Sono trentasei le province che verranno accorpate grazie al decreto di prossimo varo in Consiglio dei Ministri. Se ne parla da una vita, ma si è dovuto attendere il rischio di un crac della finanza pubblica per far approvare, con l’acqua alla gola, il provvedimento sulla spending review. Qui, tra le altre cose, si era parlato proprio di soppressione o riorganizzazione delle province. Poi, dal disegno di legge passato dal Senato a fine luglio, l’articolo 17 era stato derubricato ad un semplice «riordino delle province e delle loro funzioni».
Oggi, dopo interminabili pastoie, si attende per fine mese l’emanazione da parte del Governo di un decreto attuativo. Attuativo di cosa? L’art. 17 ridava la patata bollente ad una deliberazione del Consiglio dei Ministri atta a stabilire criteri e requisiti minimi per l’auspicato riordino. Tali criteri sono stati poi individuati in una popolazione di almeno 350 mila abitanti ovvero un’estensione territoriale non inferiore ai 2500 chilometri quadrati. Questo non potrà che avvenire con un nuovo atto legislativo.
Ma dalla sforbiciata sono escluse le Regioni a statuto speciale, i capoluoghi di regione e le province confinanti con province di Regioni diverse. Positiva, poi, l’eliminazione del duplicato provincia-città metropolitana. E così per Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria cadranno un po’ di poltrone. Dovevano essere le Regioni a presentare al Governo delle proposte di riordino e, dopo una serie di consultazioni, lo hanno fatto. Una dopo l’altra, il fascicolo è stato chiuso in meno di 90 giorni, grazie alla collaborazione fattiva dell’Unione Province Italiane.
Per le Regioni a statuto speciale, invece, era stato previsto un termine maggiore. Sei mesi per conformarsi ai principi della spending review. Ad oggi l’unica Regione ad essersi mossa è la Sardegna, che con un referendum ha dimezzato le sue province da 8 a 4. In Friuli Venezia Giulia alle province sono stati lasciati solo compiti consultivi mentre ancora Sicilia, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige non hanno proferito parola. L’esito della riforma, una volta portata a termine, sarà un trasferimento di competenze un po’ macchinoso: i compiti amministrativi inerenti alle materie di competenza legislativa esclusiva statale (per capirci: il comma secondo dell’art. 117 della Costituzione) vengono trasferiti ai comuni.
Qual è il risultato pratico? Che le attuali 86 province diventeranno 50, salvo ulteriori tagli nelle Regioni a statuto speciale. E che il passaggio alla nuova mappa amministrativa avverrà per mano di commissari ad hoc. Tutti gli organi provinciali, dunque, da giugno 2013 verranno azzerati. E i dipendenti? Il Ministro Patroni Griffi risponde al Corriere: «Nell’immediato, nessuna contrazione del personale, al massimo uno spostamento fisico». Il risparmio dello Stato, dunque, non deriverà da risparmi nei costi del personale, posto che i dipendenti non saranno tagliati. Verrebbe in mente, allora, una considerazione che rischia di risolversi in una pura petizione di principio: ma queste province, piuttosto che riordinarle, non potevano direttamente abolirle?
YC