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Quarto film di Alexander Zeldovich, regista russo non particolarmente prolifico, un mediometraggio nel 1986 e poi tre film compreso Mishen (2011, presentato al Festival di Berlino) spalmati negli ultimi vent’anni, e identico numero di sceneggiature per Vladimir Sorokin, scrittore nato a Bykovo pubblicato in Italia per i tipi di Einaudi, e già autore di 4 (2005), discreta follia cinematografica sopra le righe (e di tanto) che vale il recupero; l’orchestrazione musicale, invece, porta la firma del compositore stimatissimo da Zeldovich Leonid Desyatnikov, che per l’occasione ha creato uno score di 90 minuti capace di rendere ancor più colossale una durata complessiva di per sé massiccia, sono infatti quasi tre le ore che compongono Target, una pellicola, e questa è l’ultima noiosa informazione, promesso, prodotta dalla Ren Film, compagnia che dal 2003 a oggi ha finanziato soltanto due lungometraggi, questo e Il ritorno di Zvyagintsev.
Dei molteplici sguardi ravvisabili in Mishen si può individuare una triade cardinale che permette lettura, movimento e profondità; e allora è giusto partire dal genere-contenitore, ovvero quell’assunto fantascientifico che sia nella composizione degli interni casalinghi, sia in quella degli oggetti tecnologici avanzati (automobili e laptop) e sia – soprattutto, e ciò dovrebbe far pensare di come nelle previsioni immaginarie del futuro sia sempre presente il vecchio tubo catodico… – nella ricostruzione delle trasmissioni televisive si abbevera a tutto quel filone distopico o pseudo tale molto in voga tra gli anni ’80 e ’90. Zeldovich comunque offre un taglio attuale (nonché personale) dell’argomento con una regia eccitatamente montata che, anche grazie all’uso della computer grafica (e l’ultimo opulente e mastodontico carrello all’indietro ne è la prova), non conosce tempi morti nonostante la corposa durata; il ritmo concitato con cui vengono proposti gli elementi della storia obbliga sempre a mantenere desta l’attenzione, anche se, vista la mole di dati, in alcuni frangenti c’è la necessità di ritornare su qualche passaggio la cui chiarificazione non è garantito che avvenga. Detto ciò, Zeldovich, dal momento in cui il gruppo entra nel target (vi stazionano dentro, nel buco, per una notte) si dimostra sempre meno interessato alla copertina sci-fi, ed è qui che emergono le altre due fondamentali vedute.
Perché Mishen è un’opera politica, certo allegorica ma ben assestata su coordinate che giocoforza imprimono siffatto taglio; lo è nel raccontare la vita di un Ministro (e l’escamotage degli occhialetti che individuano il bene e il male dentro le cose, e dentro le persone, è uno strumento che ogni organo governativo vorrebbe avere, a patto di non guardarsi allo specchio), e lo è nell’esplorare, ok, forse senza addentrarcisi troppo, un Paese la cui visione futuristica è (con molte probabilità) sarcasticamente utopica, finanche post-putiniana, una simbiosi tra progresso iper-avanzato e avvicinamento umano alla natura (i cibi biologici), e in tutto questo spicca la costante presenza della Cina che sottoforma di programmi radiofonici, guru multimediali a cui confidarsi e superstrade brulicanti di camion diretti proprio verso di lei, certificano l’attuale andamento globale che proiettato nel 2020 si tramuta in una sua leadership economica e culturale. Tali riferimenti, tanto costanti quanto stranianti, conferiscono una dose naif al film che sotto il nonsense apparente cova della brace crepitante: non è apertamente un film di “denuncia”, e tutto sommato, per gli argomenti da delucidare, la cosa non guasta affatto.
Poi sì, la mera trama è tutta un ordito incentrato sulle relazioni tra i cinque più uno esseri umani che calcano la scena, sicché l’ultimo sguardo che a noi interessa è quello di Zeldovich che si mette a scandagliare la sfera umana. Partendo da una premessa che vabbè (la upper class a cui non manca niente eppure manca tutto), la questione “eterna giovinezza”, con il mishen che si rivela una sorta di MacGuffin, squaderna l’essenza dell’umanità sotto esame, la quale, scrollatasi di dosso quella maturità propria dell’essere adulto, precipita in un turbine sentimentale da cui non vi è scappatoia (infatti l’unico modo per continuare a vivere è separarsi e fissare un appuntamento fra… 30 anni!), uno sciame sismico dove non fanno fatica ad emergere sentimenti abbietti dietro IL (?) sentimento: si uccide per una banale discussione, si uccide per vendetta (figlia della gelosia), si viene uccisi con una sprangata in testa (nel decameronesco finale, chiosa puntuale per sottolineare quell’inutile abbondanza), ci si uccide buttandosi sotto un treno. Il dito di Zeldovich punta all’eccesso di bramosia, il volere tutto e per sempre cruccio di chi già possiede molto, e se leggendo queste righe il succo dell’opera apparirà raffermo, è nella complessità di esposizione che la (chiamiamola) critica verso un preciso livello della società – e non importa se futuristica – si scrolla di dosso la possibile patina moraleggiante al pari di una altrettanto possibile insinuazione sentenziosa.
Con pochi dubbi: un film sovraccarico, uno zibaldone moderno che comunque, a visione terminata, lascerà interrogativi inevasi, ma ad ogni modo cinema vivo ragazzi, che pur rischiando di tracimare nel ridicolo (almeno due amplessi lo tangono pericolosamente) sa osare, si prende il rischio di risultare sconclusionato, elusivo e lambiccato lasciando però il gusto stimolante del kolossal sommerso: Mishen è cinema-azzardo senza mezze misure: ditegliene di ogni a Zeldovich, non che sia uno senza coraggio.
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