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Sulla professione dei freelance

Creato il 17 luglio 2013 da Cicciotopo1972 @tincazzi

Ciclicamente torna alla ribalta il problema dei giornalisti freelance, della crisi, del sistemamercato-barcellona-b editoriale che non paga.

Dico ‘ciclicamente’ riferendomi alla massa di internettari che si sconvolgono alla denuncia del giornalista di turno che salta sulla sedia.

Ci sono colleghi che tutti i giorni lavorano dentro e fuori il sindacato della Fnsi e all’Ordine dei Giornalisti per discutere e trovare soluzioni e fare proposte ai tavoli dedicati a questi argomenti. Anche in queste ultimi giorni. E non  sono solo i precari e i freelance ad avere problemi occupazionali, ma tutta la categoria.  Chi si sveglia all’improvviso rendendosi conto di non essere in Fantasilandia ma in Italia, evidentemente questi gruppi di precari e freelance o le associazioni di stampa regionali, non le ha mai frequentate. Ovvio che in questi posti non ti diverti, ma litighi, discuti e provi a far passare idee e proposte. E perdi ore che potresti passare in altro modo. Nessuno di questi giornalisti che si rompono il culo su leggi, diritti e cavilli sale agli onori per fare quello che non è il proprio lavoro ma una cosa in più, un secondo lavoro per molti non retribuito, ovvero pensare non solo a sé stessi ma anche agli altri colleghi.

Ogni volta che qualcuno fa outing scatenando il pandemonio in rete sarebbe bene chiedersi prima dov’era.

Questa è una professione molto individualista, non nascondiamocelo facendo finta che non sia così, nella quale c’è poco spazio per la solidarietà. Se spostiamo l’attenzione non sui garantiti ma su quell’enorme magma che in maniera anche distorta viene tout court definita dei ‘freelance’, e in settori della stampa totalmente competitivi quali ad esempio gli esteri, ci rendiamo subito conto che la guerra è guerra totale e aperta e non prevede prigionieri. La gente si fotte l’una con l’altra. Ma se fossero mercatari invece che giornalisti sarebbe la stessa cosa. Uno vuole sempre il posto migliore rispetto a quello defilato e si incazza con l’abusivo se viene a vendere merce senza autorizzazione e posto assegnato (che paghi). Perché questo sconvolge se invece si parla di giornalismo è un bel mistero.

Anche se poi condividendo tante cose si formano amicizie, gruppi, simpatie e antipatie come in qualsiasi altro contesto umano. Ci sono legami anche duraturi tra garantiti e precari, dove chi ha di più mette  a disposizione di chi ha di meno. E ci sono amicizie anche tra i freelance. Amicizie vere. E spesso il freelance più ‘esperto’ o con più possibilità aiuta quelli che ne hanno meno.

Il nostro è un lavoro. Punto. Lo facciamo se ci guadagniamo dei soldi per vivere, cambiamo lavoro se non c’è possibilità di lavorare e ciao. E’ giusto fare la gavetta, sputare sangue, è giusto e logico che chi fa dovrebbe essere premiato e che venga pagato per il suo lavoro, ma è la vita e sempre e dappertutto e in tutti i lavori succedono queste cose.

C’è una soluzione per uscire da questa situazione? Ho letto con attenzione l’intervento di Andrea Iannuzzi su La Valigia Blu, Freelance i consigli di un editor. Tra le tante cose che dice, Legnini ha ragione su alcuni punti: “Unitevi, create delle società, delle cooperative, studiate forme di co-working:  vi servirà ad abbattere i costi, ad avere più potere contrattuale e ad offrire prodotti più competitivi, magari non ad un solo “cliente”

Ieri ne stavo parlando con dei colleghi riguardo ad un progetto editoriale che verrà lanciato a breve. Questa è una delle poche soluzioni che si hanno a disposizione in questo mercato asfittico e che sta cambiando pelle. Se qualcuno oggi pensa di poter vivere e lavorare da solo e solo in un settore, come quello della carta stampata (che è in coma irreversibile), farebbe bene adesso, in questo esatto momento, a cercarsi un altro lavoro.

Su un’altra cosa Legnini ha ragione: la multimedialità. C’è un però: i compensi dovrebbero essere all’altezza del lavoro richiesto e dell’affidabilità del giornalista di cui parla sempre Legnini.

Vero è che il prezzo cambia anche in base al nome del giornalista, al luogo dove si confeziona il prodotto e ad altre variabili. Ma da un gruppo editoriale di peso come è quello di Repubblica-L’espresso, ci dovrebbe essere una maggiore oculatezza alla sezione compensi. E questo logicamente vale anche per tutte le altre testate, radiotelevisive comprese. Non si può pretendere affidabilità, professionalità, competenza e multimedialità e poi pagarla poco.

Serve maggiore chiarezza anche da parte di chi compra e valuta il prodotto, non solo di chi vuol vendere, magari con una trasparenza sui compensi che farebbe bene non solo a chi vuole proporre ma alla stessa testata che si porrebbe in maniera diversa rispetto alle altre.

Non è possibile avere a che fare con amministrazioni che non sanno valutare la differenza tra un pezzo scritto in Italia e uno all’estero o al contesto e alla tipologia di produzione (inchiesta, reportage, sanalisi etc) e non ci si può sempre affidare al buon cuore del caporedattore che deve magari imporsi sulla contabilità per spiegare loro che il prezzo concordato era netto e non lordo.

Riguardo alla cultura e alla cosiddetta ‘formazione permamente’, ho trovato tantissimi colleghi con fior di lauree, corsi, aggiornamenti, abilità e conoscenza di lingue e materie da fare impressione rispetto a molti garantiti all’interno delle redazioni. Ma una domanda: a qualcuno è mai servito mostrare il proprio curriculum di studi e competenze? Credo di no.

Il giornalismo è una brutta bestia. Mettetevelo in testa. Non c’è niente da fare. Era così anche prima, ovvero anche prima si faceva la gavetta, si scriveva sottopagati, si litigava, si subivano angherie, scavalcamenti, passaggi di raccomandati. E’ sempre stato così. Mi piacerebbe che si togliesse la patina da romanzetto da quattro soldi del giornalista eroe, del giornalista stoico, del giornalista col fuoco sacro perché sono tutti idealtipi abusati e c’hanno pure rotto le palle.

Oggi però è peggio. Lo sappiamo, ne siamo consapevoli. Fare gavetta non garantisce nulla e l’abusivato che una volta alla fine, magari dopo dieci anni di stenti ti permetteva di entrare a testa alta in redazione e con un contratto, è solo un miraggio.

Il nostro è un lavoro, non una missione. E chi deve fare tutti i giorni i conti per pagare le bollette, il mangiare e l’affitto di casa, lo sa bene. Se lo ricordi chi lavora per la gloria ma anche chi compra un prodotto di qualità. La qualità si deve pagare. Sempre.


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