commento di Elisabetta BartuccaSummary:
Dolente, malinconico, esistenziale. Un uomo e le sue ossessioni, i propri fantasmi, le proprie ombre pirandelliane, la sua mediocrità e una viscerale paura della morte: ci sono voluti sei anni prima che “Synecdoche, New York,” il monumentale esordio alla regia di Charlie Kaufman (lo sceneggiatore di “Se mi lasci ti cancello”), arrivasse anche nelle nostre sale. A colmare il vuoto ci ha pensato la Bim che lo distribuirà nei cinema dal 19 giugno, non prima però di averlo fatto sbarcare al 60° Taormina Film Fest. Un’operazione che diventa anche il modo per omaggiare l’attore protagonista del film: un immenso Philip Seymour Hoffman, l’attore americano scomparso lo scorso 2 febbraio stroncato da un’overdose di eroina.
“Synecdoche, New York è forse il film più inventivo e personale dell’attore americano di maggior talento e risorse espressive degli ultimi vent’anni ed era incomprensibile non fosse ancora uscito in Italia – commentano dal Taormina Filmfestival – siamo davvero felici ed orgogliosi di ricordare Philip Seymour Hoffmann presentando questo film in anteprima per l’Italia nel nostro Festival”.
Fu lui il prescelto da Kaufman per interpretare il visionario, folle e struggente regista Caden Cotard, alle prese con l’ennesimo allestimento teatrale che ancora una volta andrà a saziare le velleità artistiche di un manipolo di vecchietti nel teatro locale di Schenectady, periferia di New York.
Caden non ha nulla per cui definirsi soddisfatto: sua moglie Adele (Catherine Keener) lo ha lasciato per seguire la carriera di pittrice a Berlino, portando con sé la loro unica figlia Olive (Sadie Goldstein); la sua psicologa, Madeleine Gravis (Hope Davis), è completamente assorbita dalla promozione del suo ultimo libro più di quanto non lo sia dal proprio lavoro di terapeuta; anche la relazione con l’ingenua Hazel (Samantha Morton) va a rotoli. Intanto una misteriosa malattia comincia lentamente a minarne le funzioni vitali, per cui Caden decide di dedicarsi all’allestimento di un’opera gigantesca, sincera e straziante come la vita stessa. La risposta è un vecchio magazzino abbandonato di New York: qui Caden riunirà un gruppo di attori e per diciassette anni li dirigerà nel tentativo di far vivere a ciascuno una vita artificiale in una serie di luoghi ricostruiti. Ma ad andare in scena alla fine sarà la sua stessa esistenza: fatti, sentimenti, aspirazioni, incubi, battaglie e amori perduti in un infinito gioco di rimandi tra finzione e realtà.
Un’opera bizzarra e surreale, una sublimazione grottesca dell’esistenza attraverso l’espediente meta-teatrale e onirico, in perfetto stile kaufmaniano: “Mi interessano i sogni e come nei sogni raccontiamo a noi stessi delle storie – confessa – Questo film non è onirico, ma ha una logica onirica. In un sogno puoi spiccare il volo e trovarlo del tutto normale e non è certo la reazione che avresti nel mondo reale. Quindi tutto quello che accade nel film va preso per quello che è: è quello che succede. Non fa niente se nella vita reale non accadrebbe, è un film!”.
Per due anni Kaufman ha raccolto appunti, scandagliato incubi e paure e vagliato ipotesi, imbastendo una sceneggiatura che alla fine si è rivelata ben diversa dall’idea originaria: un horror scritto da lui e che Spike Jonze – produttore del film – avrebbe dovuto dirigere. Salvo rinunciarci per dirigere altri progetti – come “Nel paese delle creature selvagge” – e cedere il timone allo stesso Kaufman: “Era non solo naturale, ma persino inevitabile che Charlie passasse alla regia a un certo punto”.
Il risultato è un’opera sulla vita, il ricordo, il tempo, il paradosso. Intima, sincera e struggente istantanea di un’umanità agitata e inutilmente convulsa. Tutta scolpita nel volto contrito di Hoffman.
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net