20 maggio 2012, una data che non dimenticherò facilmente, ce l’ho impressa sulla pelle e nella mente. Lui era partito da 13 giorni. 13 giorni in cui avevo pianto ininterrottamente. L’ennesima delusione d’amore, l’ennesima ferita. Il 20 maggio era sabato ero uscita, decisa a bere più del dovuto per riuscire a divertirmi almeno un po’. Avevo bevuto e tanto. Non mi importava fare tardi, avrei aspettato le 3 del mattino per parlare con lui.
Tornai a casa canticchiando per strada. Mi sentivo felice, in fondo lui non mi aveva cancellata dalla sua mente…è vero era partito senza pensare due volte a cosa lasciava indietro ma mi chiamava tutte le sere. Sarei sopravvissuta, sarei uscita con le mie amiche come avevo fatto quella sera, mi sarei divertita e avrei trovato il modo di andare a trovarlo. Potevo giocare a poker…in fondo ero abbastanza brava e quella sera, presa dai fumi dell’alcol, pensai fosse l’unico modo di procurarmi soldi in fretta. Andai a casa, misi il pigiama e accesi il pc…partitina in attesa di una sua telefonata.
Dopo pochi minuti rientrarono i miei coinquilini con degli amici e una bottiglia di amaro, abbandonai l’idea di giocare per quella sera e rimasi a ridere e scherzare con loro in cucina. Era una serata tranquilla, faceva freddo e mi ero avvolta nel mio pigiamone di pail, la notte era così silenziosa e l’atmosfera piacevole. Poi si sentì un rumore, fu come se un’aspirapolvere gigante ci stesse risucchiando via. Non facemmo in tempo a capire cosa fosse stato che la terra iniziò a tremare.
I primi secondi furono di sguardi atterriti e incredulità, nessuno di noi capiva cosa stesse succedendo. I mobili cominciarono ad aprirsi e chiudersi da soli, la televisione ad oscillare pericolosamente verso di noi e la mia coinquilina urlò “Sotto le porte! Il terremoto!” Non avevo mai vissuto un terremoto prima di allora, un conto è sapere cosa si fa in caso di terremoto, un altro è viverlo, avere la lucidità in un momento di panico totale. Così, immobilizzati sotto le porte, stringendoci le mani per darci forza, guardavamo impietriti gli oggetti animarsi sotto i nostri occhi. I 50 secondi più lunghi della nostra vita seguiti da un infilati le scarpe e corri giù dal quarto piano sperando che le scale non ti tremino sotto i piedi mentre scendi. Incontrare vicini di casa di cui non sai neanche il nome e guardarli con occhi incoraggianti, arrivare fuori e guardare istintivamente verso l’alto. La casa è in piedi, siete tutti giù, la tensione cala.
Piansi. Piansi per scarica di adrenalina, piansi perché mi sentivo in colpa ad aver bevuto e rischiato di non essere lucida abbastanza da affrontare una cosa del genere, piansi perché avevo paura. La mia prima preoccupazione furono i miei genitori: svegliarli in piena notte o non dire niente e aspettare che mia madre avesse acceso la TV e sentendo la notizia si fosse spaventata? La mia seconda preoccupazione fu lui: era lontano e non sapeva niente, sua madre viveva sola, l’epicentro è a venti kilometri, casa sua è a venti kilometri, la chiamo? Mi odia da quando mi ha vista. Poi iniziò il freddo, qualcuno salì a prendere le giacche sfidando le scale. Per strada i bambini camminavano mano nella mano con i propri genitori stringendo un cuscino nell’altra, lo sguardo assonnato, i genitori ci chiedevano se avevamo notizie dai nostri telefoni tecnologici.
Dopo un’ora decidemmo di risalire a casa. Scrissi su facebook “Se qualcuno della mia famiglia dovesse leggere, sappiate che stiamo tutti bene.”. Lui mi aveva scritto “Che ai? Sei connessa e non rispondi?” risposi “C’è stato un terremoto fortissimo a Bologna. L’epicentro è a venti kilometri da qui. Chiama tua madre appena leggi questo messaggio.” Mi infilai i primi vestiti che trovai. Ci fu solo il tempo di fare quello. L’imprecazione di un giornalista alla tv ci preannunciò l’arrivo della seconda scossa. L’immagine della pentola che camminava sulla cucina resterà per sempre nelle nostre menti. Decidemmo di passare la notte fuori. Restammo al bar della stazione fino alle 7 del mattino tra le risatine isteriche e i caffè fissando i turni di guardia.
La mattina dopo dormimmo sul divano a turni, vestiti, con le scarpe ai piedi. Le scosse continuarono per lungo tempo. La prima settimana la passai sul divano, non volevo dormire in camera, volevo essere vigile, mi svegliavo ad ogni movimento, ci si urlava dalle stanze “Tutto ok?” per sapere che c’eravamo l’uno per l’altro, che vivevamo lo stesso incubo. Una borsa davanti alla porta ce lo ricordava ogni giorno: la borsa della sopravvivenza dei “pronti alla fuga”….chiavi di casa, una bottiglia d’acqua, dei biscotti, una copertina e un pacchetto di sigarette.
Lui non mi rispose a quel messaggio. Passarono i giorni e non mi scrisse. Non mi chiese come stavo, non mi disse una parola…quando io gli chiesi spiegazioni mi disse che si stava risentendo con la sua ex che ovviamente non ero io. Io non avevo meritato neanche un come stai dopo aver vissuto quel inferno, neanche un grazie per averlo avvertito di quanto fosse successo alla sua terra, di aver pensato a sua madre.
La notte del 20 maggio 2012 la terrà tremò e il mio cuore si spezzò per sempre. Non fu l’essersene andato che lo fece diventare di vetro, fu la scoperta della capacità degli altri di essere tanto disumani, del sapere che per quanto il tuo cuore possa essere puro incontrerai sempre qualcuno senza un’anima pronto a cancellare ogni traccia di te d’improvviso. Come un terremoto, arriva senza che tu possa prevederlo, senza che i rilevamenti ti dicano che sta arrivando, qualcosa che prescinde dal controllato che arriva e spazza via tutto senza avvertimenti.
In fondo è la natura e non puoi farci niente. Puoi solo imparare a convivere con la paura delle aspirapolveri e con il cuore di vetro.