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Tangerines (Mandariinid), l’Estonia agli Oscar 2015

Creato il 18 gennaio 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Mettete dei mandarini nei vostri cannoni. Quei frutti della natura e del lavoro dell’uomo sono il simbolo di una vita semplice e nobile che la guerra scuote irreversibilmente. Mandarini e non bombe, da mangiare e non da lanciare. Ma devono essere colti per far sgorgare fuori il dolce succo della pace…

tangerinesTangerines (Mandariinid) di Zaza Urushadze, candidato dell’Estonia nella cinquina degli Oscar 2015 per il Miglior Film Straniero, ricorda No Man’s Land (2001) di Danis Tanović per il messaggio pacifista che vuole trasmettere, ma non ha il vigoroso tono di denuncia dell’esordio del regista bosniaco. Tangerines si schiera sul fronte del silenzio, delle poche parole ma buone, di sguardi decisi, di gesti impercettibili. E ci conduce in un angolo nascosto di una guerra dimenticata.

1992. La regione dell’Abcasia, costellata di pacifici villaggi estoni sin dal 19esimo secolo, sta lottando per separarsi dalla Georgia portando avanti una guerra sanguinosa. Tanti estoni fuggono, ma non Markus e Ivo che decidono di rimanere nel loro villaggio natale, terra di mezzo tra i due fronti. Markus resta perché vuole raccogliere i suoi mandarini, mentre Ivo, falegname, lo aiuta costruendo cassette di legno per la raccolta. Un giorno davanti alle loro case si consuma uno scontro armato tra georgiani e ceceni. Sopravvivono un ceceno (Ahmed) e un georgiano (Niko), acerrimi nemici che Ivo (r)accoglie sotto lo stesso tetto per curarli dalle gravi ferite riportate. L’uno vorrebbe uccidere l’altro, ma hanno giurato di non farlo in casa di chi ha salvato loro la vita…

Tangerines è un piccolo film dal cuore grande, che sa essere intenso senza alzare mai la voce, catturandoci piano piano. Tangerines ha il suo punto di forza in una sceneggiatura nella quale nessuna parola è superflua o sprecata. Tutto è misurato, centellinato, come in un’economia di sussistenza, come il numero di quelle cassette che Ivo quotidianamente pialla e inchioda in vista della raccolta dei frutti.

Il regista georgiano instilla in Tangerines atmosfere alla Cechov dietro volti (estoni) alla Bergman, sviluppando con estrema asciuttezza e sentito calore umano una vicenda che vorrebbe ricordarci la stupidità di ogni guerra. Ma quest’ultima, pur dietro un messaggio pacifista, ha la meglio, tanto che Ivo, oramai disilluso, brinderà alla morte. E il disincanto è così profondo che, rimasto solo, resterà in attesa di chissà che cosa, forse proprio della Fine mascherata come ne Il settimo sigillo del maestro svedese.
La guerra pota vittime, non rami. La pace rimane lassù, appesa su quegli alberi colmi di mandarini da cogliere e che forse finiranno per marcire e poi cadere. Stessa sorte pare toccare alla pace. Ma Zaza Urushadze lascia questo “messaggio” sospeso, abbozzato. Ad ogni singolo spettatore la scelta se coglierlo o meno.

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