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Tamaryokucha kama-iri, o di un tè giapponese travestito da cinese

Da Lasere


Ed eccomi di ritorno dalla trasferta spoletina! (sì, be’, son tornata da una settimana, in verità :-)… Prima di parlare di tè le volete vedere due fotine due che non c’entrano un fico secco con il resto del post? Orbene:

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Il Duomo di Spoleto ha merletti di pietra, sulla facciata. Il Ponte delle Torri, invece, a vederlo in un tardo pomeriggio di metà febbraio, tra il lusco e il brusco, pare un’illusione di nebbia e luce alta quasi cento metri; ad attraversarlo si arriva sul Monteluco, fatto di bosco e scolpito di grotte di antichi eremiti. Poco lontano, tra pareti color pastello nascoste tra strette viuzze petrose, si solevano sorseggiare tazzoni di tè nero ai frutti rossi e vaniglia (questo) con contorno di confetti alla fragola e taaanti biscottini…

 

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Dei tre pacchettini in arrivo di cui vi avevo accennato nel pre-partenza, due li ho effettivamente trovati sulla scrivania in trepidante attesa del mio ritorno, e ancor prima di togliermi il cappotto ero già lì, forbici alla mano, intenta a tagliare scotch e sacchettini con (s)misurato slancio, curiosissima dei profumi che vi avrei scoperto all’interno.

Uno dei due pacchetti proveniva da un nuovo negozio online di tè giapponesi (“Thés du Japon”, si chiama/chiamerà), appena nato dall’appassionata esperienza di un blogger francese – ma che risiede e lavora nel campo del tè in Giappone – che stimo particolarmente; l’annuncio è già stato dato e gli ordini sono già possibili via email, ma per il prossimo futuro è previsto il lancio di una vera e propria piattaforma di e-commerce che renderà l’acquisto ancor più confortevole: ho pertanto deciso di attendere l’inaugurazione “ufficiale” per presentarvela a dovere. (edit: ne ho poi parlato qui)

Voi non avete idea (o forse sì! ;-)) dei profumi che si son sprigionati non appena l’aria si è fatta strada tra le foglie, vincendo il sottovuoto: profumi di una tale ricchezza, intensità, dolcezza… Uno tra quelli che mi hanno maggiormente colpita appartiene al tè di cui vi voglio parlare: un Tamaryokucha Kama-iri, la cui caratteristica saliente risiede, oltre che nell’inconsueta forma, nella lavorazione mediante calore secco anziché umido, cioè a dire alla maniera cinese anziché tipica giapponese.

Interrompere l’ossidazione: Cina VS Giappone
Il tè verde, com’è noto, è un tè le cui foglie non siano andate incontro ad ossidazione (o comunque lo siano in misura irrisoria). Il processo di ossidazione che le foglie subirebbero naturalmente può essere interrotto sottoponendole al calore poco dopo la raccolta. In Cina a tal fine si utilizza un calore secco, esente da vapore, che raggiunge le foglie tramite il contatto diretto con le pareti di wok posti su fuoco di carbone (in passato) o di più moderni forni elettrici o a gas. In Giappone, al contrario, la lavorazione tipica attuale inibisce il processo di ossidazione tramite calore umido, con una sorta di breve “cottura al vapore” delle foglie.

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Foto fatta con il cellulare causa molta fatica di prendere la macchina “seria”…
Sono una tea-blogger orribile! ;-(

Il Kama-iri cha è più genericamente un Tamaryoku cha, che più o meno significa “tè arricciolato” (talvolta chiamato anche Guri cha, dove “Guri” ぐり allude alla particolare forma “a truciolo”): le foglie, infatti, non hanno la tipica forma ad aghetto del Sencha o del Gyokuro, bensì appaiono birichinamente arricciolate in piccoli ghirigori o “virgole”, come vengono descritte di solito.

Fino a poco fa ero convinta che “Tamaryokucha” fosse sinonimo di tè giapponese lavorato alla maniera cinese, supportata nella mia idea anche da informazioni approssimative riportate su diversi libri; e invece no. Sfatiamo dunque una volta per tutte questa errata convinzione: il termine “Tamaryokucha” si riferisce esclusivamente alla forma delle foglie e non necessariamente al metodo usato per interrompere l’ossidazione; e anzi, al giorno d’oggi la maggior parte dei Tamaryokucha sono sottoposti al vapore come qualsiasi altro tè giapponese, e i Kama-iri sono una rarità in via d’estinzione. Qualora vi troviate ad acquistarne, dunque, richiedete un’adeguata chiarezza da parte del venditore.

Riassumendo, esistono due tipi di Tamaryokucha:
(dove “sei” 製 significa “fatto”)

  • Tamaryokucha Mushi-sei (o Mushi-guri)> tè arricciolato trattato al vapore (mushi 蒸し significa appunto “al vapore”), alla maniera giapponese; apparso nella prima metà del ‘900, ai giorni nostri è il più diffuso tra i due, tanto che quando in Giappone si parla di Tamaryokucha senza altre specificazioni con ogni probabilità ci si riferisce a questo tipo
  • Tamaryokucha Kama-iri-sei (o Kama-guri)> tè arricciolato trattato con calore secco (kama 釜 designa il recipiente usato per tostare – “iri” 製 – le foglie ponendole a contatto con le pareti roventi), alla maniera cinese; è il Tamaryoukucha originale, risalente al periodo Edo, nonché al giorno d’oggi il più raro e misconosciuto tra i due

Sorseggiare un Kama-iri cha equivale perciò a fare un balzo indietro nel tempo, quando il Sencha come lo conosciamo noi ancora non esisteva, la lavorazione a vapore era riservata esclusivamente al pregiato Matcha e il tè più diffuso era appunto questo Kama-iri, apparso intorno al 16° secolo e lavorato tramite la tecnica appresa dai cinesi.
Il Sencha trattato al vapore, invece, farà la sua comparsa soltanto nel 18° secolo, e nonostante questo il Kama-iri resterà il tè predominante all’incirca fino a metà Ottocento, quando la produzione ed esportazione di Sencha si intensificherà fino a soppiantarlo quasi completamente. (fonte)

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La personalità un po’ ibrida di questo tè mi ha spinta a prepararlo in una teierina di vetro anziché in un kyusu giapponese come faccio di solito (nel senso che di solito proprio non riesco a concepire la preparazione di un tè verde giapponese senza apposito kyusu, ecco ;-). Ad accompagnarlo, un burroso biscottone al Matcha preso da La Via del Tè (Firenze), perfetto nel richiamarne la fonda dolcezza nonché la lieve punta di amarezza finale.

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Il Kama-guri di cui sono attualmente provvista è un ichibancha (prima raccolta) del 2010 proveniente da Ureshino (prefettura di Saga, sull’isola meridionale di Kyûshû), luogo storicamente consacrato alla produzione dei Tamaryokucha.
Il cultivar (sottovarietà botanica sorta per domesticazione e selezione) da cui proviene è lo Yabukita: il più diffuso, normalmente impiegato nella produzione del Sencha.

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Questo imponente albero di tè, con i suoi oltre 300 anni d’età e il suo diametro di circa 80 metri, è Tesoro Storico Nazionale giapponese. Si trova ad Ureshino, sul Monte Fudou, a memoria del samurai Yoshimura Shinbey, che per primo intraprese la coltivazione del tè in questi luoghi intorno alla metà del 17° secolo.

L’aroma delle foglie asciutte fa innamorare: è penetrante, poliedrico, con sfumature che mi hanno ricordato ora le mandorle fresche ora il sedano, e una ricchezza intensamente vegetale, pur smussata da una piacevolissima e chiara nota tostata che rimanda al processo di “tostatura” tipico cinese e che può vagamente ricordare, in dolcezza, quella di un Long Jing (vagamente, eh!, ché le note asciutte di un buon Long Jing sono qualcosa di unico e imparagonabile :-).

A contatto con l’acqua, però, ci mette un niente ad affermare il suo essere prima di tutto un tè risolutamente giapponese: emergono sfumature morbide di latte e bietole cotte, che si evolvono poi in un infuso dal gusto come di mandorle e linfa d’erba giovane, senz’altro più rotondo rispetto ai “normali” Sencha; la nota tostata, fattasi adesso quasi impercettibile, lascia il posto ad un discreto umami che evoca la dolce e suadente corposità del Gyokuro, seppure in tono ovviamente minore: si tratta infatti di un tè tutto sommato leggero al palato, con una sua soavità tutta cinese, se così si può dire. L’astringenza è minima, e comunque in perfetto equilibrio con la dolcezza; il retrogusto sapido e rinfrescante, grazie anche ad una timida punta di amarezza che fa capolino nel finale, a stimolare la salivazione.

Un tè decisamente affascinante, insomma, generoso oltre la media (difficile smettere di usare le stesse foglie, tanto appaganti sono le successive infusioni) e dotato di una multiformità inedita quanto composta in un insieme d’intonatissima armonia, a cavallo tra Giappone e Cina.

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(foglie infuse)


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