Devo aprire questo post con un pensiero scalpitante che mi porto dietro da qualche istante dopo l’inizio di questo film: Daniel Craig recita bene e sa cambiare espressione!
Detto ciò, credo di dover aggiungere qualche premessa:
- primo, ho visto il film in inglese con sottotitoli in inglese, quindi potrei aver perso qualche sottigliezza e praticamente ho avuto immane difficoltà a seguire la scena delle poesie recitate più velocemente possibile dal gruppetto di amici di cui fa parte anche Ted Hughes
- secondo, detesto Gwyneth Paltrow ma la trovo molto adatta a questo ruolo perché il suo viso è depresso quanto basta
- terzo, Daniel Craig ha troppi muscoli e ci ho messo molto impegno per vederlo come Hughes e non come Bond
Questo film è stato poco considerato dal pubblico e dalla critica (almeno da come ricordo io, che nel 2003 ero una quindicenne disinteressata, ahimè, alla poesia e a ciò che la riguardasse) o, se non altro, è stato presto dimenticato e accantonato.
A ragion veduta posso dire che poteva andare peggio, ma poteva anche andare -decisamente- meglio.
Il film tratta, in maniera fin troppo delicata, le vicende della poetessa americana Sylvia Plath, morta suicida nel 1963 soffocandosi con i gas emessi dal forno di casa. Ne tratta partendo dal momento in cui la giovane poetessa, ventiquattrenne ed estremamente malinconica, conosce l’amore e la dannazione della propria esistenza, il poeta Edward “Ted” Hughes.
L’uomo è già famoso quando la incontra ed è fin troppo allettato dalla vicinanza del sesso femminile da rendersi sinceramente insopportabile.
I tratti umani dei personaggi in questo film sono difficili da identificare; quando si pensa di poter aver colto qualcosa di più profondo di ciò che si sa già, ecco che la regista cambia inquadratura, taglia il montaggio troppo presto o prolunga la sequenza quel di più che basta a sciacquare via tutto il lavoro compiuto in precedenza.
La prima parte vola via rapidamente e confusamente, con altresì qualche piccolo errore di carattere biografico: dov’è il fratello minore di Sylvia, tassello importantissimo della propria dolorosa esistenza, colui che ha involontariamente determinato parte del difficile legame fra Sylvia e la madre? Per quale motivo si accenna così rapidamente del padre e così rapidamente dei suoi tentativi di suicidio precedenti quello, fatale, del 1963? Il mio timore è che la regista abbia avuto paura, trovandosi di fronte un soggetto più grande di lei: la morte di un pilastro della poesia americana che viene tristemente ricordata più della vita. Non basta inserire qualche sguardo depresso e laconico, qualche crisi di pianto per trasmettere tutta l’immensa persona di Sylvia Plath.
In certi momenti questo film la fa passare come una fragile e capricciosa bambina incapace di sopravvivere privata del proprio sostegno, il proprio uomo. Non ne esplora le profonde ferite interiori, non ne esplora la forza incredibile di donna risollevatasi dalle proprie tremende e profondissime cadute, non trasmette quasi nulla della propria energia poetica. E’ un film vuoto, in questa prima parte sopratutto.
La ripresa avviene nella seconda parte, che identifico nel momento in cui Sylvia si separa dal marito, dopo averne scoperto il tradimento: qui Gwyneth Paltrow appare incredibilmente immersa nel proprio ruolo, pressoché irriconoscibile rispetto alla prima parte e con lunghi capelli biondo / rossiccio, proprio come quelli della poetessa. La dinamica inesplorata qui è la vita solitaria di una donna fragile ma cosciente con due figli piccoli che ama follemente e a cui non farebbe alcun male, cosa peraltro assolutamente attinente alla realtà. Viene presentato un appiglio maschile, quasi a rincarare l’idea che senza uomini non si possa sopravvivere: il padrone dell’appartamento nel quale vive la donna con i due figli diviene una seconda impreparata spalla su cui piangere. Un uomo distratto.
A proposito degli uomini, che ci sono sempre e sembrano più un’ancora di salvezza per la regista più di quanto lo siano realmente stati per Sylvia Plath: sono stolti, deboli, infantili, superficiali, insensibili, inadatti. Ma sempre presenti, davvero non se ne sentiva il bisogno.
Non c’è mai un vero istante nel quale si possa esplorare la solitudine di Sylvia, perché la scena è sempre affollata di presenze e troppo brevi risultano le sequenze durante le quali la donna appare nella propria profonda inquietudine interiore: la scena immediatamente successiva alla separazione da Hughes, nella quale la Plath prende auto, figli e disperazione e si dirige sulla spiaggia, ad esempio. Sylvia guarda il mare in burrasca, il cielo grigio plumbeo e il colore terroso dell’acqua con il palpabile desiderio di lasciarsi annegare. Guarda i bambini che la osservano tranquilli dalla macchina e ci ripensa, almeno per questa volta.
Questa scena sarebbe potuta seguitare con altri momenti di silenziosa riflessione, ma la regista si è sentita in dovere di spegnere quella riflessione tagliando la scena e riempiendo quelle successive di presenze, presenze, presenze.
Il film avrebbe avuto bisogno di una dose ben più massiccia di silenzi: fra Sylvia Plath e Ted Hughes, fra Sylvia Plath e sua madre, fra Sylvia Plath e Sylvia Plath. Ma niente, non ci sono, così come c’è poca poesia, incredibilmente.
Se qualcosa si può recuperare in toto di questo film è la scena, finalmente muta, del suicidio.
Sylvia bussa alla porta del proprietario dell’appartamento e gli chiede qualche francobollo per imbucare alcune lettere dirette in America in serata, rispondendo alle domande del proprietario che le chiede se non possa spedirle al mattino seguente con un copione organizzato: ci sarà la tata, domattina e io sarò via. L’uomo le da i francobolli, che gli vengono pagati, e chiude la porta. Sylvia rimane ad osservare la porta -soggettiva-, poi guarda il brutto lampadario appeso alla soffitta e gli occhi le si riempiono di lacrime ma lo sguardo le si riempie di serenità tanto che, quando l’uomo riapre preoccupato la porta chiedendole se sia il caso di chiamare qualcuno, lei risponde che ha fatto un sogno bellissimo.
Risale dai suoi bambini e il mattino seguente prepara due fette di pane su cui spalma del burro, riempie di latte due bicchieri e li lascia, in un vassoio, a terra nella camera dei piccoli. Apre la finestra della loro stanza, chiude la porta della stanza dopo aver rimboccato le coperte ai bambini e si dirige in cucina. Si chiude dentro e sigilla la stanza con dello scotch, in modo che i bambini non debbano subire alcun danno da ciò che sta per accadere. Prende un asciugamano arrotolato e sappiamo che il suo ultimo sguardo è rivolto al forno dallo sportello spalancato. Buio. Vediamo la concitata conseguenza del proprio gesto, la scoperta del cadavere, i bambini portati via in fretta e furia, Hughes che piange di fronte ad Ariel, la raccolta di poesie della ex moglie.
Questa sequenza si salva perché non mostra. Non mostra ciò che è stato fin troppo mostrato, non mostra il corpo esanime di una donna con la parte alta del busto completamente infilata in un forno a gas, non mostra l’atto, il gesto del suicidio. Il suicidio avviene ma pudicamente non viene presentato. Un pudore giusto, dopo tanta sovraesposizione, dopo tanto clamore.
La fine di Sylvia Plath è precisamente ripresa dalla biografia: Sylvia ha realmente preparato pane e burro per i suoi piccoli, ha realmente coperto le fughe della porta con lo scotch ed ha utilizzato quell’asciugamano arrotolato per appoggiare la testa dentro al forno acceso. Aveva progettato tutto con spaventosa meticolosità, quella propria di chi ha deciso coscientemente di morire.
I motivi auspicabili sono pochi: la depressione e la separazione dal marito fedifrago da sempre i soli accreditati, a mio avviso riduttivo il secondo ma ben più comprensibile il primo. Ma non sono qui per propinare un’indagine sulla morte sovraesposta di una poetessa.
Queste ultime sequenze, con quella del corpo trasportato via dall’ambulanza sulla neve fresca accanto all’automobile coperta di un manto freddo ed occlusivo, migliorano un film insipido, superficiale e caotico. Mancano i momenti di scrittura, sopratutto, in particolar modo, come ho già evidenziato, manca la poesia.
Gwyneth Paltrow e Daniel Craig se la cavano fin troppo bene in un film nel quale non si avverte alcuna impronta registica ma un insieme raffazzonato di elementi cuciti assieme con una volontà estetizzante troppo forte per prevalere sul soggetto.
I costumi, le scenografie, le acconciature: tutto curato perfettamente per lo sguardo, ma poco interessante per la mente. Un tentativo goffo di connettere il vivacissimo colore pastello degli abiti delle signore anni ’50 con la falsità delle relazioni sociali e dell’oppressione che la Plath provava c’è, ma affonda quasi subito con un Daniel Craig che fugge in casa della moglie per un drink seguito dalla madre anche troppo apprensiva che lo mette in guardia dal ferire la figlia.
Mi ha lasciata con molte domande e una voglia estrema di leggere le poesie della Plath e tutto ciò che le appartiene biograficamente e intellettualmente per colmare le immense lacune che lascia questo film.
Gli attori ci hanno provato, si nota il loro impegno, il film rende giustizia ad un Daniel Craig sempre bistrattato dalla critica ma indulge in certi elementi non richiesti, in nudi integrali non richiesti, in scene di sesso tanto per, in scene di pianto tanto per.
No, grazie. Una donna che è stata simbolo di forza spirituale e coraggiosa auto-introspezione non la si può scialacquare via presentandola come una pazza depressa ed esaurita.
Voto:
♥♥/// (due cuoricini su cinque)