Per la terza volta ho partecipato ad uno stage con Shimizu Sensei, il secondo a Milano e ancora una volta sono rimasto estasiato dalla pratica dolce e fluida ma forte e decisa del Maestro. C’era qualcosa di diverso però rispetto alle volte precedenti. L’anno passato e poi a NoviSad avevo preferito praticare con l’obi bianco. Non mi sentivo pronto ad indossare l’hakama dinnanzi a praticanti di così alto livello. L’hakama è in fondo un “abito” che tutti possono indossare (ai tempi di O’Sensei tutti la portavano) ma per me era il simbolo di un livello che avrei dovuto avere, di certe competenze tecniche che avrei dovuto dimostrare ma che non sentivo di avere (a volte la scarsa fiducia in me ritorna).
Non mi sentivo all’altezza e pensavo che indossandola avrei sminuito il lavoro di praticanti molto più esperti di me, che l’hakama se l’erano sudata per molto più tempo e avevano una preparazione tecnica molto più elevata. Indossare solo l’obi pensavo mi avesse messo nella condizione di apprendere maggiormente, perché i vari sensei/sempai mi avrebbero trasmesso le loro conoscenze con maggior impegno ritenendomi un novizio (cosa che in realtà sono veramente). Quanto mi sbagliavo…
Sono stati tre giorni intensi, spossanti ma appaganti. All’inizio – come ho detto -temevo di non sentirmi all’altezza ma presto le idee più o meno stupide che mi attanagliavano se ne sono andate. Il rispettoso silenzio dei praticanti in seiza in attesa dell’ingresso del Maestro. Poi l’entrata con la sua camminata fino al kamiza e il saluto che sancisce l’inizio della pratica hanno creato in me una sensazione di emozione/commozione per la solennità del momento. Mi sentivo parte di qualcosa di unico e meraviglioso, di grande, di importante. Vedere poi Shimizu Sensei praticare mi ha trasmesso un senso di pace, di leggerezza. Sembrava tutto cosi facile, fluido, limpido. E allora al diavolo l’idea di non essere in grado. Mi sono detto “Chi se ne frega di tutte queste malsane idee e castelli in aria. Sono qui per imparare e praticare. Quindi facciamolo. Anche se sbaglio non importa, non devo dimostrare niente a nessuno.”
L’ha spiegato bene il Maestro:
Gli uomini occidentali vogliono sempre dimostrare agli altri di essere forti. Ma per sconfiggere un avversario bisogna prima essere in grado di sconfiggere se stessi.
Proprio questa è la via che ho deciso di intraprendere, una via per il cambiamento in una persona migliore, più FORTE. E da quel momento la pratica è filata liscia, anzi l’attenzione era molto superiore. Durante la pratica mi sono permesso di ascoltare il mio corpo, il mio centro, i miei movimenti. Sentire la tecnica e sentire il mio corpo eseguirla al fine di individuare i punti da correggere, sentire dove (e come) riuscivo e dove no. Cosa che quando indossavo soltanto l’obi non ho fatto, aspettando con erroneo lassismo che fossero i sempai/sensei a indicarmi dove stavo sbagliando. Mi sono goduto con calma ogni singolo spostamento, ogni singola sensazione, ho percepito ogni singola goccia di sudore che imperlava il mio viso come unica e nonostante questo parte di un insieme… l’insieme del mio impegno, della voglia di crescere, di migliorare e quindi di cambiare. Mi sono concesso di sbagliare, di sentire di aver sbagliato e godere di questo errore. Mi sono goduto un mare di sensazioni diverse perché il mio obiettivo non era apprendere nozioni tecniche fini a se stesse da fotocopiare, ma piuttosto capire, sentire e cercare di adattare l’aikido alla mia persona al fine di calzarlo come fosse un abito fatto a misura.
Mi sono emozionato e mi sono sentito onorato, anche se un po’ intimorito, quando Shimizu Sensei in persona mi ha corretto, quando Birgit Sensei mi ha consigliato un modo per eseguire meglio una tecnica e quando Waka Sensei Kenta Shimizu mi ha fatto da uke. Ho fatto mio il consiglio di Axel su come eseguire senza sforzo ryote-dori tenchi-nage e mi sono sentito lusingato sull’apprezzamento di Alessandro per un sankyo uscito particolarmente bene. Nonostante la stanchezza è stato sicuramente lo stage più bello dei tre a cui ho partecipato. Sono riuscito a praticare a mente serena, vuota, dedicando quei tre giorni a me stesso e alla mia crescita tecnica oltre la tecnica. Ho capito di dover ricominciare ancora una volta dalla base e ricostruire ancora una volta tutto il percorso a partire da un “banale ikkyo”, perché l’aikido è un viaggio infinito verso un cambiamento che non ha mai fine, di cui sono felice di riuscire, finalmente, a fare semplicemente un passo alla volta…
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