«Venganza». «Vendetta». È questa la definizione - più o meno - condivisa nel dibattito spagnolo in merito all'"affaire Bin Laden". È stata la mossa migliore eliminarlo dopo averlo a lungo cercato (operazioni "Search&Destroy" si chiamano in gergo) o forse sarebbe stato meglio - nell'ottica europea, patria dei "diritti umani universali" - prenderlo vivo e processarlo dinanzi alla Corte di Giustizia de L'Aja?
Nel dibattito mondiale le domande sull'operazione che ha portato al supposto (dato che non sono ancora state divulgate prove effettivamente valide) omicidio dello sceicco del terrore è in pieno svolgimento. A rinfocolare un dibattito ancora nel vivo ci hanno pensato le ultime rivelazioni dei media, che ormai danno per certo che tutto sia partito dalle confessioni - estorte con la tortura - di un detenuto "di lusso" di Guantánamo Bay: Khaled Sheik Mohammed, considerato la mente degli attacchi aerei dell'11 settembre.
Prima di addentrarci nello specifico, però, è opportuno ricordare che il Khaled Sheik Mohammed è la stessa persona arrestata in Pakistan nel 2003 e soggiornante presso il "carcere" di Guantánamo dal 2006, peraltro in stato di assoluto isolamento. Come è possibile, dunque, che una persona esclusa dalle dinamiche quaediste da cinque anni in territorio cubano-statunitense conosca quel che avviene in Pakistan, non esattamente dietro l'angolo? Qui esistono - a mio modo di vedere - tre ipotesi fattibili: a) Osama Bin Laden è da anni in Pakistan (ed a questo punto si potrebbe discutere se i governi di Pervez Musharraf e di Yousaf Raza Gillani succedutisi in questo decennio ne fossero al corrente o meno); b) l'isolamento di Guantánamo non è poi così "isolato" e dunque le notizie nel network quaedista circolano tranquillamente anche tra i detenuti; c) quella della confessione è una notizia farlocca venduta ai giornalisti per chiudere la faccenda.
Quel che comunque fa discutere in America ed in Gran Bretagna - dove ormai da anni ci si interroga sui risvolti etici e morali dei conflitti - è se sia stato giusto o meno utilizzare metodi di tortura per estorcere le informazioni che hanno portato all'eliminazione del nemico pubblico numero uno. Insomma, la questione è delle più classiche: il fine giustifica i mezzi?
Per rispondere alla domanda - o quanto meno tentare di rispondere, dato che una risposta certa ed univoca mai sarà trovata - partiamo dall'atto che viene messo in discussione, cioè la tortura stessa. A quanto trapelato in questi giorni il metodo scelto per l'occasione è stato il c.d. "waterboarding":
[Qui per chi avesse problemi di visualizzazione: http://www.youtube.com/watch?v=4LPubUCJv58]
[qui per chi avesse problemi di visualizzazione: http://www.thesun.co.uk/sol/homepage/video/sun-exclusive/3343068/Sun-writer-endures-waterboarding.html]
Nei due casi giornalistici, però, bisogna tenere bene in mente una discriminante fondamentale: sia Christopher Hitchens (video 1) - ai tempi giornalista per il periodico Vanity Fair ed oggi columnist del Wall Street Journal - che Oliver Harvey (video due) del quotidiano britannico The Sun erano preparati. Sapevano che avrebbero dovuto sottoporsi a questa pratica, al contrario di quel che avviene per i prigionieri delle carceri anti-terrorismo (o dei black site), dunque per i due è venuto meno l'effetto sorpresa utile per aumentare lo stress dell'interrogato-torturato. Questa procedura - una delle più controverse del "manuale del perfetto torturatore" istituito sotto l'amministrazione Bush e bandito, a questo punto solo a parole, nel 2009 da Barack Obama - comporta oltre a quel che è facilmente riscontrabile nei video (dolore, panico) anche gravi lesioni ai polmoni e danni cerebrali dovuti alla mancanza d'ossigeno. Avremmo forse dovuto dare più importanza - nel pieno dell'enfasi dell'"Yes, we can" - allo stop che lo stesso Obama impose in merito alla costituzione di una commissione indipendente che indagasse sui metodi utilizzati sotto Bush.
Io non so come siano gli elettori americani. Non so se sia facile abbindolarli con le chiacchiere come nella vecchia Europa o meno, ma è ormai chiaro che tra il bushismo e l'Obaganda ci siano ormai differenze quasi impercettibili (quanto meno su questi temi), ma questa è un'altra storia...
È giusto carpire informazioni ricorrendo alla tortura? Ancor meglio: è giusto utilizzare la tortura nella lotta al terrorismo? La tortura - lo sanno anche i sassi - è una forma di terrorismo fisico e psicologico. Su questo non credo ci siano dubbi. Ma a questo punto - riformulando la domanda: è giusto rispondere al terrorismo con il terrorismo? Qual è la differenza - evidentemente sottilissima - tra il terrorismo di un network come Al Quaeda o come quella di un dittatore e quella di un paese considerato "civile" e "democratico"? Anzi - come faceva notare il quotidiano "Libero" qualche giorno fa - non stiamo parlando di una democrazia, ma della Democrazia per antonomasia, gli States. «e qualsiasi democrazia» - continua l'articolo - «condanna la tortura per principio».
Qui incontriamo - anzi, ci scontriamo - con un altro dei "grandi temi" su cui dibattere: può la democrazia derogare a se stessa come forma di auto-tutela? Come scrive Alan Morton Dershowitz - giurista e docente di Giurisprudenza ad Harvard - sul quotidiano La Stampa di mercoledì scorso:
Io sono contrario alla tortura nei confronti dei detenuti, ma quando si tratta di ottenere informazioni capaci di salvare la vita di innumerevoli civili allora è legittimo adoperare anche tecniche di interrogatorio dure, pur di avere le informazioni utili a scongiurare il peggio.
Sulla pericolosità di Osama Bin Laden per la collettività nessuno poteva avere dubbi e dunque qualsiasi tecnica di interrogatorio per arrivare alla sua cattura o eliminazione è stata a mio avviso legittima. Se un terrorista uccide i civili di una nazione, tale nazione ha diritto di difendersi considerandolo un obiettivo legittimo di una guerra che quello ha iniziato.
Io non mi trovo molto d'accordo con la posizione di Dershowitz, per il quale - de facto - «quando si tratta di ottenere informazioni capaci di salvare la vita di innumerevoli civili allora è legittimo adoperare anche tecniche di interrogatorio dure» (tralasciando l'eventuale dibattito su cosa intenda per "tecniche dure"). Non mi trovo d'accordo perché - generalizzando il discorso - il mondo sarebbe pieno di terroristi che dovrebbero essere eliminati, di torturati e torturatori che possono agire per «salvare la vita di innumerevoli civili».
Non sono d'accordo perché - a questo punto - dovremmo tornare alle fondamenta del discorso e definire cosa - o chi - è "terrorista" e, dunque, chi decide la differenza. La migliore definizione, secondo me, l'ha scritta poco meno di una decina di anni fa - nell'ottobre 2001 - Tiziano Terzani in una lettera ad Oriana Fallaci parlando peraltro proprio di Osama Bin Laden (i due si "parlavano" attraverso le colonne del Corriere):
Il terrorista che ora ci viene additato come il "nemico" da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamico fanatico, che in nome di Allah uccide sé stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo a una folla.In questo senso mi viene in mente la Libia di questi giorni, mi viene in mente l'Afghanistan, mi vengono in mente l'Iraq e Bhopal. Se consideriamo "terrorismo" solo quello de «l'ingegnere-pilota, islamico fanatico, che in nome di Allah uccide sé stesso e migliaia di innocenti» allora forse ha ragione Dershowitz: la democrazia e la "civiltà" occidentale possono essere derogate come forma di auto-tutela. Se, come dice Terzani, il terrorismo non è solo quello o dobbiamo riconsiderare cosa intendiamo quando parliamo di "democrazia", di "civiltà" e di "(tutela dei)diritti umani" oppure dobbiamo allargare il banco degli imputati e riconfigurare il (non)processo al Bin Laden o all'al-Gaddafi di turno a tutto l'Occidente. Ed è proprio per questo, forse, che Guantánamo è ancora aperta. Ma questa è un'altra storia...
Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione e inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso la gente muore di fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare a una definizione comune del nemico da debellare.