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Sulla Nebbia e sul Vago: Pascoli e Leopardi

Creato il 13 dicembre 2013 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Da una settimana non si vede altro che nebbia in questa Pianura padana. E allora, fissando il muro lattiginoso, il mio pensiero è andato naturalmente ad una delle poesie di Giovanni Pascoli che, concentrandosi proprio sulla nebbia, vista come un'interlocutrice viva e capace di azione e intenzione, la identifica con un essere salvifico in grado di isolarlo nell'intimità sicura della sua casa, sottraendolo alle minacce del mondo esterno.
Nebbia
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

Sulla Nebbia e sul Vago: Pascoli e Leopardi

C.D. Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1819)


In questo testo, raccolto nei Canti di Castelvecchio (1903), la nebbia è come un grembo protettivo, una culla sicura che allontana il poeta dalle 'cose lontane', quindi pericolose, o perché realmente portatrici di sofferenza o perché fonte di semplice insicurezza per un uomo che teme qualsiasi scalfittura del suo piccolo mondo di affetti, anche quella data da un matrimonio, dall'abbandono della casa familiare (v. 20).
Tutto ciò che dà sicurezza è rinchiuso entro il muro di cinta del cortile che, significativamente, ha le crepe riempite di valeriane, piante che, come è noto, hanno proprietà sedative (v. 12). Gli alberi da frutto, il cipresso, il cane che dorme sotto di esso sono orizzonti rassicuranti: vedendo solo questi elementi, il poeta può rimanere tranquillo, godere la sicurezza e il raccoglimento di casa.Una sola cosa al di fuori del cortile vuole vedere il poeta, ovvero il sentiero bianco (vv. 21-22) che dovrà percorrere accompagnato dal suono funereo ('stanco', v. 23) delle campane nel giorno in cui la sua bara verrà condotta al cimitero; può sembrare un riferimento triste, può sembrare che l'unica visione che il poeta accetta di scorgere oltre la nebbia sia proprio quella della 'cosa più ebbra di pianto' (cfr. v. 14), eppure non va dimenticato che, per Pascoli, la morte ha un significato liberatorio e di ricongiunzione, perché permetterà la ricostruzione dell'intero nido familiare, distrutto dal tragico evento della notte del 10 agosto 1867. L'accento positivo dato alla morte è, inoltre, sottolineato dalla connotazione cromatica del sentiero, bianco come tutto ciò che c'è di buono e accogliente nella poesia del poeta romagnolo[1], come quell'ala bianca di gabbiano cui viene paragonata la casetta che appare come l'unico rifugio sicuro in Temporale (Myricae, 1894):
Temporale
Un bubbolìo lontano...
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Il testo presenta un'alternanza continua di piani spaziali vicini e lontani, come un continuo processo di zumata e contro-zumata costruito grazie al ritornello «Nascondi le cose lontane» che ci proietta all'indefinito posto oltre la barriera bianca e al brusco riavvicinamento suggerito dall'anafora «Ch'io veda», che ci riporta all'interno della definitezza e della sicurezza interne al cortile. Questa riflessione basata sulle barriere si richiama chiaramente all'Infinito leopardiano[2] (come a Leopardi si richiamano molti altri stralci di lirica pascoliana), e non a caso una delle limitazioni allo sguardo, assieme alla nebbia e al muro di cinta (v. 11) è una siepe, lo stesso elemento che dà avvio ai vagheggiamenti del poeta di Recanati. Mentre, però, in Leopardi ciò che sta oltre la barriera è fonte di gioia perché simboleggia la possibilità dell'illusione e della fuga dalla realtà in un'immensità spaziale e temporale, Pascoli identifica l'ignoto con il pericolo e la sofferenza.
L'Infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Una poetica del vago e dell'indefinito adattata dunque alle esigenze e al pensiero di Pascoli, che, come già Leopardi, cerca una connotazione anche sonora di tale indefinitezza, prediligendo i suoni morbidi e le consonanti liquide (l,r) e nasali (n,m), per loro natura impalpabili come la nebbia, come il fumo che sale, come i lampi. 
Sulla Nebbia e sul Vago: Pascoli e Leopardi
 Ed ecco, dunque, come una banale condizione atmosferica nel basso veronese può risvegliare reminescenze nostalgiche e far sentire una risonanza con le emozioni e le parole di due dei nostri più grandi autori.
C.M.
NOTE:
[1] Suggerisco, a tal proposito, la lettura di Una finestra nel buio, tratto dal blog La cerchia di Minosse.
[2] Una straordinaria coincidenza: l'Infinito di Leopardi e il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich si datano entrambi al 1819.

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