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Già in piedi alle sei del mattino, Laura si guarda in cerca di un’espressione meno afflitta.
Ma quella che ha è l’unica, almeno in quel momento.
La donna, al sesto piano di un palazzo a un passo dalla tangenziale, fra tre ore dovrà stare in camice al fianco del Dottore, quello stronzo che guadagna il quadruplo di lei, quello puntuale che nemmeno sono le nove e già taglia e tampona.
Consuete disparità umane.
Di quel giorno, non riesce proprio a vedere la fine, strano, perché il suo destino lo vede sempre chiaramente, scritto a caratteri cubitali nel suo dna: una gabbia dalla quale non potrà uscire mai.
E quel futuro calcato sulla sua pelle chiara è sempre lo stesso, da quindici anni. Come un livido, come una cicatrice.
Tira su la maledetta ciocca troppo lunga che in parte le copre la fronte troppo alta, e tira su anche gli angoli della bocca, pare che sorrida, ma è solo un movimento involontario. Il sorriso, l’ha lasciato sull’altare il giorno delle nozze, dimenticato assieme all’accrocco di fiori economico, nauseante e pacchiano.
È pesante il respiro dell’uomo che ora dorme di là e quel giorno le stava accanto in chiesa, una chiesa che di qualunque aveva anche il nome, una concezione immacolata o un’assunzione, poco importa, almeno adesso. E quel respiro, che assomiglia più a un rantolo, le dà il ritmo e una ragione in più per fare in fretta.
Cerca di immaginare che giorno sarà. Le finestre del palazzo di fronte riflettono un cielo maledettamente chiaro, luminoso anche da lì. Non doveva esserci il sole, quel giorno l’aveva sempre immaginato buio, in ombra.
Accende il televisore ultrapiatto, lo fa ogni mattina, è un’abitudine, ma è troppo grande per quella cucina stretta e buia, per quella vita senza spiragli da cui guardare, verso cui andare, fra quattro mura ultraleggere che sembrano cartone quando senti il vicino che tira la catena del cesso e che rutta –capita!-.
Non crede ancora che sia successo proprio a lei che non ha più nemmeno l’età giusta per darla via a un buon prezzo, e che, forse, se anche l’avesse, nemmeno sarebbe così furba da darla via a quello giusto!
E pensa, Laura pensa che deve fare il caffè e che quella giornata è nata storta per quanto buio fitto vede davanti a sé e per quanto sole c’è fuori.
Mette l’acqua e il filtro, il caffè ha sempre un buon profumo, anche in una casa come quella, anche se è la quarta volta in un mese che si è rotto l’ascensore, anche se quello, di là, respira come un trattore.
Quando accende il gas, Laura è già alla conclusione che stasera troverà il tempo per farsi un bagno bollente e mettere lo smalto mentre quello guarda l’anticipo di serie A.
Una gioia per lei, che può evitare di parlare, di mettere in fila tre frasi sensate per dire che va tutto bene quando invece non è vero niente.
E speriamo pure che vince, che così poi sta tranquillo per una settimana, e magari la porta pure da qualche parte, in un centro commerciale, che lì si sta freschi e ci va pure il fratello, così se ne stanno tranquilli a parlare.
E tiene, fra le dita, coltello e biscotto, e ci mette un sacco di burro: che magari gli si alza pure il colesterolo e magari muore!
Si morde le labbra eppure sorride, in piedi, e con quell’idea in testa.
Quella che le viene tutti i giorni, appena aperti gli occhi.
Aspetta che esca il caffè, e domanda al tempo che si fermi solo un attimo, per lasciarla pensare a cosa si prova a fare il gesto finale, quello che proprio non si può dire, quello che quando lo guardi in tv, ci ridi sopra perché è solo finzione!
Quei particolari li ha già ripetuti troppe volte in mente, anche a bassa voce, sotto la doccia, quando quello dorme, come una preghiera, come un salmo, notte e giorno, sempre. Ai piedi, Laura ha pantofole vecchie ma in testa un solo obiettivo.
Lui dorme dove il buio è ancora più fitto, in quella stanza dove il sole non c’è mai, e porca puttana si è smagliata la calza!
E il rantolo dell’uomo nel letto si è fatto più breve.
Cerca qualcosa da mettere, qualcosa di comodo e poco appariscente, il solito jeans e la maglia nera, quella aderente.
Lascia stare il caffè che è uscito, chi se ne frega, lo berrà freddo.
Da una rapida occhiata ai chilometri che ha davanti, in piedi a quella cazzo di poltrona da dentista, davanti allo spettacolo poco edificante di una bocca spalancata e facce contorte: un’umanità sofferente e brutta.
Lasciamo perdere il rientro! E ha già in mano la soluzione al problema: fanculo alle conseguenze, fanculo ai pregiudizi, fanculo a tutti, e siede in cucina. Adesso ha accanto a sé una piccola valigia.
Quando impugna la stilografica del marito, quella della Laurea che avrebbe l’inchiostro secco non fosse stato per lei, che ci faceva la settimana enigmistica fra un semaforo e l’altro. Laura sente il traffico farsi più denso, e l’odore pungente delle polveri sottili.
Scrive qualcosa, ha fretta, guarda il caffè ormai freddo e le idee sono di nuovo confuse: il tempo è finito.
Prende la valigia rossa, è così vecchia perché Laura non viaggia, così leggera perché i suoi sogni si sono fatti sottili.
Pensa che quell’uomo non sa nemmeno allacciarsi le scarpe da solo. Che quell’uomo, da solo, non vivrà.
Sta ancora in piedi sulla soglia della porta, incerta, non sa nemmeno dove andare, rinchiusa da anni in un rapporto a due che non sopporta più la vista degli altri, il paragone con vite, forse, meno infelici e meno grigie.
Lui la chiama che Laura ha già il piede fuori dalla porta, il sinistro, quello del cuore e del dito dove portava l’anello.
Al secondo -vaffanculo - di quel farabutto, urlato che ancora sta nel letto, e la donna ha il sinistro sulla frizione.
Quando quel grosso maiale, in piedi in cucina, grattandosi l’uccello, arriva all’ultima riga, Laura è ferma all’Autogrill e domanda il pieno.
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