonni erano già fidanzati, ma non si videro per due anni: mia nonna li trascorse nascosta con la sua famiglia e i compaesani tra i boschi dell’appennino tosco-emiliano e mio nonno si specializzò nel disinnescare le mine lasciate dai tedeschi lungo le strade che i civili dovevano percorrere. Non tutti i suoi compagni furono fortunati come lui, molti non videro mai la fine del conflitto, non diventarono mai mariti o genitori, non tornarono più tra le braccia dei loro cari. Il suo più caro amico morì il giorno della liberazione sulla porta di casa, perché ironia del destino i tedeschi avevano nascosto un ordigno proprio sulle sue scale. Nel frattempo mia nonna e la sua famiglia si dividevano il poco che c’era da mangiare e lei ricordava i bei tempi in cui poteva andare su per i monti a pascolare le sue pecore e non a nascondersi dai soldati che cercavano le donne per violentarle e gli uomini per ucciderli a sangue freddo davanti alle loro mogli e ai loro figli.
Però i miei nonni non hanno mai perso la speranza e soprattutto non hanno mai perso il sorriso. Mio nonno nelle fredde serate di campagna suonava la fisarmonica per i suoi compagni e quando potevano ballavano intorno al fuoco con un bicchiere di vino e una fetta di formaggio. Anche nei giorni in cui l’ennesimo compagno moriva, perché la vita deve sempre avere la meglio. Mia nonna andava di nascosto con le amiche a rubare il grano dai campi e le uova dal pollaio dei “signori” del posto, a volte riuscivano anche a catturare qualche agnello e un giorno trafugarono persino una mucca per avere il latte, ma non durò molto poverina. Con lei c’era sempre la sua pecora Sergentina, quella terribile che faceva sempre di testa sua e poi c’era la Codona, che era più simile ad un cagnolino e dormiva con lei, scaldandola. Un giorno, appena ragazzina, incontrò in un campo di grano un tedesco a cavallo e lei prese in mano un bastone ed era pronta a sferrarglielo contro, ma lui scese da cavallo e le si avvicinò piano, dicendole qualcosa in una lingua che ovviamente lei non capiva. Capì solo che doveva aspettare e aspettò. Una mezz’ora più tardi lui tornò con un prosciutto e una caciotta e si allontanò sul suo cavallo. Si aspettava di festeggiare con i miei nonni, ma mio nonno la sgridò e la mandò a dormire senza cena, perché non si dà confidenza ai nemici.
Quando gli chiedevi di raccontarti della guerra avevano gli occhi lucidi, ma ripescavano sempre l’aneddoto che faceva sorridere e quasi ti facevano dimenticare che dietro a quei sorrisi si nascondevano genitori mai tornati dai loro figli, bambini strappati alle loro mamme, notti buie in cui risuonavano sirene e scoppi, giornate di pioggia in cui il freddo delle montagne era tanto da uccidere gli anziani che erano sfollati con loro. Ma loro lo raccontavano con il sorriso, con solo un velo di malinconia che si stemperava guardando noi nipoti.
Ecco, scusate se mi sono dilungata. Io non voglio dire che la guerra, il terrorismo, l’estremismo non debbano farci paura. Voglio solo dire che non è vero che il nostro mondo, quello in cui abbiamo dato alla luce i nostri figli, sia tanto peggiore degli orrori del passato, ma che purtroppo cambiando i mezzi cambiano gli effetti. Voglio solo dire che tutto questo non può toglierci il sorriso, perché se perdiamo quello siamo già morti. Possiamo affrontare tutto col terrore, oppure possiamo affrontare tutto con l’amore, dando valore a tante cose di vui spesso dimentichiamo l’importanza e godendo anche delle lunghe notti insonni che i nostri figli ci regalano. Finché c’è amore c’è speranza e noi non possiamo farcela togliere.