Ieri riflettevo, a volte mi capita. Ci sono persone sempre lancia in resta pronte ad affrontare le difficoltà con il dovuto coraggio, a trovare la risposta al momento opportuno, ad accettare le situazioni con la loro buona dose di incognite, a rimboccarsi le maniche e buttarsi nella mischia; cavalieri del quotidiano senza macchia e senza paura, si fa per dire, che sembrano saper vivere sempre in prima linea come spesso la vita richiede. Brave, le ammiro, bella energia, io invece (sic!) sono diventata specialista nel tagliar la corda; se fossi scrittore parlerei molto più elegantemente di "arte della fuga", credo anzi che in Francia sia uscito un libro con questo titolo, ma siccome purtroppo non lo sono, mi accontento di un prosaico "tagliar la corda". Già, come un buon segugio da tartufi ho imparato a fiutare da lontano la puzza di bruciato, il rischio di una possibile ferita, una situazione in cui rischierei di trovarmi a disagio, l'incontro con una persona che in perfetta buona fede e senza magari rendersene minimamente conto intuisco fonte di problemi, e allora evito, mi allontano, non mi metto in situazione, taglio appunto la corda. Non credo sia una scelta nobile e coraggiosa o un metodo strategico da imparare sui banchi di scuola, probabilmente anzi si tratta di codardia o pigrizia, ma è un manuale di sopravvivenza che negli anni sto mettendo a punto e poi, a forza di sentirsi dire che bisogna volersi bene e imparare a pensare anche a se stessi, si finisce per ascoltare e magari provare. Sarà anche colpa dei miei geni, di quella che Bruno Bettelheim definiva "la mentalità del ghetto", ma il fatto è che la violenza, anche nelle sue forme più blande e apparentemente innocue come un certo tono di voce, un modo non attento di rivolgersi, mi blocca. Non sono mai stata capace di urlare, di diventare paonazza rischiando di far scoppiare la giugulare, di sbattere la porta, di rompere i piatti, di brandire la scopa come Olivia contro Braccio di Ferro, di incanalare "fuori", come dicono gli addetti ai lavori della psiche, le mie pulsioni nefaste, la mia aggressività. Andare in escandescenze, nei limiti s'intende del lecito, forse non è poi così terribile come credevo, ti incazzi da morire, sbraiti per dieci minuti, ti sfoghi per benino e poi passa tutto. No, io sto zitta e immobile, mi viene il mal di stomaco e poi rimugino per anni, un disastro, figuriamoci se mollo la sigaretta, unico sublimatore esterno di ansie interiori. Da questa mia incapacità reattiva di "esternare" è scaturita la messa a punto del tagliar la corda. Certo gli si può attribuire una valenza totalmente negativa, chi non risica non rosica, non hai le palle, eviti invece di affrontare, magari chissà cosa ti perdi, ma le elucubrazioni della mente permettono anche una lettura opposta, quella in positivo, finalmente hai imparato a dire qualche no, riconosci ed accetti le tue fragilità e ti proteggi fegato e salute che non guasta.
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Ieri riflettevo, a volte mi capita. Ci sono persone sempre lancia in resta pronte ad affrontare le difficoltà con il dovuto coraggio, a trovare la risposta al momento opportuno, ad accettare le situazioni con la loro buona dose di incognite, a rimboccarsi le maniche e buttarsi nella mischia; cavalieri del quotidiano senza macchia e senza paura, si fa per dire, che sembrano saper vivere sempre in prima linea come spesso la vita richiede. Brave, le ammiro, bella energia, io invece (sic!) sono diventata specialista nel tagliar la corda; se fossi scrittore parlerei molto più elegantemente di "arte della fuga", credo anzi che in Francia sia uscito un libro con questo titolo, ma siccome purtroppo non lo sono, mi accontento di un prosaico "tagliar la corda". Già, come un buon segugio da tartufi ho imparato a fiutare da lontano la puzza di bruciato, il rischio di una possibile ferita, una situazione in cui rischierei di trovarmi a disagio, l'incontro con una persona che in perfetta buona fede e senza magari rendersene minimamente conto intuisco fonte di problemi, e allora evito, mi allontano, non mi metto in situazione, taglio appunto la corda. Non credo sia una scelta nobile e coraggiosa o un metodo strategico da imparare sui banchi di scuola, probabilmente anzi si tratta di codardia o pigrizia, ma è un manuale di sopravvivenza che negli anni sto mettendo a punto e poi, a forza di sentirsi dire che bisogna volersi bene e imparare a pensare anche a se stessi, si finisce per ascoltare e magari provare. Sarà anche colpa dei miei geni, di quella che Bruno Bettelheim definiva "la mentalità del ghetto", ma il fatto è che la violenza, anche nelle sue forme più blande e apparentemente innocue come un certo tono di voce, un modo non attento di rivolgersi, mi blocca. Non sono mai stata capace di urlare, di diventare paonazza rischiando di far scoppiare la giugulare, di sbattere la porta, di rompere i piatti, di brandire la scopa come Olivia contro Braccio di Ferro, di incanalare "fuori", come dicono gli addetti ai lavori della psiche, le mie pulsioni nefaste, la mia aggressività. Andare in escandescenze, nei limiti s'intende del lecito, forse non è poi così terribile come credevo, ti incazzi da morire, sbraiti per dieci minuti, ti sfoghi per benino e poi passa tutto. No, io sto zitta e immobile, mi viene il mal di stomaco e poi rimugino per anni, un disastro, figuriamoci se mollo la sigaretta, unico sublimatore esterno di ansie interiori. Da questa mia incapacità reattiva di "esternare" è scaturita la messa a punto del tagliar la corda. Certo gli si può attribuire una valenza totalmente negativa, chi non risica non rosica, non hai le palle, eviti invece di affrontare, magari chissà cosa ti perdi, ma le elucubrazioni della mente permettono anche una lettura opposta, quella in positivo, finalmente hai imparato a dire qualche no, riconosci ed accetti le tue fragilità e ti proteggi fegato e salute che non guasta.
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