ORLO
L'11 febbraio 1963 Sylvia Plath si tolse la vita: sigillò porte e finestre ed inserì la testa nel forno a gas,non prima di aver scritto l'ultima poesia intitolata "Orlo" ed aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini.
La donna è a perfezione.
Il suo morto Corpo ha il sorriso del compimento,
un'illusione di greca necessità scorre
lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi piedi sembran dire: abbiamo tanto camminato,
è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti
ciascuno come un bianco serpente
a una delle due piccole tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
Dentro il suo corpo come petali di una rosa
richiusa quando il giardino s'intorpidisce
e sanguinano odori dalle dolci,
profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d'osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
Tratto dal suo diario:
“Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione”