Dove inizia la sfida femminista? Riflessioni e impressioni sulle criticità che abbiamo rilevato nell’azione delle Femministe Nove a Paestum 2013
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«Polemizzare tra donne è far guerra. Per fare questa guerra occorre avere un profondo senso della dignità propria e dell’altra. È un giuoco elevato e non corrisponde a quei modi che si risolvono nella capacità di ogni linguaggio di procedere indipendentemente dalle interlocutrici (…). Vi sono molte maniere di avvilire un’incontro di guerra tra donne; uno di questi è l’immiserire l’altra in un piano in cui tutto quello che avviene lì è svuotato da un’altra istanza che si determina altrove (…) Non rimane che una sola guerriera, l’altra è una donna di esercito: è una che combatte senza avere nelle sue mani la ragione del suo lottare. Il suo destino non è legato alla necessità” di un condiviso, non appartiene alla parola dell’incontro, è tenuto da altri fili».
Angela Putino, Arte di polemizzare tra donne, in “Sottosopra”, giugno 1987 [*]
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Il cuore della politica: le pratiche di relazione
Il femminismo è radicale messa in discussione del sistema culturale politico e sociale. Messa in discussione che significa sovvertimento dei principi, critica dei fondamenti.
Il fondamento della politica moderna è l’idea dell’identità: l’azione politica è azione di un corpo unico, la volontà generale, corpo uniformato e uniformante, una volontà che è riflesso dell’unico soggetto politico, il maschio occidentale, bianco, eterosessuale, soggetto a partire dal quale si concretizzano specifiche pratiche, pratiche uniformanti, incentrate su sistemi gerarchici in cui il primo segna la strada dell’uniformazione degli altri. Il corpo unico non si esprime solo come volontà generale, delineata nel concetto di ‘maggioranza’, ma anche nell’idea di minoranza: opposizione solo apparente all’uno, in realtà suo perfetto contrappeso.
La politica moderna si fonda quindi su due macro-corpi identici che confliggono solo apparentemente, ma che in realtà bilanciano il sistema, lo mantengono in equilibrio. Il conflitto qui non è conflitto fecondo, ma lo sterile gioco, la messa in scena di una politica che non è politica ma amministrazione dell’equilibrio.
Il confronto a due parti in sé uniformate non è politica.
La politica è altro. Ed è a partire dal femminismo che abbiamo potuto capirlo. L’idea del partire da sé racchiude infatti, in nuce, un’idea alta di politica: la negazione dell’uniformazione nel corpo unico dell’identità e della sua opposizione “identica”. Essa è anche piena assunzione di responsabilità nei confronti della politica: partire da me, vuol dire mettermi in gioco davvero. Affinché il partire da sé diventi politica è necessario il rapporto diretto con l’altra/l’altro, il che significa uscire dall’ottica dell’opposizione, della negazione, della distanza all’altra. È uscire dalla logica dicotomica dell’esclusione e dell’inclusione.
Ed è qui, nel conflitto aperto prodotto dallo spogliarsi da qualunque barriera protettiva che il conflitto tra più voci può diventare armonia, armonia come prodotto del faticoso passaggio, del passare davvero attraverso il conflitto.
Salire le scale, quando tutte le altre si confrontano alla pari, sullo stesso terreno, in mezzo alle altre e non sopra alle altre, è negazione della pratica femminista. È produrre una separazione che mentre pone delle distanze, nega la pluralità delle voci: suddivisione tra pubblico ed attori, cesura che mentre separa “unifica” le parti divise. Ma noi non vogliamo essere ridotte a pubblico, non vogliamo ridurci ad una voce unica, né ad un ascolto unico. Di questo sistema che ci ha oppresse per molto tempo non vogliamo salvare nulla. Le sue pratiche sono pratiche di oppressione, sono il contrario della libertà.
Presupposto del femminismo è la “relazione”: il porsi in relazione all’altra vuol dire rinunciare alla propria assolutezza, a qualunque forma di egocentrismo, alle comodità del protagonismo. Relazione vuol dire negazione dell’identità e dell’opposizione, vuol dire pluralità.
Orizzontalità, pluralità, prossimità, presupposti primi della relazione sono ciò che rendono il femminismo quello che è: una pratica rivoluzionaria, una sfida concreta al cuore della politica.
La falsa dicotomia delle “generazioni”
Dalla mancanza della relazione nasce la contrapposizione che porta ad una cristallizzazione malsana delle identità. Sul palco ci sono le “giovani”. L’assemblea di fronte a loro – che nel frattempo ha subito la metamorfosi in un pubblico quasi televisivo – è fatta da femministe “storiche”.
«Non vogliamo vivere il confronto fra generazioni femministe né nell’asimmetria di potere e di autorità né nell’invidia dell’epica di una stagione aurorale».
Generazioni femministe. Diverse donne, isolatamente, hanno già notato come la dicotomia giovane/vecchia sia insoddisfacente e, su diversi piani, addirittura falsa. È falsa, per esempio, sul piano economico e di classe: posto che una generazione – che per inciso è anche quella di chi scrive – è stata colpita in modo più sistematico dall’erosione di diritti e dalla mancanza strutturale di lavoro, non possiamo ignorare che esistano giovani donne benestanti che vivono godendo di situazioni economiche solide, mentre donne anche avanti con l’età si trovano in condizioni economiche precarie. Giovani/vecchie trappola interclassista?
La dicotomia giovane/vecchia è poi falsa sul piano relazionale, dato che non c’è ragione per cui l’età anagrafica dovrebbero di per sé creare condizioni favorevoli a un rapporto autentico fra donne. La sorellanza tra donne è una conseguenza non solo logica ma emotiva della presa di coscienza del personale/politico.
Non ultimo, la dicotomia è falsa sul piano concreto delle donne presenti in quel qui e ora, tanto da divenire un’introiezione di concettualità provenienti da un altrove non certamente femminista: davvero “giovani” vogliono definirsi le Nove (nuove), quando è chiaro da anni che uno dei sintomi dell’inferiorizzazione sociale della nostra generazione passa attraverso la dilatazione della “gioventù” a fasce di età inimmaginabili fino a pochi anni fa? Siamo sicure che siano “ragazze” donne adulte di 30, quasi 40 anni?
Nonostante queste falsità di fondo, si è diffuso, nella sala dell’Ariston che ospita l’assemblea plenaria di Paestum 2013, l’effetto mistificatore della dicotomia. In primo luogo, le giovani sono tutte e sole le donne presenti in quel momento sul palco. Il punto di vista di una generazione – che naturalmente ha al suo “interno” enormi differenze, che nei mesi precedenti all’incontro e fino a quel momento erano state esplicitate anche duramente, ma appieno – viene assorbito in un unico punto di vista. Punto di vista unico che tutte, sul palco, paiono condividere virgola per virgola. Un pensiero corale per una generazione intera, omologata e coesa. Colpisce che chiunque di loro avrebbe potuto leggere il discorso per tutte le altre: sono “giovani”, in blocco, e sembrano vivere con una gioia strana il desiderio mancato di non portare niente di proprio, di personale, nell’assemblea, ma solo qualcosa di già “masticato” altrove, in assenza di tutte le altre. Di non entrare in relazione con presenti che sono “esterne” al loro gruppo (è inequivocabile oramai che ci sia un dentro e un fuori).
Viceversa e parimenti, se “loro” sono le “giovani”, allora l’assemblea di “tutte le altre” è fatta di? “Vecchie”: quell’altra “generazione”, in cui tante si scoprono sbrigativamente disposte a giustificare una pratica e dei toni anche di voce – che mai, va detto, avrebbero accettato da un gruppo di proprie coetanee – pur di apprezzare le “giovani”, apprezzamento a priori che sembra quasi un valore in sé. Apprezzamento apriori da cui personalmente, in quanto a mia volta considerata “giovane”, mi difendo anche aspramente, almeno con coloro con cui desidero una relazione autentica.
Il meccanismo di infantilizzazione da un lato (il gruppo, il blitz giocoso, la gioiosa omologazione) e di maternage dall’altro (assunzione del ruolo materno, con lo scopo della cura per la crescita delle “piccole”) crea tra le donne un meccanismo malsano. Meccanismo di “asimmetria di potere e di autorità, di invidia dell’epica”, sì, ma nella forma peggiore, cioè quella non solo implicita ma addirittura in quanto tale invocata, stimolata.
Tra “generazioni” non si tratta di essere tutte alla pari. Al contrario, ponendosi da donna adulta e autonoma a donna adulta e autonoma, e assumendosi a pieno la propria responsabilità individuale, è necessario avere la forza e la serenità di nominare e accettare le disparità. Disparità che non si piazzano tutte su un unico piatto della bilancia, a favore di una generazione rispetto all’altra, ma sono sempre circostanziate (su aspetti specifici) e circolanti (non apriori).
Forse il termine “generazione”, che tutte, me compresa, abbiamo usato ampiamente fin qui, è ambiguo, perché già da sé raggruppa e omologa, e sarebbe preferibile chiarire innanzitutto il nostro linguaggio utilizzando il termine “età”? È una proposta.
Forse lo “scontro generazionale” che ci stanno raccontando star avvenendo nella politica dei partiti è un messaggio mediatico che ci ha suggestionate più di quanto vorremmo ammettere?
Forse vivere nel Paese con uno tassi di natalità di bassi e una delle età medie più alte del Pianeta sacralizza le “giovani”. Ma se questa inferiorizzazione viene sancita da una richiesta di riconoscimento a senso unico essa finisce per asservire chi la fa… e “invecchiare”, davvero, chi la riceve.
Stato di rivoluzione (necessaria) permanente
«Stato di eccitazione permanente» si legge sullo striscione che srotolano le Femministe Nove dopo aver occupato lo spazio del palco. Già da qui si comprende la direzione simbolica che la loro azione prenderà contenutisticamente. Tolto il leggerissimo velo di ironia, quel che resta è il desolante trasferimento – in uno spazio di presa di parola femminista – di quel dictat che la nostra società impone alle donne in quanto tali.
La nostra società, che in questo intreccio di capitalismo neoliberista e patriarcato è per le donne “società prostituente”, propone ad esse il ruolo “classico” ipersessualizzato e pornografico, di continua e costante disponibilità che, oggi, grazie alla neutralizzazione di concetti femministi operata dal patriarcato, viene assunto liberamente, spacciato per libera scelta e autodeterminazione.
«La nostra autodeterminazione non ha contenuto»
I contenuti proposti nel manifesto letto dalle Femministe Nove, toccano uno per uno i nuclei tematici esposti nella lettera di invito a Paestum 2013, che il collettivo ha deciso espressamente di non firmare. Lo sviluppo di questi punti, poi, così come lo striscione stesso, sembrano scontare un riferimento ad una prospettiva post-femminista in cui il concetto di libera scelta diviene adeguamento allo status quo e in cui l’individualismo diviene il metro di giudizio e il punto su cui innestare le relazioni. Ciò pare evidente in particolare nella retorica – che attraversa tutto il manifesto – secondo la quale di certi argomenti non si può parlare se non ci coinvolgono personalmente e direttamente.
Questo argomento, presente anche nel documento stilato dalle Femministe Nove per spiegare i motivi che hanno portato alla mancata firma della Lettera di invito 2013, è conseguente all’idea di un soggetto atomizzato cieco alle relazioni con gli altri soggetti e incapace di mettersi in discussione e in relazione. Invocando tale argomento si rifiuta l’assunzione di responsabilità nei confronti delle altre. E ciò stride fortemente con la prospettiva femminista che sì, parte da sé, ma proprio grazie ad una preliminare e necessaria presa di coscienza, ci rende attente alle ingiustizie sociali che coinvolgono anche le altre, sia quelle in relazione con noi sia quelle che non lo sono.
L’argomentazione secondo cui non si può parlare di ciò che non si vive in prima persona conduce ad un “femminismo individualista” che rappresenta un ossimoro privo di senso.
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[*] Il passaggio riportato in esergo è stato citato da Tristana Dini nel suo intervento in assemblea plenaria a Paestum, appena dopo quello delle Femministe Nove.